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Autore: Melie Devour    12/11/2012    1 recensioni
«Do fastidio?» lui alza le sopracciglia.
«No, ma mi fai paura.» Lei sente le labbra impastate, e i polmoni non si dilatano abbastanza da permetterle di respirare con serenità.
«Lascia parlare me.» Fa lui «Non sono un chiacchierone. Il disegno nel tuo sketchbook l'ho fatto io.» Si ferma, guardandola. «Ti piace?»
Lei annuisce.
«Unice, io sono morto. Tu lo sai, no?»
«Sì.»
«Ma tu senti la mia voce nel cortile della scuola.»
«Cosa? Eri tu?»
«Già.»
Parole totali: 20k ca; Lunghezza capitoli: 2/3k ca;
[COMPLETATA]
Genere: Angst, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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«Ehi, Unice! Come ti senti?» Le chiese una ragazza con la quale in comune aveva solo un corso di tre ore alla settimana.

«Ehm.. bene, grazie. Non era niente.» “Deve aver assistito al bello spettacolo della mia semi-morte”

«Menomale, ci siamo spaventati tutti. Ciao!» Salutò continuando per la sua strada.

La ragazza per un attimo rimase lì in piedi, stranita. Non conosceva neanche in suo nome. Strana, la gente.

Entrò in classe, trovò Sam con gli occhi e la raggiunse, sedendosi accanto a lei.

«Come stai?» Chiese lei, ansiosa.

«Bene, molto bene!» Rispose Unice, celando un velo di entusiasmo di troppo.

«Sono contenta che stai meglio.» Sam le riservò un sorriso sincero, che Unice ricambiò felice.

 

Durante la pausa pranzo, le due ragazze si avviarono chiacchierando verso i locali della mensa, per prepararsi un vassoio da consumare nel giardino interno. Era più forte di loro, non avrebbero mai resistito ad una bella giornata di sole. Si accaparrarono uno spazzo di erba verde e morbida, accuratamente tagliata, dove si sistemarono insieme al loro pranzo.

A gambe incrociate, Unice punzecchiava qualche foglia di insalata da una vaschetta di plastica e se le portava alla bocca, “sgranocchiando come un criceto”, le disse Sam, che invece mangiava un tentativo di lasagna poco saporito.

Quel momento, nella sua discreta perfezione, appariva bellissimo, alla ragazza. La cosa più bella che potesse chiedere, in quel momento.

Fu forse per questo che, dopo una breve riflessione interna, si fece coraggio, ed esordì «Sam, tu ci credi ai fantasmi?»

«Cosa intendi?»

«Cose tipo apparizioni, gente che vede gente morta.. cose così.»

«Mi fanno paura, queste cose. Credo che siano tutte cavolate fatte per spaventare la gente.» disse lei con un sorriso sghembo «Perché me lo chiedi?»

Unice per un attimo esitò, ma non si fece spaventare da quella risposta non proprio positiva. Sam era diventata una persona importante, per lei, ed era sicura che avrebbe potuto confidarle anche quella parte di sé. A lei avrebbe fatto piacere, se Sam le avesse confidato un suo intimo segreto.

«E se ti dicessi che io ne ho visto uno?»

«Maddai, e quando, sentiamo?»

Unice guardò altrove brevemente «Beh, non è che l’ho visto e via.. si tratta di Kurt.»

Sam continuava a guardarla, in silenzio, con la forchetta ed un pezzo di lasagna bloccato a metà strada tra la vaschetta e la bocca. Allora Unice continuò.

«Lo vedo.. ogni tanto. E lo sento. Nel senso che riesco a parlarci. Lui.. è come se entrasse nei miei sogni, è partito tutto così.» Incrociò lo sguardo con quello di lei, congelatosi in un’espressione glaciale.

«Stai scherzando, mi prendi in giro vero?»

Unice rimase interdetta, senza sapere cosa dire.

«Non quel Kurt, spero.»

«Beh, veramente.. Sì, lui.» Disse lei, sempre meno convinta che la sua fosse stata una bella trovata.

Seguì qualche secondo di silenzio, e Sam scoppiò a ridere.

«Per un momento ti ho anche creduto! Che scema, mi ci hai fatto cadere in pieno, brava!» fece, tappandosi la bocca semipiena e continuando a mangiare.

Il volto di Unice di graffiò di delusione. La guardava ricominciare a mangiare. Decise di insistere, non era possibile che Sam si comportasse con tanta superficialità. Non lei.

«Sam, ti prego. Non ti sto prendendo in giro.» disse seria.

A quel punto, seria divenì anche la sua amica, con cui scambio un’occhiata lunga secoli.

«Mi stai dicendo che tu parli nei sogni con il fantasma di un drogato morto due anni fa.» rimarcò l’amica, sottolineando troppo il penultimo sostantivo.

«In realtà, posso parlarci anche da sveglia.» puntualizzò lei, decisa ad andare fino in fondo.

Vide Sam posare la vaschetta di lasagna a terra, e dopo aver afferrato la sua borsa alzarsi ed andarsene a passo spedito.

«Aspetta, dove vai?!» le urlò Unice prima di alzarsi a sua volta e correrle dietro.

Le prese un braccio, la fece voltare verso di lei «Davvero non mi credi?» le chiese.

«Io.. non voglio avere a che fare con certe cose.» tirò corto lei, facendo per andarsene di nuovo, ma Unice la trattenne di nuovo, fermamente.

«Sam, ti ho fatto la confessione più intima della mia vita, e tu che fai? Scappi via? Pensavo fossimo amiche!»

«Lo.. eravamo. Ma non voglio avere a che fare con gente assatanata.»

“Assatanata”. L’aveva chiamata “assatanata”. Non poteva credere alle sue orecchie.

«C-cosa?»

«Lasciami andare, Unice.» così dicendo tirò a sé il braccio che la ragazza teneva nella mano, e voltandosi camminò via, senza voltarsi indietro.

Poté vederla posare due dita attorno al piccola croce argentata che portava al collo.

Sentì un paio di lacrime risalirle dall’anima per farle pressione sugli occhi. Strinse le labbra, indietreggiò lentamente.

Non ci poteva credere. Tutto era così.. assurdo. 

Non poté affrontare di incontrare altre persone, non poteva neanche solo concepire di recarsi a lezione, quel pomeriggio.

Si recò nell’ala ovest, quella in rifacimento, piena di aule vuote, polverose e di sgabuzzini chiusi a chiave pieni di materiali ed attrezzi inutilizzati.

Forzò la serratura della porta che si apriva su un bell’atelier, che all’inizio dell’anno, prima dell’inizio dei lavori di messa a nuovo, era stata la sua aula del corso pomeridiano d’incisione. Rimase lì fino a tardi, impegnandosi a creare piccole sculture con colla da legno e scarti di materiali vari.

Quando si diresse verso casa, non fece in tempo ad oltrepassare il cancello dell’accademia, che una pioggia melanconica cominciò a cadere sui suoi capelli, perfetta analogia del suo turbamento.

 

Unice sbatté più violentemente del voluto la porta di casa. Chiuse gli occhi infastidita dal rumore del colpo, e farfugliò nervosamente.

Ascoltò intorno a sé per qualche secondo, e concluse che sua madre non c’era.

Senza aprire bocca si tolse la tracolla di dosso, si sfilò la giacca e buttò entrambe più in là sulla poltrona.

Raggiunse il bagno, aprì il rubinetto dell’acqua calda, che cominciò a scrosciare sul piatto della doccia. Le sue ciocche stavano abbarbicate sulla fronte e sulle guance, circondando il suo ovale liscio. Non si guardò negli occhi, mentre davanti allo specchio lottava contro i nodi umidi dei suoi capelli.

Una doccia era quello che le serviva. Ne uscì solo quando cominciò ad avvertire i morsi della fame. Avvolta in un asciugamano camminò fino in camera sua. Lasciò una lunga scia di pedate e gocce d’acqua sulle piastrelle del pavimento, e le fughe si coloravano di un grigio più scuro.

Addosso si mise solamente dei pantaloncini da ginnastica e una t-shirt più che sovraddimensionata.

Raggiunse la cucina, cercando con lo sguardo un biglietto lasciato da sua madre con su scritto l’indizio di caccia al tesoro per trovare la propria cena. Niente sul piano di cucina, niente accanto ai fornelli né sotto una calamita attaccato al frigo.

Si sedette su di una sedia e scocciata lasciò cadere la sua testa e la sua criniera fradicia di lato sulla superficie del tavolo da pranzo. L’ultima cosa di cui aveva voglia era mettersi ai fornelli. Rialzò il capo e riflesse. Aveva quasi deciso di fare a meno della cena e di mettersi a disegnare o a leggere. Ma poi un sonoro brontolio direttamente dal suo stomaco la costrinse alla resa.

 

«Come ti senti?» La voce di Kurt spezzò il silenzio nel suoi pensieri.

«Mbehne.» borbottò la ragazza a bocca piena, senza alzare lo sguardo o cambiare espressione.

Unice rimase concentrata sul piatto davanti a sé.

«Hai visto che è successo, non è vero?»

«No.» replicò Kurt, con semplicità.

«Ma lo sai comunque, cos’è successo. Non è vero?» puntualizzò, prima di un altro boccone.

«Sì.» fece lui, stavolta più sconsolatamente «Mi dispiace tanto, so cosa provi, in questo momento.»

Lei non rispose. Rischiava di inondare la sua cena di lacrime, se l’avesse fatto.

Avvertì una carezza sulla guancia, ed i suoi sforzi di rimanere col viso asciutto andarono in frantumi in pochi attimi. Poteva sentire la braccia di lui attorno a sé, mentre sommessamente sprofondava in un pianto straziante. Le ci vollero lunghi minuti per riuscire a calmarsi, e per riuscire a farlo dovette chiedere a Kurt di “allontanarsi da lei”, solo per un po’. Lui sapeva cosa intendesse.

Lei sistemò il piatto e le posate sporche nel lavandino, senza la benché minima voglia di lavarle. Decise di procrastinare, per quella volta. Forza maggiore.

 

«Sai, non dovresti andare a dormire.» Le fece lui, notandola pronta ad infilarsi sotto le coperte.

«Kurt, lo sai che giornata infernale ho avuto. Ti prego, ho bisogno di dormire.»

Lui sembrava preoccupato «Lo so, Unice. Ma ti assicuro che sarebbe meglio stare sveglia. Non sei nelle condizioni di riposare.»

«Ma che razza di discorso è?» sbottò lei incredula «Piantala con queste idiozie, ti prego.»

Così dicendo raggiunse il letto e strappò via il piumone dal materasso, sedendosi sul bordo.

Kurt provò l’ultima persuasione «Unice, dammi retta. Rimani sveglia, fammi un po’ compagnia. Possiamo parlare un po’, andare a fare un giro di notte. Magari possiamo andare a vederci l’alba da qualche parte o..»

«Kurt adesso basta.» sentenziò lei, più dura e severa di quanto non avesse voluto.

«Fammi dormire, ti prego.»

Lui fece un lungo e profondo sospiro.

«Buonanotte.» gli disse lei, prima di chiudere gli occhi, la guancia immersa nel cuscino di piume.

 

Non fa in tempo a chiudere gli occhi, che questi si riaprono su uno scenario desolato. Una immensa distesa di roccia spoglia e grigia la circonda, e a lei non rimane che camminare. Ma qualcosa le corre dietro. Lei indietro non può voltarsi, perché sa che verrebbe mangiata viva da quel mostro che ha alle calcagna. Corre fino a non avere più fiato, fino a che la sua vista non si appanna. Tutto ciò che riesce a vedere è a di poco raccapricciante. Tutto intorno a lei una foresta va in fiamme. Il cielo è nero, e la cenere le entra persino nei polmoni. Si arrampica su di un tronco, scivoloso come olio, per arrivare ad una casa sull’albero, che si rivela essere casa sua. No, non è casa sua. Lo sembra e basta. Dentro si respira cattiveria e malessere. E l’incubo continua, ancora, ancora, in luoghi e tempi diversi, con la stessa costante. Lei scappa. Lei corre. Lei fugge.

 

Unice si svegliò di soprassalto, a dir poco sconvolta. La sveglia al LED accanto a lei segnava le 4:30.

La voce di Kurt fu come acqua fresca per la ragazza.

«Come ti senti? Stai bene?»

Ma lei era troppo tramortita per rispondere. Si portò una mano alla bocca, gli occhi socchiusi che si riempivano di lacrime. Sentì l’abbraccio del ragazzo attorno a lei, e non poté più trattenere il pianto.

«Tranquilla, sei sveglia, adesso. Ci sono io.» Disse Kurt, cercando di tranquillizzarla, ma lei scivolò via dalla sua presa, alzandosi dal letto.

«Perché cazzo non c’eri prima, nel sogno?!»

«Avevo provato ad avvertirti.» Si difese lui, e l’avvicinò di nuovo, ma lei indietreggiò ancora.

«Hai una vaga idea di cosa abbia passato là dentro? Non ti sarebbe costato niente venire da me o svegliarmi!»

«Non potevo. Sei tu che provochi i tuoi stessi incubi. Sarei finito ammazzato.»

«Kurt, tu sei morto

«E non voglio morire di nuovo. Quello non è solo un sogno per me, è la mia vita, adesso! Soffro, se mi ferisco, e la sofferenza è ciò da cui fuggivo quando mi sono sparato in testa!» urlò l’ultima frase con rabbia, tanto da far rabbrividire Unice, che ammutolì, immobile al centro della stanza. Altre lacrime si fecero spazio sulle sue guance.

«Perdonami.» fu tutto quello che riuscì a dire.

Sentì una carezza sulla guancia e le sue labbra fresche sulle sue.

«Ho bisogno di stare con te. In un sogno.»

«Adesso non è possibile, piccola, ma ti prometto che starò con te quanto vorrai, prima possibile.»

La ragazza rabbrividì per la vicinanza della proiezione dell’uomo.

«So che è un abbraccio squallido, così, ma non posso fare molto altro.»

«Grazie, Kurt.» disse lei piano, guardando il pavimento.

«Perché non prendi il tuo sketchbook? Disegniamo qualcosa a quattro mani.»

Lei sorrise, carina come idea. Ma non era esattamente in vena di disegni.

«Che ne dici di un po’ di TV?»

«Sai che riesco ad accenderla?»

Unice rise di gusto «E com’è possibile?»

«Non chiedermelo! Guarda.» Unice aprì piano la porta della camera, sgattaiolando lungo il corridoio verso il salotto. Sentì Kurt passarle accanto, poco dopo il piccolo schermo catodico si accese. Il rumore di un film d’azione riempì tutta la casa, e la ragazza corse verso il divano, in cerca del telecomando sparito tra i cuscini.

«Kurt, abbassa il volume, c’è mamma che dorme!» Sussurrò all’aria.

«Tua mamma non è qui.» disse lui perplesso, ma lei non l’ascoltò. Trovò finalmente il telecomando, e come una pistolera lo puntò verso il ricevitore, innescando il muto.

«Cosa?» chiese Unice, rendendosi conto solo allora di cosa avesse detto Kurt.

«Tua mamma. Non è in camera sua.» ripeté lui.

«Ma che stai dicendo, com’è possibile che..» lasciò la frase in sospeso, mentre si avviava di nuovo nel corridoio. Piano posò la mano sulla maniglia, spingendo verso il basso. Nella camera regnava il buio.

«Mamma?» sussurrò la ragazza. Non ricevendo risposta, allungò la mano verso l’interruttore accanto alla porta. La luce illuminò un letto rifatto e vuoto.

Unice aggrottò la fronte, turbata. “Ma dove diavolo è?”

«Hai idea di dove possa essere?» Chiese Kurt da dietro le sue spalle.

«Sarà stata trattenuta in ospedale, a volte capita. Magari è successa una strage e non ne so niente.» Liquidò lei, allontanando le paranoie.

«E TV sia, allora.» Esclamò Kurt allegro.

 

Unice di sdraiò distesa sul divano, coperta dal suo enorme morbido plaid preferito. La TV spifferava a bassa voce, per non richiamare le lamentele di tutti i vicini. Kurt doveva essere seduto per terra, davanti a lei. Avevano testato assieme la sua validità come telecomando. In qualche modo era in grado di accendere e spegnere la TV e cambiare canale, ma non regolare il volume.

«A me sembra già abbastanza.» Si era difeso lui.

«Siamo sinceri, non hai fatto la guerra.» sbottò lei, ridendo.

Lei poteva sentire le carezze del ragazzo sulla pelle del suo viso, mentre la voce della televisione le cullava la testa, affondata in un cuscino. Gli angoli della sua bocca erano paralizzati in un sorriso.

Spalancò la bocca in un profondo, lungo sbadiglio.

«Kurt, sono stanca.»

«Puoi dormire, bado io a te.» Le sussurrò.

Un ampio sorriso di sollievo si allargò ancor di più sul suo viso, per poi rilassarsi in un’espressione neutra, serena ed abbandonata ad un leggero, tranquillo sonno senza sogni.

 

***

  
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