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Autore: FairySweet    10/11/2012    3 recensioni
Era un'idiozia, un'idiozia bella e buona ma che altro avrebbe potuto fare? Restare a guardare mentre la sua persona si lasciava trascinare nel nulla? Era certa di aver sbagliato, l'aveva capito già pochi minuti dopo averla trascinata via dall'ospedale ...
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cristina Yang, Meredith Grey
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nona stagione
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                                                                                      Dietro ad un vetro di Ghiaccio 









Era dietro ad un vetro, uno stupido e fottuto vetro che non la lasciava libera di respirare, di parlare, di muoversi.
Incatenata al gelo di un istante, lontana da tutto quello che ricordava di essere e così vicina al nulla da tremare, freddo, freddo e nient’altro perché in quel mondo sedato e pieno di silenzio c’era solo quello, un freddo insistente e gelido che la soffocava impedendole di ritornare a vivere.
Voleva uscire, voleva prendere la mano di suo marito, stringerla forte, così forte da fargli male eppure, ogni volta che provava ad avvicinarsi, ogni volta che provava a sfiorarla, il terrore tirava più forte le catene che la tenevano imprigionata a quel letto e calde lacrime silenziose a spaccare un cuore tutt’altro che freddo.
Lei, lei e nient’altro, lei e i battiti violenti del cuore, il suo cuore, l’unica cosa viva, l’unica cosa che urlava “Sono qui, ci sono io con te” e non riusciva a respirare, non riusciva a muovere nemmeno una mano come poteva pretendere di sorridere? Di parlare? Forse si era dimenticata le parole, forse si era dimenticata il suono che la voce poteva creare o forse, la colpa era di Lexie, del suo corpo fatto a pezzi dagli animali, così dannatamente vivido in lei da tenerla sveglia la notte.
Colpa del gelo, del silenzio, colpe che si accavallavano una sull’altra e lei, inchiodata lì sotto, costretta a reggere il peso di una vita ingiusta che non aveva scelto, che non poteva controllare e che ora, portava dentro.
Ogni passo che avrebbe fatto, ogni parola, ogni stupido sorriso, ogni lacrima,  tutto maledettamente impregnato dal ricordo di quelle notti insonni.
Forse non era poi tanto male, insomma, vivere in un mondo che nessuno poteva toccare era un vantaggio, non avrebbe sofferto perché i sedativi toglievano al dolore ogni arma, lo rendevano indifeso, una cosa piccola e senza senso, una cosa futile da rinchiudere nell’oblio dell’anima fino a quando, il cervello ormai guarito non avesse ritenuto opportuno affrontarlo, renderlo per l’ennesima volta innocuo e lontano.
Allora si sarebbe rialzata , avrebbe ripreso in mano la sua vita e lottato, contro sé stessa, contro suo marito per quel male che le aveva fatto e che ora, si univa a tutto il resto massacrandola nell’anima, costringendola a cambiare per l’ennesima volta, costringendola a mostrare una sé stessa illusoria come la realtà che stava vivendo.
Quanto aveva desiderato ritornare ad amare suo marito come prima, sentire i loro cuori battere assieme, in modo sincrono,  uniti da quel legame che aveva passato cose orribili, scelte, stress, pistole puntate alla tempia e poi un bambino figlio dell’amore che lei aveva ucciso, abbandonato a scelte non sue perché la natura, madre di ogni stupido essere umano, si era scordata di impiantare in lei il gene della compassione, del perdono, della gioia per quella piccola vita che ora non c’era più.
Quante volte avrebbe voluto chiudere gli occhi e dimenticare, spingere in fondo all’anima ogni ricordo per tornare a sorridere, a vivere, ad essere la stessa di sempre, la stessa che una volta lottava con le unghie e con i denti quando veniva ferita o presa in giro, la stessa ragazza che aveva operato da sola al secondo anno perché quel talento, il suo talento la candidava all’olimpo dei divini.
Una Dea di cardiochirurgia che brillava senza tregua  e invece, era arrivato  un tradimento, un tradimento pesante come un macigno perché figlio della rabbia, della voglia di farle del male da chi invece avrebbe dovuto solo amarla e poi l’incidente aereo, corpi stesi nel bosco, corpi massacrati dal freddo, lo stesso che ora l’avvolgeva, lo stesso che le mostrava quanto bello potesse essere abbandonarsi al nulla.
 



Solo il ticchettio dell’orologio ad accompagnare il niente di quello sguardo perso chissà dove “D’accordo, è il momento di parlare” esclamò sedendosi accanto a lei  “Cristina devi parlare perché vogliono portarti di sopra, vogliono riempirti di psicofarmaci e tu non ... devi parlare” eppure sapeva bene quanto inutile fosse parlare, tentare anche solo di convincerla a farlo “Owen sta provando in tutti i modi a farti  ... va bene, ok d’accordo” scostò la coperta sciogliendo i lacci che la tenevano inchiodata al letto “Ti aiuto io” le mani strette attorno alle sue e un dolcissimo sorriso a colorarle il volto “Ti aiuto io”  le sfilò il camice, il profumo tenue e delicato che aveva la sua pelle e il ricordo di quel profumo quando, sole e distrutte, dormivano assieme, vicine come sorelle, protette dal loro abbraccio dentro il quale, nessun amore, nessuna sofferenza, nessun uomo poteva vivere.
Le mancava la sua persona, le mancava davvero tanto perché ora, in questo momento aveva bisogno di lei, aveva bisogno di parlare con lei, di vedere i suoi occhi sorridere o scatenare l’ironia con battute gelide e pesanti, aveva bisogno di lei perché aveva perso una sorella in quell’incidente e non avrebbe permesso a Dio di prendersi anche la sua persona “Andrà tutto bene vedrai” mormorò avvicinando la sedia a rotelle “Starai bene di nuovo te lo prometto”.
Luci soffuse, sguardi strani e curiosi a spiarla mentre spingeva la carrozzella per i corridoi, sapeva bene di aver agito d’impulso ed era quasi certa che provare a fermare quella decisione sarebbe stato peggio.
I corridoi dell’ospedale, un piano, un’altro ancora con la speranza che Owen fosse lontano, distante da loro e poi il parcheggio, la consapevolezza di essere stata un’idiota e un debole sorriso a colorarle il volto mentre il rumore costante del motore invadeva l’aria “Starai bene” un sussurrò delicato, leggero, un respiro per tentare di convincere sé stessa mentre si allontanava dall’ospedale, dalla sua vita, dalla sua famiglia con l’unica certezza di non avere rimpianti perché lo stava facendo per l’unica persona che ancora la teneva inchiodata con i piedi per terra.
  
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