Arrendersi
Al mio Chris, che crede in me.
Sempre.
Baci,
Ile
Quando
mi decido ad aprire la finestra respiro l’aria fredda del
mattino. I polmoni mi
bruciano dopo l’aria viziata della mia stanza, ma va bene
così. La prima cosa
che vedo sono le altre due case. Distolgo lo sguardo e lo punto verso i
boschi
verdi in lontananza: non provo più nessuna
felicità nel vederli, nessuna voglia
di addentrarmici. Abbandono la finestra aperta, non mi interessa che
entri
freddo. Scendo le scale e mi aggiro per la casa, senza sapere cosa
fare,
aspettando Sae.
Sono
seduta in un angolo della cucina quando sento la porta aprirsi. Alzo il
capo,
scrutando tra le gambe del tavolo, aspettandomi di vedere i piedi
rattrappiti
di Sae La Zozza. Invece scorgo dei piedi maschili, per nulla grassocci
come
quelli di Haymich. Resta solo un’alternativa, e, sebbene non
voglia formularla,
la mia mente inevitabilmente mi propone l’immagine di Peeta.
Sbuffo, sono già
scocciata dal fatto che invada così spesso i miei pensieri,
ora deve anche
presentarsi in casa mia?
Non
mi alzo, non dico nulla e lui mi trova rannicchiata sul pavimento. Mi
osserva,
sospira, e mi si siede accanto. Punta i suoi occhi maledettamente
azzurri su di
me, insistentemente, obbligandomi a osservarlo a sua volta. Non so come
faccia,
eppure non mi dà fastidio il fatto che mi costringa a
guardarlo. Ho bisogno di
guardarlo. Mi fa sentire bene. Nei suoi occhi leggo tutto
ciò che voglio
sentirmi dire. Nei suoi occhi mi perdo, e dimentico ciò che
troppo spesso mi
tormenta.
Riesco
a sorridergli, seppur con fatica, ma è un sorriso sincero.
Cerco di non
ammetterlo a me stessa, ma sono felice che sia venuto a trovarmi.
Eppure non
dovrei esserlo, pensavo di aver perso per sempre il diritto ad essere
felice.
Gli stessi dubbi che mi tormentavano durante la notte tornano
prepotenti nella
mia memoria. Aggrotto la fronte e lui si accorge che qualcosa non va.
Si
alza e mi tende la mano, quasi impassibile. Io esito, nonostante tutto
mi
aspettavo dicesse qualcosa, qualcosa che potesse confortarmi. Poi
ricordo. A
volte è così facile dimenticare che anche lui ha
la sua parte di ferite da
affrontare. Ferite profonde, che bruciano ancora in qualche recesso
della sua
mente, che, sebbene gli sforzi, non si cancelleranno mai del tutto.
Potremo mai
ritornare noi stessi?
La
risposta è così logica. Ovvio che no. A volte
vorrei credere in qualcosa di diverso
dalla logica, forse la mia situazione e quella di Peeta risulterebbero
meno
tragiche, meno patetiche. Sbuffo e ritorno alla realtà in
cui Peeta mi sta allungando
una mano per potermi rialzare dal pavimento, sul quale sono
rannicchiata da
tutta la mattina.
Lo
guardo e, con un gesto di stizza, allontano la sua mano e mi alzo da
sola. Lui
non sembra quasi farci caso e, prendendo una sedia, si accomoda,
appoggiando i
gomiti sul tavolo della cucina. Incerto, accompagnata da
un’occhiata verso di
me, mi rivolge la domanda: “Allora Katniss... come...
va?”
E,
quando sento queste parole, sono dominata da due sentimenti
così contrastanti
che non so se riuscirò a rispondere. Da una parte vorrei
arrabbiarmi, urlare
contro a quel ragazzo che ha avuto il coraggio di chiedermi una cosa
del
genere. Come vuole che stia? Sono vuota, persa, ormai non provo
più nemmeno a
comportarmi come una persona che ha dei sentimenti. Dopo tutto quello
che ho
passato, dopo tutte le persone che ho visto morire, dopo che la mia
vita si è
inaridita per una guerra, per un gioco di morte.
Ma
poi riesco a riflettere sulla gentilezza e sulla sensibilità
della persona che
mi ha rivolto questo interrogativo. Peeta, che forse ha sofferto
più di me, ha
sopportato più di me, si preoccupa ancora per me. Io, che
sono stata la causa
di tutti i suoi mali, che l’ho sempre rifiutato, che
l’ho sottoposto a torture
indicibili.
Resto
senza parole, fissandolo, guardando la sua faccia diventare sempre
più
dubbiosa. Mi riscuoto e, per una manciata di secondi, penso a qualcosa
di
giusto da dire. Ma non trovo nulla nella mia testa adatto ad esprimere
la mia
vita in questo momento. “Ecco... vado... vado avanti. E
tu?”
Mi
concede un piccolo sorriso alla mia risposta, ma poi lo vedo esprimere
la mia
stessa difficoltà nel formulare qualcosa in replica. Alla
fine, sembra
decidersi: “Anche io, penso...”. I suoi occhi si
adombrano per un secondo,
inquieti. Peeta solleva le braccia dal tavolo e le porta in grembo,
appoggiandosi
allo schienale della sedia, il capo chino. Sembra così
stanco, sfinito.
Eppure
continua a combattere. Il solo fatto che sia qui ne è un
segno. Sono
assolutamente certa che ora lui stia avendo una reminiscenza legata al
suo
depistaggio, che gli fa ricordare cose di me che non sono vere. Ma lui
combatte
per non crederci, combatte per starmi vicino. Lui è
più forte di me.
Scuoto
la testa, sono confusa. Quanto sono cambiate le cose. Siamo qui, nella
mia
cucina, distrutti e amareggiati, com’è possibile
credere ancora in qualcosa?
Sento il rumore di una sedia che viene spostata, un improvviso calore
vicino a
me. Peeta.
Alzo
gli occhi e lo ritrovo molto vicino, forse troppo. E, mentre sfiora le
mie
mani, gelide, con le sue, decido di non resistere più.
Decido di affidarmi a
lui, lui sa come farmi sopravvivere. Non capisco come né
perché, ma lui mi conosce
meglio di quanto io conosca me stessa. E quando qualche lacrima riga il
mio
volto non mi appongo alla sua carezza, che le asciuga dolcemente.
E
non
mi ribello alle mie sensazioni quando lo abbraccio e mi sento bene. Lo
abbraccio e sospiro. Lo abbraccio e mi sento completa.
Mi
arrendo per la prima volta nella mia vita. Per lui.
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Note
dell’autrice
Care
lettrici, eccovi un
altro capitolo. Katniss finalmente una cosa l’ha capita e si
è arresa a questa
verità. Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Un grazie a
Chris, che con la
sua sola presenza riesce a ispirarmi. Un grande ringraziamento va a voi
che
leggete e avete recensito, e a chi deciderà di farlo in
seguito.
Grazie davvero, mi rendete immensamente felice.
Ile