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Autore: Giuacchina    12/11/2012    0 recensioni
«Scusi ancora, ci deve essere stato un equivoco» disse in riferimento alla donna di prima.
«Cosa?» rispose l’altra.
«Ha letto bene il nome della persona che devo incontrare? Harry» fece lo spelling del nome leggendolo sul foglio «Styles»
La donna la guardò spazientita, mentre nella stanza era calato il silenzio: tutti stavano ascoltando la voce di Cindy che aumentava d’intensità in modo graduale.
«Sono io» rispose una voce roca alle loro spalle.
Finalmente.
Cindy si voltò sorridente, e quello che si ritrovò davanti non potè che lasciarla a bocca aperta.
Non era possibile che la persona davanti a lei fosse proprio quell’Harry Styles. Insomma, Harry Styles era esistito solo nei poster delle teenager ai suoi tempi, non in carne ed ossa in tutto il suo… splendore?
Lo fissò incosciente, poi prese a guardare il foglietto, poi ancora lui e così via. Ci fu un minuto pieno in cui i suoi occhi guizzavano dal pezzo di carta bianco nella sua mano destra e la figura altissima davanti a lei.
Cosa ci faceva lui qui? O forse sarebbe meglio dire: cosa ci faceva lei in quel posto?
Genere: Comico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1.
First, business.







«Jenna, ti ho detto che sono appena arrivata!»
Si sentì un urlo del genere davanti al grande edificio in mattoni rossi alla periferia di Londra. Si potrebbe anche dire che ci fu gente che si voltò verso colui, o meglio colei, che aveva emesso quella frase con qualche ottava superiore alla norma.
Cindy Truman camminava svogliatamente avanti e indietro fissando costantemente la porta d’ingresso dell’enorme palazzo davanti a lei. Nel frattempo era impegnata in una chiamata con la sua migliore amica Stephanie e mordeva convulsivamente la pellicina intorno alle unghie.
«Non dirmi che sei in ansia» rispose dall’altro capo del telefono l’amica.
Cindy non potè resistere e sbraitò ancora qualcosa di incomprensibile persino a sé stessa, prima di chiudere la chiamata.
Probabilmente la gente intorno a lei la stava prendendo per pazza: cosa ci faceva una tipa come lei in un quartiere agiato e pieno di locali lavorativi importantissimi?
Le risposte potrebbero essere molteplici: cercava lavoro, aveva bisogno di un giro in un luogo diverso dal suo, voleva a tutti i costi girare tutta Londra per trovare il parco perfetto per rilassarsi. Eppure nessuna di queste ipotesi faceva al caso di Cindy.
Venticinquenne in astinenza da amore, generosità e soprattutto sesso, la giovane Truman non aveva nessuna intenzione di passare la propria vita a crogiolarsi in un prato o a sorseggiare un caffè in tutta calma. La sua vita doveva essere piena e sempre impegnata, senza nemmeno un minimo di spazio dedicato a se stessa.
Non che fosse così altruista, sia chiaro. Pensava solo a quello che le avrebbe fruttato un sacco di soldi e fama. Aveva studiato tantissimo per poter diventare un architetto coi fiocchi e di certo non si sarebbe mai tirata indietro nei vari impegni che la tenevano in piedi dalle sette del mattino fino a notte fonda.
A volte la sua giornata era talmente piena che non riusciva nemmeno a tornare a casa: dopo le cene di lavoro si rifugiava nella sua auto parcheggiata in un angolo remoto del luogo in cui si trovava e, come una senzatetto, dormiva anche nelle posizioni più scomode del mondo.
Furono le sue amiche a volerla aiutare e a calmare il tenore di vita di Cindy: erano convinte che di quel passo le sarebbe venuto un infarto, e non scherzavano mica!
Le avevano consigliato più volte di smettere di fumare, cosa che non avrebbe mai fatto data la sua testardaggine nel voler sembrare importante con una sigaretta in una mano – diceva che la rendeva una diva come Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany – e talvolta un espresso – rigorosamente amaro – nell’altra.
Ma il punto stava nel suo non essere presente nei loro incontri serali, nel dare buca ai ragazzi che la invitavano per quelle dannatissime cene che a volte infastidivano anche lei stessa che le organizzava.
La gente che le voleva bene era stufa di quella Cindy che aveva perso la vitalità spendendola tutta nel proprio lavoro. E così pensarono bene di mandarla nel luogo più improbabile del mondo. Ovviamente a sua insaputa.

 

 

Facendo due calcoli, questo è un palazzo degli anni sessanta, pensava Cindy analizzando ogni angolo dell’edificio, scrutandone anche i più piccoli dettagli. Si chiese perché il proprietario del locale volesse venderlo: dopotutto aveva la sua storia e il suo valore era davvero elevatissimo. Ma non le importava: una buona ristrutturazione avrebbe fruttato soldi, tanti soldi.
Vide una finestra danneggiata e se la immaginò diversamente, più ampia e con le tende eleganti: soldi.
Avvistò un cornicione antico un po’ rovinato: con il suo intervento la gente l’avrebbe rivalutato.
La porta d’ingresso era piuttosto larga, bisognava restringerla per proporzionarla al resto dell’edificio: ottimo.
La sua idea iniziale era già pronta per essere sviluppata.
Si diresse verso la grande porta che conduceva all’interno del grandissimo locale, ora molto più allegra perché dopotutto Stephanie non aveva proprio avuto tutti i torti sull’ipotetico valore della struttura. Inizialmente, quando le aveva detto che sarebbe stato un ottimo affare, non ci credette: la sua amica non era mai stata brava in questo e non aveva mai avuto buon occhio – cosa che appurò non appena quella disse che il tavolino in vetro in stile futuristico di Cindy faceva schifo, per cui fu riluttante.
Ma nel dubbio decise di passare lo stesso all’indirizzo che le era stato indicato alle diciotto in punto.
Chiese al portinaio di una persona il cui nome era stato scritto sul foglio che Stephanie le aveva dato e le venne detto di aspettare in una sala d’attesa. Attraversò un lungo corridoio dipinto di azzurro e subito lo immaginò pieno di luce grazie alla tintura gialla e ai quadri delle correnti contemporanee a renderlo più elegante.
Si sedette su una di quelle sedie in plastica durissima – da eliminare assolutamente – e aspettò assieme a tanta altra gente. Chissà cosa ci facevano tutte quelle persone lì, forse il capo dell’azienda era davvero un pezzo grosso e si sarebbe dovuta comportare come si deve, data la sua richiesta.
Scrutò un po’ la gente intorno a lei, fermandosi sulla figura esile di una signora che doveva avere all’incirca settant’anni, se non di più, e la scoprì canticchiare qualcosa di già noto. Sorrise istintivamente, ma mai senza perdere l’aria elegante e professionale di sempre.
Si ripeteva spesso che sarebbe andata bene e che anche questo servizio sarebbe stato portato a termine come tutti gli altri.
Prese a giocare con il suo nuovo iPhone di zecca e ci perse minuti interi, finchè la voce di una donna biondissima – palesemente tinta – non richiamò tutti i presenti in sala nella stanza adiacente.
Forse il capo non può essere visto da tutti, deve essere un pezzo grosso.
Povera, ingenua Cindy.
Quando tutti si spostarono nell’altra stanza, la ragazza si avvicinò alla donna che aveva parlato poco prima.
«Mi scusi» l’aveva richiamata «Io cerco… quest’uomo» le indicò il foglietto facendole leggere il nome.
La donna le sorrise benevola. «Oh, si. Deve entrare nell’aula»
Aula?
Seguì la donna curiosa e stranita allo stesso tempo. Da quando uno studio veniva chiamato aula?
Bianco: ecco cosa  caratterizzava la stanza in cui si trovava ora: sedie, muri, persino i capelli di qualcuno dei presenti. E, a propositori sedie, si accorse che i posti a sedere erano stati posizionati in modo da formare un cerchio.
Cos’è, uno scherzo?
«Scusi ancora, ci deve essere stato un equivoco» disse in riferimento alla donna di prima.
«Cosa?» rispose l’altra, che ora aveva letto sul cartellino chiamarsi Amanda Patrickson.
«Ha letto bene il nome della persona che devo incontrare? Harry» fece lo spelling del nome «Styles»
La donna la guardò spazientita, mentre nella stanza era calato il silenzio: tutti stavano ascoltando la voce di Cindy che aumentava d’intensità in modo graduale.
«Sono io» rispose una voce alle loro spalle.
Finalmente.
Cindy si voltò sorridente, e quello che si ritrovò davanti non potè che lasciarla a bocca aperta.
Non era possibile che la persona davanti a lei fosse proprio quell’Harry Styles. Insomma, Harry Styles era esistito solo nei poster delle teenager ai suoi tempi, non in carne ed ossa in tutto il suo… splendore?
Lo fissò incosciente, poi prese a guardare il foglietto, poi ancora lui e così via. Ci fu un minuto pieno in cui i suoi occhi guizzavano dal pezzo di carta bianco nella sua mano destra e la figura altissima davanti a lei.
«Beh, se c’è scritto così» borbottò avvicinandosi all’uomo e porgendogli la mano, che lui prontamente strinse.
Che mano enorme!, pensò arrossendo, Non pensare a queste cose. Lavoro, lavoro, lavoro!
Ma quando mai le era capitato di dover avere a che fare con un ragazzo che quando era più giovane pensava essere uno di quei cantanti da quattro soldi ma che ora, davanti a lei, la stava incantando con un semplice sorriso?
«Sono Cindy Truman, avevo un appuntamento»
Lui parve pensarci un attimo e poi i suoi occhi si illuminarono. «Sì, mi ricordo» sorrise ancora.
«Bene, dovrei parlarle»
«Dica pure» rispose quello poggiando una mano sulla spalla della donna anziana che prima Cindy stava fissando, sorridendo anche a lei.
Dannato sorriso.
Era bello, sì, ma il cervello di Cindy era nella modalità "offerta indicativa del costo dell’immobile".
E lei continuava ad arrossire, mentre Harry Styles si muoveva lentamente e si bagnava le labbra screpolate con la lingua, forse incantando anche la vecchia.
«Beh, penso che per parlare d’affari bisogni parlare in privato» ribattè quasi fredda.
Lo sguardo acceso di lui si alzò di colpo fissandola intensamente.
Oddio, sarò sembrata scortese!
«No, mi spiace. Per una lezione privata bisogna prendere un altro appuntamento»
Lezione?
«Lezione?!» e ancora la sua voce si era alzata di qualche ottava di troppo. «Senta, non scherziamo. Sono qui per affari, non prendetemi in giro. Odio gli scherzi! Se questa è una candid camera, ok, vi ho scoperti. Dove sei Stephanie?» si girò e scrutò ogni angolo alla ricerca di qualche telecamera nascosta, sotto lo sguardo spaventato dei presenti.
«Signorina Truman» parlò poi lui interrompendo l’imbarazzante silenzio che si era instaurato «perché vuole parlare di affari in una scuola di musica?»
Musica, musica, musica.
La locanda davanti all’edificio, la Syco.
Musica, musica.
La donna anziana che canticchiava.
Musica.
Stephanie.
«Scuola di musica» constatò quella poggiandosi alla sedia accanto a lei, quasi sfinita. Ora la sua voce si era affievolita.
«Sta bene?» chiese premurosamente l’uomo davanti a lei.
Annuì flebilmente e si diresse verso la porta che l’aveva condotta in una presa in giro enorme.
Stava perdendo del tempo prezioso per uno scherzo che la sua migliore amica le aveva organizzato, questo non andava con i suoi principi. I suoi piani per ristrutturare l’edificio, le idee geniali e innovative che il suo cervello aveva formulato. Niente, era tutto uno scherzo.
Se non fosse successo, probabilmente a quell’ora Cindy sarebbe stata comodamente seduta nel suo studio a rimproverare qualche suo dipendente per un lavoro svolto male e lo avrebbe aiutato a migliorare per il bene dell’agenzia.
Se non fosse successo.
Ma se non fosse successo, Harry non l’avrebbe pregata per un bel po’ di minuti di rimanere, visto che ora si trovava lì ed aveva preso l’appuntamento, o forse sarebbe meglio dire che Stephanie lo aveva fatto al posto suo?
Scrisse in fretta un messaggio a quest’ultima e si sedette annoiata sulla sedia a cui si era appoggiata poco prima, quella di fronte al famosissimo cantante che l’aveva sorpresa.
Mentre quello iniziò a parlare, lei lo fissò talmente tanto che notò alcuni particolari non visibili al primo colpo, come il piccolo neo sotto le labbra o i tatuaggi sotto il braccio sinistro che si vedevano meglio man mano che il suo gesticolare aumentava. Ricordò che la sua migliore amica del liceo impazziva per i suoi tatuaggi e che, in particolare, la stella sotto l’avambraccio indicava qualcosa come la sua band, ma non ne era così convinta. Allora lo aveva ammirato solo per i gusti musicali che il ragazzo aveva – almeno per quanto le sue amiche le dicevano – e apprezzava il fatto che – sempre secondo le sue amiche – amasse stare in contatto con le sue fan, cosa che la rendeva gelosa perché i cantanti che lei amava, come Jimi Hendrix o Janis Joplin, erano morti molto tempo prima e non avrebbe potuto nemmeno vederli. Ecco perché non vedeva di buon occhio quei gruppetti, perché era gelosa, forse anche del loro successo.
«Cindy, lei cosa ne pensa della musica?» chiese ad un tratto Harry, distraendola dai suoi pensieri.
Lei arrossì di colpo, presa alla sprovvista, e ci mise un po’ a formulare la risposta.
«Se devo essere sincera, non lo so. Non sono mai andata ad un concerto, non ho mai visto i miei cantanti preferiti dal vivo e il massimo è stato sentire dal vivo un cantante del mio paese che cantava al festival del grano» sospirò «Sentivo molta musica, però»
«Sentire, ecco qual è il suo problema. Lei ascolta, non sente»
Cindy lo guardò interrogativa. Ma che stava dicendo? A parte che non gli aveva chiesto di certo un parere e poi le pareva che avesse usato due sinonimi inutilmente. Che spreco di tempo.
«Cindy, quand’è stata l’ultima volta che ha parlato col cuore a qualcuno?»
Rimase muta a fissarlo negli occhi.
«E quando ha ascoltato una canzone che l'ha emozionata?»
Ancora silenzio.
«Molly» Harry si voltò verso l’anziana di prima «le spieghiamo insieme cosa significa emozionarsi?»
Il fatto strano fu che ci riuscirono. Fecero emozionare Cindy come non era mai successo.
Come potevano delle semplici parole e una melodia al pianoforte renderla così vulnerabile? Cindy non lo era mai stata, non aveva mai fatto trasparire i suoi sentimenti e ora che le lacrime le stavano scendendo piano piano si sentiva indifesa. Non poteva.
Di colpo prese la borsa dal pavimento e fuggì verso la porta.
«Tornerai» disse Harry.
Ma non era una domanda, né una supplica. Sapevano entrambi che, per quanto Cindy potesse essere testarda e – secondo lei – senza cuore, sarebbe tornata anche solo per rivivere un momento di vita vera. Niente stress, niente riunioni. Solo la musica e tante persone che parlavano con il cuore in mano.

  
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