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Autore: Rainie    12/11/2012    3 recensioni
Gilbert ed Elizabeta. Niente di più, niente di meno. Perché forse erano stati separati a lungo e le cose erano cambiate, forse le persone vanno per la propria strada e loro tendono ad imitarle. Ma alla fine ritornano sempre allo stesso solito vecchio posto, gli stessi soliti vecchi loro stessi e per lo stesso solito vecchio motivo. In qualche modo.
Poi vi fu quel giorno in cui “Mi sposo con Austria”, e l’abbozzo di un sorriso rassegnato, e sul tavolo un bouquet di fiordalisi tanto simili a quello di quel giorno di tarda primavera [...].
Così, l’ultima cosa di cui furono consci furono le spalle dell’altro.

[ PruHun | Friendship/Romance | 3,988 words ]
Genere: Malinconico, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Prussia/Gilbert Beilschmidt, Ungheria/Elizabeta Héderváry
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Gilbert si fermò sotto la finestra dell’abitazione della nazione ungara, e cominciò a tirare pietre contro il vetro. Chi se ne importava se lo avrebbe rotto, inoltre in questo modo Elizabeta si sarebbe sicuramente irritata.
Infatti eccola lì, dopo qualche minuto ad aprire le ante e ad affacciarsi fuori con uno sguardo assassino a contrarle il viso. Prussia diede vita ad un ghigno vedendola in camicia da notte, ancora nel mondo dei sogni, tanto vivace seppure appena sveglia.
«Gilbert!» sbraitò lei, vedendolo nel suo giardino con un certo divertimento negli occhi. «Ti rendi conto di che ore sono?! Le 2 di notte, diamine!» gli ruggì. Il ghigno sulle labbra del prussiano si allargò, riconoscendo quel suo comportamento rozzo dei secoli precedenti.
«Lo so» rispose con semplicità, e ciò fece irritare ancora di più Elizabeta. Si divertì a sentirla ringhiargli contro – «Una ragione in più per non spuntare fuori dal nulla a casa di qualcuno!» – e quando ne ebbe abbastanza, le chiese: «Non è che stasera potrei dormire da te? Non ho proprio voglia di ritornare a casa mia, è troppo lontana.»
«Prego?!» esclamò lei, quasi orripilata al pensiero. Lui roteò gli occhi. «Andiamo, non è che sia la prima volta che lo faccio. Sono anche ferito, guarda.» Alzò la manica del braccio che presentava in quel momento una fasciatura riuscita male, macchiata del colore del sangue.
Elizabeta fece una smorfia. «L’avevo detto che restare neutrali era meglio,» borbottò, «e ad ogni modo, qualcosa del genere dovresti riuscire a sopportarlo perfettamente. Sai bene che ti ho visto in condizioni peggiori, Gil.»
Lui scrollò le spalle, al pensiero di tutte quelle volte che l’amica lo aveva aiutato a disinfettare le proprie ferite. Si sentì lievemente imbarazzato. «Allora, mi fai entrare o no?» domandò poi con tono impaziente. La vide aggrottare le sopracciglia, sospettosa. «Non ti farò niente, giuro. E prometto di non farmi più vedere a quest’ora d’ora in poi, va bene così?» aggiunse, in un tono allegro ed infantile.
Alla fioca luce della lampada da strada, Gilbert guardò un piccolo sorriso irrompere sul viso di Elizabeta, leggermente divertita. Alla fine diede uno sbuffo, «Aspetta un attimo, vengo ad aprirti» disse, e sparì nella semioscurità della propria camera.
Gilbert si affrettò alla sua porta di casa, con un sospiro di sollievo.
 
 
 
 
 
L’affezione
 
 
Per due giorni li spiò, li vide rifiutare qualsiasi cibo, bevanda e conforto, cercarsi come due ciechi che avanzavano a tentoni l’uno verso l’altra, li vide infelici quando languivano separati, ma ancora più infelici quando, una volta riuniti, tremavano davanti all’orrore di una prima aperta confessione.
Il romanzo di Tristano e Isotta
 
 
 
 
 
C’erano le nazioni. E c’erano diverse strade.
Forse era stato solo un incontro casuale, uno di quelli che erano destinati a spegnersi nella memoria delle persone prima ancora che se ne accorgano. Forse non era stato programmato, era un errore di calcolo, uno futile, uno insignificante, uno abbastanza piccolo da poter essere ignorato tranquillamente.
Ma accadde. Le spade si erano scontrate, il rumore metallico si era levato in aria, ed accadde. Sguardo feroce, attento, allarmato, smeraldo. Sguardo derisorio, presuntuoso, superiore, rubino. Si promisero rivalità.
Furono solo giorni e giorni dopo, quando le lame collisero ancora una volta, che il feroce “Io, Ungheria, non avrò pietà per te” e l’orgoglioso “Inchinati davanti al grandioso Ordine Teutonico” furono pronunciati, e l’errore di calcolo divenne qualcosa di più grosso, qualcosa da cui difficilmente si poteva tornare indietro.
Non l’avevano saputo.
Poco a poco, silenziosamente, gli scontri erano diventati scherzi, la ferocità chiacchiere, la rivalità alleanza (in qualche modo), ed i momenti liberi furono passati a raccontarsi aneddoti di battaglie.
E poi venne il tempo in cui una sottile barriera si innalzò tra di loro, quando il disagio si sentì allo scoprire il vero sesso di Ungheria, e Prussia non fece altro che maledirsi per la propria “non grandiosità” nel non capire che c’era veramente qualcosa di sbagliato.
«Dimmi, Ungheria, qual è il tuo vero nome?» le chiese, titubante, la giovane nazione dai capelli albini. L’altra lo guardò, e gli rispose fiera: «Già, non te l’ho mai detto. Elizabeta Hedervary, ora dimmi il tuo.»
Il borbottato “Gilbert Beilschmidt” sancì il silenzioso patto di un’amicizia-inimicizia di cui nessuno dei due, da allora, avrebbe potuto fare a meno.
C’erano diverse strade, e l’errore di calcolo li indusse a percorrere la stessa.
 
C’era il cambiamento. E c’erano le spalle rivolte verso l’altro.
«Non sembri per niente una ragazza» disse Gilbert, quando trovò l’altra nazione intenta a fasciarsi le ferite per l’ennesima volta. Quasi ci provava gusto a sbatterle quella verità in faccia, seppure ripensandoci, un po’ d’imbarazzo lo provava.
«Non che mi sia mai comportata da tale» rispose Elizabeta, trattenendo un gemito di dolore: l’Impero Ottomano le stava dando davvero del filo da torcere. «Non credo che ciò che sono veramente interessi a qualcuno.»
Nella testa della nazione dai capelli albini suonò un “A me interesserebbe”, seguito da un altro “altrimenti, se gli altri mi vedessero girare attorno ad un maschio, penserebbero che io sia gay”. E ancora, “Ma sono sempre stato attorno a ragazzi”, “Perché devo pensare ad Elizabeta così?”, “Siamo stati compagni per secoli”, e—
«Mi stai ascoltando?», la voce dell’altra fermò il suo treno di pensieri. La fissò per un momento. «Stavo solo pensando che probabilmente nessuno ti vedrà mai come una donna» ghignò Gilbert, prima di ricevere un pugno nello stomaco da parte dell’amica, furiosa: sapeva bene che le provocazioni funzionavano ancora, su di lei.
Riusciva a sopportare meglio di quando era più giovane, ma ciò non toglieva che Elizabeta aveva una forza bruta comunque. Tossendo, il giovane rappresentante la Prussia le riferì in tono derisorio: «Vedi che a te – cough – interessa?», e non sentì alcun rimorso nel calcio che gli tirò l’altra.
Rise, e non seppe perché. Forse stava semplicemente diventando folle.
Quando si riprese dai colpi, notò che Elizabeta era irritata non poco. Perché era restata lì? Forse si sentiva in colpa? No, Ungheria non si sarebbe mai sentita in colpa. Non lei. Si era seduta accanto a lui, con sopracciglia unite in un’espressione corrucciata, facendo perdere lo sguardo infastidito verso il panorama ungherese che si estendeva sotto di loro – il prussiano era solito ad andare a trovarla quando non aveva niente di meglio da fare.
E poi si decise, vedendo quel fiore in mezzo a qualche tulipano che cresceva su quel prato incontaminato, sotto il sole splendente in una tiepida mattinata di maggio. Un acceso color rosa, che spiccava nell’erba verde, e forse fu quello ciò di cui Gilbert aveva bisogno. Anche se inconsciamente.
Lo mise in mezzo alle ciocche di capelli dell’amica, magari in quel modo avrebbe potuto cancellare quella fastidiosa sensazione dall’inconscio – senso di colpa?
«Così sembri quasi più femminile» borbottò, sentendosi non poco impacciato, e se ne andò via, evitando la reazione dell’ungara. Sperava di non essere arrossito – il grande Prussia non arrossiva mai, dopotutto!
Nessuno dei due riuscì mai a proferir parola su quell’argomento nei seguenti secoli, sceglievano di tacere in un silenzio ignorante che rimanere in uno terribilmente imbarazzante.
Poi vi fu quel giorno in cui “Mi sposo con Austria”, e l’abbozzo di un sorriso rassegnato, e sul tavolo un bouquet di fiordalisi tanto simili a quello di quel giorno di tarda primavera, e un biglietto color crema inchiostrato di una scritta d’auguri, e il ricordo lontano di battute di caccia e giorni sereni.
Dopodiché, non vi rimase niente. Non una parola di motivazione, né una richiesta di spiegazione, ed entrambi si diedero per vinti.
Magari non era semplicemente previsto. Così, l’ultima cosa di cui furono consci furono le spalle dell’altro.
 
C’era l’aria di novità. E c’era l’opposizione.
Non si sentiva proprio a suo agio in quei fronzoli. Quell’enorme abitazione era di gran lunga più sfarzosa di quanto avesse immaginato, e lei, che amava le cose semplici, si era ritrovata nel lusso della casa austriaca, ed invece di essere a capo di un esercito era stata costretta a fare i lavori domestici.
Ma più che altro, doveva farlo. Quel matrimonio serviva per il bene del suo popolo, e ciò sarebbe dovuto valere la pena tutto, anche sottomettersi ad un’altra nazione. Elizabeta metteva la propria gente al primo posto, cosicché possano vivere una vita serena e gioiosa.
Solo che certe volte le mancava ciò che faceva prima. Non che combattere battaglie su battaglie fosse stata la sua attività favorita. Anzi, le piaceva la tranquillità e la musica della nazione in cui abitava ora, e Roderich era gentile nei suoi confronti – anche se a volte si comportava da paese dominante, e lei non poteva biasimarlo. Ma ad ogni modo, era mite e paziente con lei, e Ungheria non poteva far altro che essergli grata.
È solo che, di tanto in tanto, le venivano in mente tutti i giorni passati ad occuparsi degli affari interni e a preparare strategie di guerra; ricordava i giorni nella selvaggia aria aperta circondata da spade, balestre, maglie di cotta e cavalli ben addestrati – richiamava alla mente l’indipendenza di un tempo, senza essere costretta ad indossare un vestito ed un grembiule, facendo i lavori di casa da buona moglie. Forse non era abituata ad essere vista in tal modo, forse desiderava essere trattata… diversamente, tutto qui.
Ma poi si ricordava che ciò che stava passando era per le persone che credevano in lei, nella nazione ungara. Così smetteva di pensarci e si dirigeva verso l’ufficio di Roderich per avvertirlo che la cena era pronta.
L’unico particolare era che Prussia, da allora, era sempre venuto nella sua nuova abitazione a trovarla. In un certo senso, gliene era davvero grata, ma dall’altro lato l’amico d’infanzia non faceva altro che cercare di umiliare il marito, molte delle volte con scarso successo.

«Eliza» la chiamò quel giorno, «ancora qui dentro? Non ti stanchi?»
La ragazza lo osservò entrare nel giardino guardandosi attorno, pronto a scappare via nel caso un soldato austriaco fosse stato nelle vicinanze – dall’ultima volta che era venuto a trovarla, Austria, irritato da tutte le volte che Gilbert aveva provato a tendergli un’imboscata, aveva ordinato di cacciarlo via con la forza se si fosse fatto vedere in giro.
«Va bene così» rispose la nazione ungara, ritornando a stendere i panni. Gilbert la guardava e lei non gli faceva caso, oramai abituata a quello sguardo che, silenziosamente, la osservava quando andava a trovarla.
«Veramente? Sei davvero felice così?» le chiese ancora. Per la seconda volta, Ungheria smise di maneggiare le vesti e lo fissò con aria perplessa. «Oggi sei particolarmente in vena di far domande, eh?»
«Ogni volta che vengo qui a chiederti se ti va di fare un duello o qualcosa del genere, rifiuti dicendo che quello stupido aristocratico non ti avrebbe lasciata andare» constatò l’albino, incrociando le braccia. Elizabeta avrebbe voluto ribattere al termine “stupido aristocratico”, ma l’amico la interruppe. «Stavo pensando,» riprese, «forse dovrei dichiarare guerra ad Austria. Magari distoglierà l’attenzione da te, così tu potrai ribellarti e riguadagnarti l’indipendenza.»
Gilbert non aveva lo stesso sguardo di sempre. I suoi seri occhi cremisi erano fissati su una Elizabeta sbigottita, incredula. Questa scrollò il capo distogliendo gli occhi da lui, «Non ce n’è bisogno».
Possibile che Prussia fosse preoccupato per lei? «Inoltre, se mi separassi dall’Impero Austriaco ora, non saprei come affrontare i problemi che avrei con l’Impero Ottomano. Ricordi come mi riducevo quando… ero indipendente?» Trattenne il “Quando eravamo noi due” perché, ne era sicura, Gilbert l’avrebbe presa nel verso sbagliato. Anche se era la verità.
«Posso aiutarti io» se ne uscì spontaneamente l’altro.
«Ma non saresti impegnato con la guerra?»
Ci fu un attimo di esitazione. Poi le disse: «Potrò sempre tagliare un po’ di tempo per te.»
Elizabeta lo guardò, con l’espressione sempre più dubbiosa ed esitante. «Non dipende da te» disse infine, sospirando e rivolgendogli le spalle. Cercò di concentrarsi nell’inusuale silenzio da parte di Prussia che, sapendo che lei aveva ragione, smise di insistere. La ragazza si sentì un po’ in colpa: in fondo, Gilbert voleva solo aiutarla.
«Magari più in là» disse infine, cercando di alleviare un po’ la tensione. Si voltò, e sorrise all’infantile reazione dell’amico, al quale s’illuminarono gli occhi nel sentire che avrebbe potuto, un giorno, pestare quella patetica nazione quale era l’Austria.
Forse avrebbe dovuto semplicemente dirgli che sì, voleva essere indipendente,  lo desiderava e tutto, ma avrebbe anche voluto restare al fianco di Roderich. Forse avrebbe dovuto dirgli che il vento non spirava più dalla stessa parte e che gli anni della gioventù erano passati e che le cose erano cambiate. Entrambi sapevano che era una ragazza. Le loro strade si erano divise mesi fa. Si aggrappò al grembiule.
Erano opposti, ma sembrava non fossero destinati ad attrarsi.
 
C’era la guerra. E c’erano loro.
I soldati magiari marciavano a fianco a quelli tedeschi sulle faticose strade verso la loro meta, con il gelido inverno russo che si faceva sentire minacciosamente. Già molti dei loro compagni li avevano abbandonati per la troppa fatica ed il freddo, ed i restanti non desideravano altro che ritornare alla propria patria, al caldo nelle proprie case.
Elizabeta, dalle prime file, cercava di rassicurare i suoi uomini: sarebbero sicuramente ritornati a rivedere i loro familiari, bastava portare a termine quella spedizione, per quanto faticosa potesse essere. Li spronava ad andare avanti, ma ciò non significava che non fosse preoccupata per loro. Se solo avesse avuto la forza di tutti i suoi soldati messi insieme, sarebbe sicuramente andata da sola senza coinvolgerli.
La notte era la peggiore di tutte le condizioni. I loro accampamenti e coperte su coperte non riuscivano ancora a tenerli abbastanza al caldo, e la prima neve si era già vista. Notti insonni e mancanza di cibo adeguato facevano perire uomini su uomini, sia tedeschi che ungari.
Quella sera, accanto ad un fuoco che stava per spegnersi e sotto un paio di strati di coperte, Gilbert ed Elizabeta si raccontavano storie, i loro compagni che cercavano di prendere sonno tremando al freddo che entrava negli spifferi del loro accampamento. Speravano che, in tal modo, avrebbero potuto alleviare un po’ la fatica, e sorridere innocentemente per un po’ in quella disastrosa situazione di guerra.
«Ora che ci penso, credevo che sarebbe stato Ludwig a condurre questa spedizione» commentò la ragazza, osservando l’amico stringersi ancora di più la stoffa attorno al corpo. «In teoria sì,» rispose l’altro, «ma mi sono offerto io perché ritenevo che sarebbe stato meglio se lui rimanesse al comando dei fronti. Dopotutto, questa spedizione è solo uno dei pezzi del puzzle per la vittoria», e ghignò al pensiero. Elizabeta sorrise.
«E come mai mi stai accompagnando proprio tu?» le chiese a sua volta Gilbert. «Non ti eri dichiarata neutrale?»
«Ordini del capo, dopotutto, lui ha sempre appoggiato i piani tedeschi» sospirò lei. Non avrebbe davvero voluto, in verità, partecipare. Ma c’era Gilbert con lei, quindi sarebbe andato tutto bene. Sicuramente.
Dall’altra parte, la nazione prussiana era, in un certo senso, lieto di avere accanto l’amica che aveva conosciuto per ormai secoli. Non che volesse che lei entrasse sul campo di battaglia. Ma sapeva calmarlo ed a fargli mantenere il sangue freddo, dal momento che il suo “magnifico ego” necessitava di concentrazione per riuscire a trionfare sui nemici.
«Questo mi ricorda quella volta che hai chiesto il mio aiuto» sorrise compiaciuto, provocando la rabbia repressa dell’amica al pensiero. «Hai dichiarato il Burzenland un tuo territorio senza il mio permesso!» gli sibilò, al quale il vecchio Ordine Teutonico rispose: «Il tuo capo di allora me l’aveva comunque offerto».
«Quello successe dopo che tu ti sei prepotentemente preso un mio territorio!» disse secca l’Ungheria, cercando di tenere bassa la voce, poiché molti dei loro uomini stavano finalmente prendendo sonno. Guardò inferocita gli occhi vermigli di Gilbert da cui trapelava superbia, che la sfidava in un gioco di sguardi a sua volta. «Suvvia, non dovresti essere riconoscente a colui che ti ha protetta allora?» la incalzò in tono provocatorio.
«Oh, ma sta’ un po’ zitto» gli ruggì sempre più irritata, decidendo di non reggere più gli occhi della nazione a fianco a lei. L’altro si mise a ridere, ma Elizabeta fu lasciata lì a maledirlo in tutte le lingue che conosceva. Perché mai aveva pensato che si sarebbe sentita bene accanto ad uno come lui?
La risata dell’amico si spense silenzioso, e forse, colpito da un po’ di malinconia, le disse: «E poi sei andata a vivere da Austria».
Sebbene non fosse stata una domanda, Elizabeta confermò con un «Sì».
«Non mi hai mai chiesto l’aiuto per ribellarti a quel damerino.»
«Alla fine sono riuscita a riottenere l’indipendenza comunque.»
«Poi sei corsa in suo aiuto nella mia guerra contro di lui.»
«Non potevo lasciare Roderich in tua balia.»
«Speravo che mi avessi sostenuto quella volta.»
«Non hai mai mandato una Maria Teresa da me a chiedere aiuto.»
«Ma ora sei qui.»
«Te l’ho detto, ordini del capo.»
«Quindi, se non fosse stato per lui, non saresti venuta?»
Gilbert ricevette di nuovo lo sguardo di Elizabeta. La vide muoversi un po’ goffa, forse in imbarazzo, forse un po’ a disagio. «Non è questo quello che intendevo» gli rispose infine. Per un po’ stettero in silenzio – solo il crepitio debole del fuoco che lo riempiva – poi la ragazza gli sorrise. «Ti avrei sostenuto comunque. Dopotutto, sei mio amico.»
L’altro rise. «Ita-chan mi ha prestato una copia della Divina Commedia un paio di settimane fa» riprese l’albino. «C’è un passo che dice – si schiarì la gola con fare importante – “Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria”» recitò con il suo accento tedesco, che fece ridere la ragazza. Gilbert la ignorò, anche se, doveva ammetterlo, l’italiano era ridicolo se parlato da lui.
«Forse dovremmo solo… non so. Scappare. Andare via, da qualche parte.» I suoi occhi scarlatti cercarono lo sguardo smeraldino dell’amica, e quando lo trovarono si persero in esso, malinconico, come una nave poteva perdersi nel vasto oceano senza una bussola o una mappa. «Solo noi due. Come ai vecchi tempi.» Perché gli mancavano i giorni in cui erano solo Prussia e Ungheria e basta, e nient’altro, e solo quello.
«Hai ragione» rispose con semplicità lei, lasciando trasparire un lieve sorriso dalle sue labbra.
«Dopo questa guerra,» riprese l’albino, «dovremmo andare ad una battuta di caccia insieme ancora una volta.»
Elizabeta annuì, e rise.
Entrambi erano lieti di ciò che avevano in quel momento, perché c’era troppo da perdere e troppo da guadagnare.
 
C’era la fine. E c’erano i modi per spezzare un cuore.
Quel giorno, appena sveglia, sentì una strana sensazione incomberle nel petto. Era stanca e ancora scossa dalla guerra, ma pian piano si stava riprendendo. Ma era diverso, era diverso e non sapeva perché.
Il pomeriggio incontrò Russia. Nemmeno lui aveva una bella cera (dopotutto, quale nazione era mai uscito da una grande battaglia senza essere nemmeno un po’ spossato?), ma dovevano ancora occuparsi di alcune pratiche e documenti riguardanti i territori che, amaramente, la nazione ungara aveva dovuto cedere due settimane prima.
«Ivan» disse lei, una volta che la riunione finì, «non credi che oggi sia particolarmente tranquillo?»
Non le rispose. Invece, stette a fissarla con uno sguardo bizzarro, quasi di dispiacere, che per una volta non le fece paura. Ungheria lo guardò a sua volta perplessa. Per un momento stettero in silenzio, ma poi la voce di Russia lo spezzò all’improvviso.
«Ho sentito Ludwig ieri,» le disse, «forse dovresti fare un salto a casa sua.»
L’accompagnò perché aveva delle faccende da sbrigare con il tedesco. Per tutta la durata del viaggio non parlarono, solo qualche altro commento sulla suddivisione dei territori e poi niente. Elizabeta riusciva perfettamente a cogliere quella tensione che non aveva mai sentito accanto all’Unione Sovietica.
Quando arrivarono a casa di Germania, altre auto erano parcheggiate in strada. Ungheria non riuscì a capire di chi fossero, poiché inesperta di macchine, ma la risposta le fu data quando Ludwig aprì la porta a lei ed a Ivan.
Sia Francis che Antonio erano lì. Le rivolsero un debole sorriso. Ancora una volta, Ungheria fallì nel cogliere cosa c’era di sbagliato nell’aria soffocante che alleggiava nell’abitazione. Roderich ruppe il contatto visivo appena lei tentò di chiedergli spiegazioni attraverso lo sguardo.
Poi ci fu la parte peggiore. Feliciano, da gran piagnucolone che era, l’abbracciò stretta farfugliando espressioni incomprensibili tra le lacrime – «Era qui, stava bene, Eliza, se n’è andato, perché, non piangere» – un singhiozzo dopo l’altro, e fu in quel momento che quell’orribile sensazione le mise sottosopra lo stomaco, le divorò prima le forze, poi la ragione, ed infine il cuore.
Quando finalmente l’Italia Settentrionale la lasciò andare, fu la volta di, sorprendentemente, Ludwig. A differenza di Feliciano, lui le diede un abbraccio debole e poco stretto, come se avesse paura che, da un momento all’altro, lei potesse collassare in mille pezzi. «Eliza» disse, aggrappandosi al nome. «Elizabeta.»
Era vulnerabile e lei, colpita dall’improvvisa realizzazione, non fece altro che deglutire e chiudere gli occhi. Avrebbe dovuto saperlo. In fondo, da giorni non vedeva l’amico d’infanzia, e le poche volte in cui si erano incrociati per caso lui non aveva fatto altro che lanciarle uno sguardo che, solo in quel momento, Elizabeta seppe interpretare come un “Mi dispiace” sussurrato tra un “Sto bene”, “Tra poco sarà tutto finito”, “Ritornerò fantastico come sempre”. Una frase lasciata ad invecchiare tristemente come una poesia nascosta tra degli appunti scritti con noncuranza e fogli di documenti importanti nel cassetto. Un ultimo ricordo di un’infanzia e adolescenza ormai lontana da quell’epoca.
Forse quello sguardo era semplicemente un’affezione inserita nel momento sbagliato e al posto sbagliato, magari era persino rivolto alla persona sbagliata. Oppure non era nemmeno un’affezione.
«Non ho potuto farci niente» sospirò Germania. «Avrei davvero voluto che restasse.»
«Lo so,» disse Ungheria, «lo so. Nessuno desiderava che finisse così, non crucciarti.» Stava cercando di rassicurare l’amico, ma tanto sapeva che l’unica che avrebbe voluto avere una forte spalla su cui piangere era lei.
C’erano milioni di modi per spezzare un cuore, e Gilbert aveva scelto proprio quello.
 
 
 
 
 
Ti sei ritrovato alla mia porta, proprio come tutte quelle volte passate, indossi la tua scusa migliore, ma io ero lì a guardarti andar via. E tutte le volte che ti ho fatto entrare, solo per farti andare di nuovo, sparire quando ritorni, tutto migliora. […] Questa è l’ultima volta, non ti farò più del male.
The last time, Taylor Swift ft. Gary Lightbody
 
 
 
 
 
«No, Gilbert, non posso. Sono occupata.»
Ungheria guardò seria l’amico d’infanzia, che sbuffò sonoramente alla sua risposta. «Tu sei sempre occupata, diamine!» si lamentò Prussia, «Non dovresti ignorare il fantastico me. Lo sai che odio aspettare!»
«Oh, piantala. Sai bene che è colpa tua. Se non avessi dichiarato guerra a Roderich-san avrei sicuramente avuto un po’ più di tempo libero!» lo ammonì Elizabeta. Fu seguita dallo schioccare della lingua dell’altro, scocciato.
«Dai, Eliza, cosa ti costa fare una passeggiata a cavallo con me? Magari potremmo fare anche una gara, come ai vecchi tempi!» insistette Gilbert, sempre più irritato dalla non disponibilità della nazione ungara. Dall’altra parte, Elizabeta roteò gli occhi, pensando che no, l’amico non era cambiato nemmeno un po’ dall’ultima volta che avevano conversato su terreno neutrale.
Gli lanciò un’occhiata rassegnata, sospirando forte. «Gil, sai cosa comporta essere una nazione come noi e quali doveri abbiamo come tali. Non posso, davvero, dovresti capire» disse lei, prima di voltarsi ed aprire la porta della propria abitazione.
Nel mentre, sentì uno strano silenzio da parte della nazione prussiana, ma prima che potesse chiudere la porta, l’altro parlò. «Non abbiamo avuto tanto tempo per parlare, ultimamente.»
Elizabeta si sorprese al cambio d’atteggiamento dell’amico. Si voltò e lo guardò. Sembrava quasi un bambino, con quel viso contratto in una smorfia – rassegnazione, riuscì a leggere.
Forse aveva ragione. Forse doveva semplicemente lasciare stare tutto e basta, sciogliersi un po’. E forse tutto ciò che Gilbert voleva dirle era che era stanco tanto quanto lei di tutti quegli eventi che si erano susseguiti, e che aveva bisogno di ritornare ai giorni sereni.
Abbozzò un amaro sorriso in sua direzione, scrollando le spalle.
«Sarà per la prossima volta.»











N/A: Woah, qui dentro ci sono un sacco di riferimenti storici.
Ad ogni modo, sono felice di aver potuto finire di scrivere questa fanfic. EFP ha bisogno di più PruHun nella sezione di Hetalia! Ed è la mia prima fanfiction in questo fandom. Mi sono ricordata di questa coppia quando ho iniziato il mio ask-blog su Ungheria (PUBBLICITÀ OCCULTA. meheheheeh), e, ommioddio, è diventata la mia OTP forever.
Il titolo della storia era inizialmente “27 febbraio 1947”, per poi passare a “Nearer, My God, to Thee” (che non c’entrava niente, ma mi sembrava carino e richiamava anche Titanic) ed alla fine “L’affezione”. Francamente, credo che questo sia uno dei titoli migliori che abbia dato alle mie fanfiction LOL
Come vi ho detto, ci sono molti riferimenti storici. Nella parte della guerra, la storia è ambientata durante la spedizione “Operazione Barbarossa” del 1941, che consisteva nell’invasione dell’Unione Sovietica. Sebbene si fosse dichiarata neutrale, l’Ungheria mandò circa 300 mila soldati, se non mi sbaglio, a sostegno di quelli tedeschi, ma alla fine l’operazione fu un totale fallimento.
Inoltre, nella penultima parte, sto parlando del Trattato di Parigi del 1947, nella quale l’Ungheria cedeva molti dei suoi territori agli altri paesi, una delle quali è l’URSS. È curioso il fatto che questo trattato fosse stato stipulato appena un paio di settimane prima del 27 febbraio, data in cui la Prussia scompare ufficialmente. Infatti, avevo già in mente di inserire diversi personaggi alla fine, ed avevo letto da qualche parte che la Russia aveva in mano l’Ungheria dopo la seconda guerra mondiale. Volevo semplicemente mettere in risalto l’umanità di Ivan davanti a certi sentimenti, soprattutto alla perdita di una persona cara.
Oh, vero! Ci sono stati due periodi in cui il Regno d’Ungheria e l’Impero Austriaco avevano creato un’unica unità. La prima volta nel XVII secolo, quando l’Ungheria venne gradualmente assorbita dall’Austria dopo certi eventi, la seconda nel XIX secolo, con l’ufficiale formazione dell’Impero Austro-Ungarico che durò fino alla prima guerra mondiale. Quindi, il fatto che ho scritto che Elizabeta aveva sposato Roderich qualche mese dopo che Gilbert aveva scoperto che lei era una ragazza è in un certo senso errato, e mi scuso.
E come potete notare, ho anche inserito qualche riferimento di letteratura. All’apertura della one-shot, c’è un estratto dal Romanzo di Tristano ed Isotta. Era una lettura estiva e, francamente, non l’avevo letto del tutto. Ma poi ho dovuto farlo perché c’era una verifica in vista (immaginatevi 9 capitoli interi in una sera), e mi è piaciuto abbastanza da farmi decidere di rileggerlo una seconda volta, molto più decentemente.
C’è anche un passo dalla Divina Commedia. A dir la verità, l’adoro. È qualcosa di stupendo, anche se non posso dire altrettanto per il suo studio. Ma mi piace un sacco. Vorrei farvi notare che quei versi sono presi dal V Canto dell’Inferno, e sapete qual è la loro particolarità? Fanno parte della storia di Paolo e Francesca, che erano, rullo di tamburi, amanti. E il passo ci sta perfettamente in quella situazione.
Ricordo che il fiordaliso è il fiore nazionale della Germania, e rappresenta il desiderio di felicità per qualcuno. E trovo anche questo piuttosto curioso, se inserito nella fan fiction. /ride
E sono davvero entusiasta per l’uscita dell’album Red di Taylor Swift. Attualmente, le mie canzoni preferite sono All too well, The last time, Begin again e Red stesso.
 Direi che è tutto. Sto anche pensando di tradurre questa fanfic in inglese, e se qualcuno fosse interessato a leggere l’eventuale versione, è libero di dirmelo!
Grazie per aver letto questa mia storia. Non so se ne scriverò un’altra in questo fandom, dal momento che sono piuttosto impegnata con la scuola e l’ispirazione viene solo di notte – quindi, vi sto scrivendo alle 1. Perdonate gli obbrobri grammaticali che ho sicuramente fatto qui dentro fudinf
Alla prossima, si spera!
Noth aka Rainy.
PS: queste note si sono allungate solo perché ho spiegato tutti i riferimenti che ci sono stati LOL
   
 
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