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Autore: _maya96_    14/11/2012    1 recensioni
Era accaduto tutto così velocemente, neanche mi ero resa conto di cosa fosse realmente successo. Una serie di immagini sfocate, a cui cercai di dare un senso, mi trapassò la mente, mentre chiudevo gli occhi, forse per l’ultima volta.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Klaus, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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-Retrace Your Step-

 -Ritornare Sui Propri Passi-

 
 

“Indipendentemente da quello che si fa o si farà tutto è già stato scritto nel libro del destino.”
 
-Rocco Fierro-
 

Mi svegliai in un grido assordante che si disperse piano nell’aria che gravava intorno a me. Rimbalzò sulle pareti e si confuse in quell’oscurità che mi circondava, graffiando quel silenzio.
Tastai la superficie del comodino con la mano in cerca del pulsante della lampada, per illuminare quella stanza cercando di capire dove mi trovavo.
Quella fredda luce illuminò le tenebre, definendo ciò che prima era solo un’ombra e dipinse con quel suo bagliore le freddi e scure pareti della mia stanza.
Sbattei velocemente le palpebre, cercando di abituarle a quella luce e respirando affannosamente, come se mi stessi riprendendo tutta quell’aria che mi era stata rubata.
Mi sentivo il cuore pulsare forte nel petto, mentre i ricordi cominciarono ad affiorare prepotenti nella mente e tutta quella paura e quel dolore che avevo provato si annullarono per un attimo, quando la mia mano si posò incerta sulla pelle del mio collo.
Mi aspettai di trovarmi un segno, una cicatrice, qualsiasi cosa che mi dicesse che tutto quello era accaduto realmente, che non me l’ero immaginato. Non poteva essere un’illusione, sembrava tutto così dannatamente reale, troppo forte per essere solo un fragile sogno.
Passai più e più volte le dita sulla mia pelle, come per cercare quel segno testimone del mio dolore. Doveva esserci, ne ero sicura, dovevo trovarlo. Non poteva non essere reale. Il ricordo di quel morso era vivido nei miei pensieri. Il cuore che mi batteva con violenza il petto minacciando di scoppiare e rompermi le ossa. Il fiato che mi si spezzava in gola, non riuscendo ad inghiottire quell’aria. Tutto quel buio che mi circondava, mentre pian piano chiudevo gli occhi stremata e senza più forze.
Non potevo aver sognato tutto di nuovo. Non potevo non confondere un incubo dalla vita reale. Come se quella linea sottile che li divide si fosse spezzata e dentro di me regnava il caos.
Mi sentivo confusa, disorientata. Come se appartenessi ancora a quell’incubo, a quel sogno che mi aveva praticamente uccisa ed ora minacciava di raggiungermi anche nella realtà.
Una serie infinita di tremori mi salirono per la schiena fino ad arrivare al collo e alla base della testa, facendomi battere i denti e chiudere pesantemente gli occhi. Permettendo alla pelle delle labbra di assorbire quelle lacrime amare, che non mi ero accorta fossero cadute.
Non mi ero resa conto di come mi stessero scorrendo addosso, scivolando cristalline lungo le mie guance arrossate.
Mi portai una mano sul viso, come se volessi impedirgli di macchiarmelo ancora, come se volessi cancellarle dalla mia esistenza, ma loro mi deridevano, perché erano consapevoli che non mi avrebbero mai abbandonata. Avrebbero continuato a vivere con me, nutrendosi della mia tristezza, della mia inquietudine, finché avrei lasciato questo mondo.
Credevo di essermi abituata a loro, come se fossero parte di me, come se mi completassero, come se non mi meritassi un po’ di felicità. Ma delle volte le nascondevo. Mi vergognavo di mostrarle, nonostante sapessi di non poter farne a meno.
Volevo mostrarmi forte, dovevo sembrare credibile, volevo convincere la gente che mi circondava perché non riuscivo a convincer me stessa.
Ma mi sbagliavo.
Non potevo semplicemente andare avanti con un sorriso e fingere che tutto fosse apposto, perché non funziona così.
Non potevo creare una persona nuova. Una persona senza passato, senza dolore, perché sarebbe una bugia, che mentirebbe solo a me stessa. Sarebbe la mia paura.
Ma chi in questo mondo è davvero privo di paura?
Forse quella paura era la mia forza o forse era anche la mia debolezza?
Poteva essere la mia salvezza o colei che mi avrebbe fatto sprofondare in mezzo all’abisso?
Ciò che era realmente non lo sapevo nemmeno io o forse lo sospettavo, ma mi rifiutavo di accettarlo.
Continuavo a nuotare in quell’assurda incertezza, in quell’illusione in cui io stessa avevo scelto di vivere.
Mi passai una mano tra i lunghi capelli leggermente umidi e sospirai rumorosamente, come se avessi ancora bisogno d’aria.
Mi sedetti sul letto, appoggiandomi con la schiena al freddo muro dietro di me e piegando in su la testa, mentre chiudevo per l’ennesima volta gli occhi, cercando di capire cosa della giornata di ieri fosse stata davvero reale.
“Alba, che cos’è successo?” mi chiese preoccupata zia Mary, sulla soglia della porta.
Come facevo ad essere sicura che non stavo ancora sognando? Forse stavo vivendo ancora in un incubo. Forse ero caduta in uno di quella specie di buchi neri, che ti risucchiano al loro interno, non permettendoti di fuggire.
La mia mente forse mi stava ancora giocando un brutto scherzo, approfittando di quell’illusione che mi ero creata, di tutto quel mondo che avevo costruito intorno a me, ma che ora si stava  sgretolando ai miei piedi e io rischiavo di cadere.
“Stai bene?” mi richiese lei, avvicinandosi al mio letto, allarmata dal fatto che non le avessi ancora risposto.
“Si, ho fatto solo un brutto sogno” riuscii a rispondere io con la voce rotta dal pianto, che cercavo di mascherare, ma evidentemente non ci riuscii come avrei voluto.
Lei si sedette sul bordo del mio letto e guardò le lacrime che scendevano copiose dal mio viso.
La debole luce della lampada le illuminò il volto visibilmente assonnato, ma comunque solcato da quella preoccupazione nei miei confronti.
Lo stava rifacendo, si stava di nuovo preoccupando per me, nonostante io non lo meritassi.
Non meritavo comprensione o perdono. Non meritavo che lei asciugasse ancora una volta quelle lacrime che bruciavano, che mi ustionavano il viso bollente e mi logoravano la pelle arrossata.
Mi maledissi nello stesso istante in cui mi abbracciò dicendomi che non era niente, solo un incubo e che ora era tutto finito.
Come faceva a non capirlo? Come faceva a non comprendere che quello era ciò che mi meritavo? Era inutile che lei accorresse per ogni mio problema, perché ne aveva già fin troppi per preoccuparsi anche dei miei.
Ma non glielo dissi, perché compresi che in quel momento era tutto quello che mi serviva, ciò che mi restava per andare avanti. L’unico appiglio che mi restava per non cadere nel baratro.
Piansi. Non so per quanto tempo o con quanta intensità. Piansi. Gettai fuori tutte quelle lacrime che mi tenevo dentro e che aspettavano solo di uscire. Piansi, so solo che lo feci, soffocando i singhiozzi sulla sua spalla e bagnando il tessuto della sua camicia.
Lo facevo sempre quando ero triste con mia mamma e lei mi consolava anche rimanendo in silenzio, che forse vale più di mille parole.
Avrei voluto che fosse qui in questo momento. Che fosse lei quella che mi stava abbracciando, che fossero sue quelle mani che mi accarezzavano i capelli e quel profumo che inspiravo profondamente.
Ma non era lei, non poteva essere lei, nonostante lo stessi desiderando con tutta me stessa, con tutta la forza che avevo in corpo, ma era tutto inutile, lei non c’era e non ci sarebbe mai più stata.
Dio quanto mi mancava.
Quanto mi mancava la sua presenza, la sua voce melodiosa, che parve per un attimo di risentire lontano, come un lieve sussurro, che sconfiggeva il tempo.
Ma era solo un ricordo. Uno stupido, inutile e dannato ricordo, che faceva male, che mi feriva continuamente tutte le volte che veniva fuori, tutte le volte che desideravo vederlo e sentirlo vocino, ricordandomi che non sarebbe mai più stato reale.
Un’illusione.
Ecco cos’era, solo un’illusione, che si faceva largo prepotente nei miei pensieri, ma ciò nonostante io avevo bisogno di lei.
Mi accorsi che non potevo vivere senza, era l’aria che respiravo. Quell’ossigeno che leggero mi attraversava la gola e mi riempiva i polmoni.
“Ho paura”.
La mia voce uscì in un sussurro. Non mi ricordo neanche se la dissi realmente o la pensai soltanto. So solo che lei mi strinse ancor di più a sé, come se mi avesse realmente sentito, come se mi avesse letto nel pensiero e ora mi stesse consolando, dicendomi che non ero da sola e non lo sarò mai.
Quanto avrei voluto che tutte quelle promesse fossero state reali, ma niente è prevedibile nel mondo. Ho imparato che bisogna andare avanti, accettando in silenzio ciò che la vita ha in serbo per te.
Mi sciolsi lentamente dal suo stretto abbraccio. Ormai le lacrime si erano asciugate sulla mia pelle, ma preferii lo stesso passarmi una mano sul viso per nascondere ogni traccia della mia debolezza.
“Grazie” le dissi semplicemente sorridendole, mentre ritornavo ad appoggiarmi con la schiena al freddo muro. Lei per tutta risposta mi sorrise e si alzò per ritornare a quel sonno a cui io l’avevo strappata, con il mio grido di poco prima.
“Zia” dissi, attirando la sua attenzione verso di me. ”A che ora sono ritornata ieri sera?” Le domandai, cercando di capire se quello che era successo fosse stato davvero solo un sogno.
Lei sgranò gli occhi e mi guardò sorpresa per quella mia domanda.
Cercai di tradurre quello sguardo, ma era come se non sapesse di cosa stessi parlando.
“Non sei uscita ieri sera” mi rispose con voce decisa. “Sei rimasta a casa tutto il giorno”.
Sbarrai gli occhi per quella risposta. Come poteva essere tutto solo un sogno? Niente di tutto quello che era accaduto allora era reale? Era tutto solo un’illusione, ma era così vera o almeno mi sembrava tale.
Era tutto così nitido, tutti quei ricordi non erano frammentati come di solito sono in un sogno, erano così precisi. Mi ricordavo ogni minimo dettaglio, il più piccolo particolare, come se fosse realmente successo.
Forse stavo davvero diventando pazza. Forse era solo la mia paranoia, la mia inquietudine, che mi si rifletteva nei sogni, come se fossero lo specchio di un lago, in cui la mia immagine veniva rapita e rappresentata in quelle acque cristalline che me la storpiavano.
“Va tutto bene?” Mi chiese lei preoccupata.
Annuii in silenzio cercando di apparire credibile, nonostante mi sentissi tutto il contrario.
“Si, tutto bene…Buona notte” le dissi infine sorridendole.
La vidi guardarmi preoccupata un’ultima volta e poi voltarsi per tornare nella sua camera. Oltrepassò la soglia e si chiuse lentamente la porta alle spalle.
La stanza precipitò di nuovo in quel silenzio tombale, lasciandomi da sola con quei pensieri assurdi, che mi gravavano intorno.
Un improvviso brivido di freddo mi si diramò per tutta la schiena e mi fece scuotere velocemente il corpo, cercando di scacciarlo.
Mi voltai con la testa verso sinistra e notai le tende bianche volare sospese nell’aria, mosse dal vento, che entrava con furia dalla mia finestra aperta.
Mi alzai lentamente dal letto sbadigliando e mossi i piedi sul freddo pavimento per raggiungere la finestra. Spostai delicatamente le tende bianche, che mi coprivano la visuale del cielo stellato.
Quei puntini luminosi tappezzavano quel manto nero che si tagliava sopra di me. Immobile, immutabile nel tempo. L’unico punto fisso, mentre tutto il resto andava avanti.
Poi notai qualcosa di strano, mentre chiudevo i battenti della mia finestra, arrestando quel soffio che respirava troppo forte in tutta la stanza.
Girai la mano destra verso di me e qualcosa sulla mia pelle attirò la mia attenzione. La luce soffusa della lampada illuminò l’indice della mia mano e una macchia dal colore scuro sulla pelle di esso.
Me lo portai più vicino al viso, scrutando quel colore che me lo tingeva e mi strisciai il dito contro la pelle del pollice.
Quella macchia era familiare. Sembrava procurata dalla vernice e sembrava anche recente.
Quel colore che assecondava ogni linea sottile della mia pelle, macchiandola di paura, di terrore e d’incomprensione. Come se quella macchia fosse colei che divideva un sogno dalla realtà, un’illusione dalla vita, come se fosse il mio incubo, che era tornato a prendermi.
Mi mancò il respiro quando capii ciò che mi aveva sporcato la pelle. Il colore di quel dipinto immaginario, in quella casa irreale, in una giornata mai esistita, ma evidentemente non così tanto impossibile.
 
* * * *
 
A scuola non avevo ascoltato nessuna lezione, ero immersa nei miei pensieri, in tutti quei sogni che non facevano che confondermi, in quegli incubi che continuavano a perseguitarmi.
Non mi accorsi però che nell’aria aleggiava qualcosa di strano, qualcosa di familiare, che doveva accadere. Un qualcosa di terribile, ma io già conoscevo la fine, come se l’avessi già vissuta una volta ed ora stava solo per ripetersi.
Lo squillo della campanella mi riportò alla realtà. Misi velocemente i libri dentro lo zaino e uscii dalla classe, non ricambiando i saluti dei miei compagni.
In quel momento non m’importava risultare antipatica, quella strana sensazione non mi faceva pensare lucidamente, tutti quei brividi mi correvano lungo il corpo, mentre le palpebre erano così pesanti.
Forse avevo la febbre. Non mi sentivo molto bene, ma eliminai subito quell’opzione quando mi posai una mano sulla fronte e la sentii fresca.
Ma allora perché non riuscivo a reggermi in piedi? Le gambe mi tremavano e mi risultava difficile camminare e la testa continuava a vorticarmi fortemente. Era tutto il giorno che andavo avanti così.
Avevo dormito poco. Quella era stata l’unica spiegazione plausibile che ero riuscita a trovare, dopo quel terribile incubo non ero riuscita a chiudere occhio.
Presi tra le mani quel bicchiere caldo contenente quel liquido scuro.
Avevo solo bisogno di rimanere sveglia, dovevo impedire al sonno di avere la meglio su di me e cosa c’era di meglio che un caldo caffè? Ormai sembravo andassi avanti solo con quello.
“Brutta giornata?”
Una voce soave mi giunse alle orecchie e mi costrinse a chiudere gli occhi per un istante, ma questa volta non mi portò calma e tranquillità, ma qualcos’altro, era solo l’inizio di un incubo.
“Brutto sogno” tagliai corto io senza neanche pensarci. Gettai solo fuori quelle parole senza riflettere, senza dare un senso a un qualcosa che sembrava invece ovvio.
Mi voltai di scatto e la fiera immagine di Scott si trovava a pochi passi da me, mentre quegli occhi verdi mi scrutavano divertiti.
Sembrava tutto così normale, tutto così tranquillo, fin troppo calmo da non essere reale.
Una strana sensazione mi assalì, mentre un dolore mi colpì la testa. Era tutto così assurdo, tutto così impossibile, sembrava stessi vivendo in un’illusione.
Le sue labbra rosee si allargarono in un mezzo sorriso sincero, ma ciò nonostante io vi trovai qualcosa di nascosto.
Allungò la mano verso una ciocca ribelle dei miei capelli e me la scostò dal viso, liberandomi gli occhi.
“I sogni sono lo specchio della realtà” mi disse facendosi più vicino. “Sono le nostre paure più oscure, i nostri desideri più segreti, che si rispecchiano nell’inconscio” continuò mentre mi mise i capelli dietro l’orecchio.
Poi capii cosa c’era di strano. Avevamo già avuto quella conversazione. Avevamo già parlato di questo proprio ieri. Perché me lo stava ripetendo?
Prima che finisse quella frase che già conoscevo lo fermai e feci qualche passo indietro in modo da guardarlo dritto negli occhi. Lui sembrò sorpreso del mio gesto e mi guardò sbalordito, mentre io trovai il coraggio di parlare.
“Me lo hai già detto questo” gli dissi cercando di usare un tono di voce più normale possibile, anche se non so se ci riuscii come volevo.
Mi sforzai di sorridere, ma lui sembrava non capire a cosa stessi alludendo. I suoi occhi fissi nei miei erano velati di sorpresa e d’incomprensione.
“Cosa?” Mi chiese, come se non capisse realmente di cosa stessi parlando, come se fossi io quella che stava farneticando parole senza senso.
“Proprio ieri, ricordi?” Gli risposi cercando di fargli ricordare quella conversazione, ma lui non sembrò convinto.
Quei suoi occhi verdi si fecero più piccoli e delle linee gli si delinearono tra le folte sopracciglia scure, mentre mi guardava sbalordito.
Come faceva a non ricordarlo?
“Non so di che cosa stai parlando” ammise, sbattendo un paio di volte le palpebre. Forse si stava prendendo gioco di me. Era assurdo che se lo fosse realmente dimenticato, doveva per forza essere così.
“Cos’è uno scherzo?” Gli chiesi un po’ acida e non riuscendo a tralasciare una leggera punta di fastidio. “Mi stai prendendo in giro per caso?”
Mi feci più vicina e lo guardai dritto negli occhi. Non poteva continuare a prendersi gioco di me, non doveva, era una cosa che non sopportavo, che addirittura arrivavo ad odiare e poi in quel periodo non avevo la benché minima voglia di sorridere.
“No, non lo farei mai” mi disse allungando una mano verso la mia spalla.
Il suo tocco leggero mi sfiorò caldo la pelle, mentre il mio braccio si tirava indietro, in un gesto quasi involontario, per non sentirlo ancora.
Eppure vi era qualcosa in quei suoi occhi, in quello smeraldo che li tingeva, in quel suo sguardo che rassicurava, che mi sussurrava di lasciar perdere una questione così tanto assurda.
In fondo ho sempre creduto che lui in quel momento mi stesse dicendo la verità, ma uno dei miei peggior difetti era l’orgoglio e la cosa peggiore era che ne ero perfettamente  consapevole.
L’orgoglio è un qualcosa che non si riesce a combattere e nonostante si provi a farlo, non lo si cancellerà mai del tutto.
E' come una malattia che ti corrode l'animo, che te lo fa marcire lentamente dall'interno, ma si è troppo testardi per provare a reagire e combatterlo e così si lascia che ci sottometta.
"Non sei divertente" gli risposi infine scocciata.
Finii in un unico sorso quel poco di caffè che era rimasto e gettai velocemente il bicchiere nel cestino. Mi voltai per andarmene, ma Scott mi fermò prendendomi per un braccio.

Quel gesto fu gentile, ma non riuscii comunque a mascherare della preoccupazione.
“Ma cosa ti prende?” Mi chiese scuotendomi lievemente.
I nostri sguardi entrarono in contatto. Un gesto veloce, rapido, sincero. Ecco cosa ci vidi nei suoi occhi. Sincerità. Quella consapevolezza di non essere il colpevole accusato da tutti, ma innocente e i suoi occhi non trasmisero nient’altro.
Non so il preciso motivo per cui lo feci, tutt’ora non ho ancora una spiegazione razionale o delle scusanti per il mio gesto.
Allungai l’altro braccio verso la mia spalla e con gesto brusco cacciai la mano di Scott che ancora mi teneva e poi corsi via, lasciandolo solo, senza una risposta alla sua domanda. Senza dargli un motivo del mio stupido comportamento , mentre lui immobile mi fissava e io correvo ero già lontana.
 
* * * *
 
Mi faceva male.
La testa mi continuava a pulsare, tanto che dovetti chiudere gli occhi per non cadere a terra.
Appoggiai la schiena alle fredde mattonelle del bagno della scuola e mi presi la testa tra le mani, cercando di arrestare quell’inspiegabile dolore, che continuava ad attanagliarmi.
Troppi pensieri mi gravavano intorno. Si rincorrevano veloci nella mia mente, come se fosse solo tutto uno stupido gioco, ma io non volevo giocare, non più. Non volevo avessero la meglio di nuovo su di me, non glielo avrei permesso un’altra volta.
Mi appoggiai al lavandino che mi sorresse. Poi mi riempii tutte e due le mani di quella fresca acqua e me la portai in viso.
Aprii gli occhi, che erano rimasti chiusi, mentre quelle gocce gelide li colpivano e alzai velocemente la testa, finché la mia immagine venne riflessa nello specchio appeso al muro.
Il mio volto bagnato e un po’ arrossato, i miei occhi spenti, contornati da leggere occhiaie, la mia pelle fin troppo pallida. Ogni singola cosa, ogni singolo particolare, sembrava non appartenermi.
Molte volte mi ero accorta che il mio volto non era più come quello di prima, raffigurato in quelle foto scattate non più di un anno fa.
I lineamenti erano sempre quelli, la persona era sempre la stessa, ma vi era qualcosa di diverso. Un piccolo cambiamento quasi invisibile, del quale nessuno si accorgeva, ma io lo vedevo, anche fin troppo.
Quegli occhi scuri prima erano animati da una luce, da un bagliore, dalla voglia di raggiungere i propri sogni e dalla vita.
Ora quella luce si era spenta. Non riuscivo più a vederla in quel mare nero. Si era affievolita, come una fiamma che svanisce nell’aria, lasciando solo quell’alone di fumo, come ricordo della sua esistenza.
Tutti quei pensieri mi stavano annebbiando la mente. Mi facevano male e aumentavano il dolore alla testa che provavo.
Chiusi gli occhi e li strinsi fortemente quando la fitta divenne più forte. Mi presi la testa fra le mani, premendomi con le dita le tempie, in attesta che tutto terminasse.
Ma il dolore non diminuì, aumentò sempre di più, finché diventò insopportabile.
Incominciai a barcollare. Non riuscendomi a reggere in piedi, non riuscendo a sostenere il mio corpo che sembrava fosse diventato pesantissimo.
Avevo paura di aprire gli occhi perché temevo sarei caduta, ma dovevo provarci.
Con tutta la forza che mi restava riuscii finalmente ad aprirli e il mio sguardo si posò di nuovo involontario sul vetro opaco di quello specchio.
Ma questa volta c’era qualcosa di diverso.
L’immagine riflessa non era più la stessa. Non era solo la mia figura ad essere intrappolata in quel vetro, ma anche quella di qualcun altro.
Di un qualcuno dietro le mie spalle che si nascondeva nell’ombra. Che era rimasto tutto quel tempo a fissarmi, mentre io non riuscivo a vederlo.
Spaventata mi voltai di scatto, ma non trovai nessuno. Dietro di me regnava solo il vuoto.
Un vuoto che un qualcuno prima, segretamente, era riuscito a colmare.
 
* * * *
 
Strinsi incerta la maniglia della porta e sospirai profondamente.
Il dolore alla testa era quasi scomparso, ma mi aveva costretto a non muovermi per un po’ di tempo ed ecco perché quel giorno arrivai di nuovo in ritardo.
Credevo che la signora Lawson si sarebbe davvero infuriata con me. Dopo tutto quello che ero convinta fosse successo ieri, non ero riuscita a cambiare le cose.
Girai lentamente la maniglia e spinsi con forza la porta in avanti, che emise uno stridulo cigolio, che ruppe quel silenzio.
Feci un passo in avanti e poi un altro ancora, finché superai la soglia ed entrai nella classe.
Tutti i volti degli studenti erano rivolti verso di me, mentre il mio sguardo rimaneva basso, cercando di non incontrare i loro, ma non riuscii comunque ad evitare quello di Scott.
Era preoccupato per me e forse anche un po’ deluso, ma come potevo biasimarlo. Ero scappata via senza neanche dargli una risposta. Forse era stata quella fitta alla testa a guidarmi, ma non potevo dirglielo, sarebbe risultata solo una scusa.
“Signorina Summers” la voce altezzosa  della mia professoressa mi fece tornare alla realtà. “Non mi dica che si è di nuovo persa” continuò alzando il tono della voce “In fondo questa scuola non è neanche la metà della sua a Seattle, mi sbaglio?”
Sbarrai gli occhi appena sentii quella frase. Era identica a quella che mi aveva detto ieri, la stessa cosa che era successa con Scott. Cosa diavolo stava succedendo?
Perché mi sembrava di rivivere la giornata?
Perché ero convinta di aver già sentito quelle frasi?
Non poteva essere, non era possibile, era tutto così assurdo, così irreale. Che stessi ancora sognando?
Forse stavo vivendo in un incubo e non mi ero ancora svegliata dal mio sonno. Era solo tutto un’illusione, ma sembrava così reale.
Non riuscivo a credere che quello potesse essere vero. Avevo uno strano e fastidioso senso di déjà vu. Mi sembrava di rivivere questo giorno, però in un modo diverso.
“Signorina Summers?” Di nuovo la sua stridula voce mi fece ritornare alla realtà e i miei occhi si posarono di nuovo sulla sua immagine, mentre prima vagavano nel vuoto, in cerca di una risposta sensata.
 
* * * *
 
Feci scorrere velocemente il dito tra i libri polverosi.
Come previsto la signora Lawson mi aveva costretta ad andare in biblioteca dopo la scuola, cosa che non fui sorpresa di sentire, ma mi lasciò comunque scossa perché non riuscivo a comprendere come tutto questo potesse essere reale. Forse stavo diventando pazza?
Presi tra le mani un libro sull’interpretazione dei sogni. Magari c’era qualcosa che poteva aiutarmi, anche se ero sempre stata scettica, ma cos’altro potevo fare?
Dovevo trovare delle risposte, anche le più banali. In quel momento non m’importava fossero vere, bastava che fossero credibili.
Dovevo trovarla. Prima che questa giornata fosse giunta al termine. Prima di uscire da scuola e sentire quella voce. Prima di arrivare in quella casa e vedere quel quadro. Prima che…
“Non dovresti leggerli i libri, dovresti metterli in ordine”. Una voce cristallina mi giunse alle orecchie
Sobbalzai appena sentii quella frase. Ciascuna di quelle parole che ricordavo a memoria, che si susseguivano giocose, ma in un momento come questo mi portarono solo inquietudine.
Mi girai di scatto, cercando di nascondere il libro dietro me, in modo che Ally non leggesse il titolo.
“Ehi, non te la prendere, stavo solo scherzando” mi disse alzando le mani in segno d’innocenza.
“Lo so, Ally” risposi, mettendo il libro che tenevo in mano, nascosto in mezzo agli altri, sullo scaffale più vicino.
“Come fai a sapere il mio nome?”
Non mi ero accorta di averlo detto, non mi ero resa conto ed era una cosa che in teoria non dovevo sapere, ma nonostante ci avessi di nuovo azzeccato, mi sentii profondamente turbata.
“Me lo ha detto la signora Lawson” le risposi, cercando di mantenere un tono di voce normale, ma mentire non era mai stato il mio forte.
Lei annuì convinta delle mie parole e prima che ci potesse ripensare feci un passo in avanti e le tesi la mano.
“Sono Alba” le dissi cercando di apparire credibile.
Ally mi sorrise e mi strinse la mano.
“Lo so” disse scherzosamente cercando di imitare la mia voce. “Me lo ha detto la signora Lawson”.
Ridemmo entrambe e questi brevi attimi mi fecero scordare tutte le stranezze che stavano e dovevano ancora accadere oggi.
“Ti dico solo una cosa” mi disse di nuovo facendosi più seria. “Non farti spaventare dalla signora Miller, lei a volte...diciamo...è un po’ pazza”.
Annuii in silenzio e tornai a mettere in ordine i libri sugli scaffali polverosi.
Lo sapevo, dovevo solo fare attenzione. Dovevo cercare di non far ripetere le cose. Forse tutto questo era solo una seconda opportunità.
Ma potevo davvero ingannare il destino?
“Tu devi essere Alba?”
Una voce roca soffiò alle mie spalle, ma non avevo bisogno di voltarmi per donarle un volto, perché già lo conoscevo, ma lo feci comunque.
Girai lentamente la testa e vidi la sua immagine. La signora Miller se ne stava in piedi davanti a me ed era identica a come l’avevo sognata.
“Si, sono io”.
Ci volle qualche minuto prima che parlassi. La voce mi uscì in un sussurro. Non volevo ricapitasse come me l’ero immaginato, ma forse non avevo scelta. Cercai comunque di rimanere ferma per evitare anche un minimo contatto.
“La signora Lawson ha costretto Alba a venire qui” interruppe Allison vedendo che rimanevamo entrambe in silenzio. “Me no male che c’è qualcun altro che ci aiuta e non siamo destinate a lavorare qui da sole”. Finì la frase cercando di rompere quella tensione che si era creata, ma forse solo io conoscevo la causa.
“Ognuno di noi è destinato a qualcosa”.
La voce della signora Miller tornò a farsi sentire con una tale calma da far venire i brividi.
“Ma anche la più piccola persona può cambiare il corso del futuro” mi disse e mi guardò dritta negli occhi.
Non riuscii a capire cosa si celava dietro quelle iridi. Erano distaccate e non riuscivano a far trapelare nessuna emozione. Poi, appena terminata quella frase priva di senso, si voltò e tornò al suo lavoro.
Allison roteò gli occhi e si picchiettò la tempia con l’indice, alludendo alla signora Miller dietro uno scaffale, troppo lontano per riuscire a vederci.
Quell’ansia e quell’inquietudine di prima si affievolirono lentamente fino a scomparire quasi, eppure c’era ancora qualcosa che mi turbava.
Anche se ero riuscita a cambiare quest’evento , c’era un altro ben peggiore che mi stava aspettando, sarei riuscita ad oppormi?
Chiusi un attimo gli occhi, cercando di radunare tutti i pensieri, ma quella frase di prima risaltò prepotente tra tutte le altre.
Anche la persona più piccola può cambiare il corso del futuro.
 
* * * *
 
Mi strinsi di più nel cappotto e aumentai il passo.
Volevo tornare a casa il più in fretta possibile. Volevo chiudermi la porta alle spalle sapendo di essere salva. Volevo addormentarmi con la consapevolezza che mi sarei risvegliata il giorno dopo.
I miei passi scorrevano veloci sul freddo asfalto. Si susseguivano incerti, mentre il mio corpo si muoveva all’unisono con loro, come se fosse costretto ad andare dove loro ordinavano, senza obbiezioni.
Delle nuvole bianche apparivano nell’aria ad ogni mio respiro, ma poi si dissolvevano fino a scomparire per sempre.
Un leggero vento mi scompigliava i capelli coprendomi di tanto in tanto la visuale. Mi tagliava freddo la pelle scossa da leggeri tremori, ma io andavo avanti.
Avevo le orecchie tese, come se stessi aspettando quella voce, come se stessi attendendo la mia guida verso la morte un’altra volta.
Non avevo un piano ben preciso o altre idee se questo fosse andato storto, dovevo solo continuare, sempre più veloce.
Non mi ero dimenticata come mi attirasse quella voce, come mi stregasse la mente e come inducesse il mio corpo a seguirla, ma dovevo farlo, dovevo dimenticarla, dovevo farla scomparire per sempre.
Il cielo si stagliava immenso sopra di me e il rosso e viola che lo tingevano lo facevano sembrare la tavolozza di un pittore, un pittore che stava per dipingere la morte.
Deglutii rumorosamente ed aumentai il passo. Dovevo essere prossima al luogo in cui avevo sentito quella voce, e appena lo riconobbi incominciai a correre.
Alba.
Non so se la sentii realmente o me la immaginai soltanto. So solo che continuai a correre, scuotendo ad ogni passo la testa, cercando di scacciare quel pensiero.
Il cielo assunse una tonalità più scura, mentre il vento incominciò a tirare più forte.
I miei piedi volevano fermarsi. Lo sentivo dal dolore che li attanagliava ogni volta che toccavano il suolo. Un dolore che faceva male. Che sanguinava e bruciava, ma mai come quello che mi scoppiò in testa.
Le tempie incominciarono a pulsarmi veloci, sempre più forte man mano che andavo avanti, perché cercavano di comandare i piedi, le gambe, tutto il mio intero corpo che era obbligato a fermarsi.
Alba.
Un altro sussurro, un’altra lama nel petto.
Mi sentii mancare il fiato per qualche istante, mentre adesso lo cercavo avidamente.
Mi riempii i polmoni di  quell’aria gelida che mi pesava sul cuore e la ingoiai amara, come se fosse una medicina.
Il rumore del vento mi rimbombava prepotente in testa, mentre non sentivo altro che quella voce, che diventava sempre più forte, nonostante stessi cercando d’ignorarla.
Ma come potevo?
Come era possibile opporsi? Come poteva esercitare un tale controllo su di me?
Avevo paura. Sentivo dolore e andava sempre peggio, mentre correvo senza una meta precisa. L’unica cosa che volevo era smetterla di soffrire e l’unico modo per farlo era fermarsi.
Un caldo liquido scarlatto mi scivolò copioso dal naso e mi macchiò la pelle chiara, come se quel pittore avesse finalmente deciso di dare la prima pennellata al suo dipinto.
La paura s’impossessò del mio corpo, trafitto dalle lamine del vento, che lo pugnalavano infami. Mi remava contro, mentre io andavo avanti.
È inutile che ci provi, non riuscirai mai ad opporti.
Aprii la bocca per dare vita a quell’urlo , che però non diventò mai reale. Solo un fragile sussurro che scomparve fugace nell’aria.
Il cielo s’incupì ulteriormente e quel rosso che lo tingeva diventò vermiglio, mentre il terreno sprofondava piano nell’ombra e nel silenzio.
Il cuore mi pugnalava con violenza il petto e ogni suo battito mi arrecava dolore, ogni sua lama mi faceva soffrire, ma avevo paura di fermarmi, nonostante non ce la facessi più a continuare.
Talvolta la paura di soffrire è assai peggiore della stessa sofferenza.
I miei piedi colpivano con insistenza il suolo. Quel freddo asfalto senza vita, in cui io riponevo la mia salvezza.
Quei movimenti oramai meccanici si susseguivano identici o forse ancora più veloci.
Non so se mi sentissi meglio o forse ancora peggio quando incominciai a sentire il dolore lontano, come se appartenesse ad un altro corpo, ad un’altra vita, mentre io scivolavo via dalla mia.
Quel rivolo di sangue mi sporcò le labbra che tenevo schiuse e mi finì in bocca, con il suo amaro sapore.
Il vento soffiò anco r più forte o forse ero io che correvo più veloce, ma da cosa stessi scappando non lo sapevo e non volevo nemmeno scoprirlo.
Il cielo sprofondò nelle tenebre e la Terra cadde nell’ombra, illuminata qua e là da qualche sperduto lampione.
Poi accadde tutto. Così velocemente che non me ne resi conto, così reale da non essere solo un fragile sogno.
Non mi accorsi di come il sentiero era finito, di come veniva tagliato da quella strada che lo divideva in due parti distinte che non si congiungeranno mai, nonostante si completassero a vicenda.
L’asfalto ai miei piedi divenne più compatto, più lineare e forse anche più caldo, ma non riuscii a percepirlo con esattezza, il dolore lancinante alla testa m’impediva di pensare lucidamente.
I capelli mi volavano indietro sottomessi da quel potente respiro, che incombeva gelido sulla mia esile figura.
Ad un tratto due fasci di luce tagliarono le tenebre fino a colpirmi con il freddo bagliore un sordo rumore trafisse quell’immobile silenzio.
Voltai la testa, ma venni accecata da quella chiara luce e fui costretta a chiudere per qualche istante gli occhi, per un tempo forse troppo lungo.
Quando li riaprii vidi quella macchina. Si stagliava impotente dietro quel bagliore, illuminata da quei fiochi raggi di luna.
Era così vicina, così veloce, troppo veloce da neanche provare a muovermi.
Quei pochi secondi divennero eterni, come se il tempo si stesse fermando.
Ero riuscita a cambiare quell’evento, era vero che anche la persona più piccola può cambiare il corso del furo, ma non potevo continuare a sfuggire a quel mio destino crudele. Non ero morta in quella casa come nel mio sogno, forse era qui allora che doveva finire.
Forse il tempo ce l’avevo. Forse sarei riuscita a spostarmi prima che m’investisse, prima di colpirmi, ma rimasi ferma e chiusi gli occhi. Non volevo vederla mentre si avvicinava. Volevo che lo facesse in silenzio e mi portasse con lei.
Si, era forse quello che desideravo. Forse ero troppo egoista perché non riuscivo ad affrontare i fatti e preferivo scappar via, ma non avevo la possibilità di ripensarci, ormai era troppo tardi.
Un sordo rumore di gomme che raschiavano l’asfalto trafisse l’aria. Cercavano di frenare, ma ormai era troppo vicina, non ce l’avrebbe mai fatta.
Scivolavano sulla strada per via di quella pioggia che aveva cominciato a cadere copiosa dal cielo cupo in cui non si scorgeva neanche una stella.
Una notte senza stelle, una pioggia senza scopo, in quegli attimi senza tempo. Questa doveva essere la mia fine?
Ma in fondo io non volevo questo, non l’ho mai desiderato. Non volevo morire quella notte e pareggiare i conti con il destino, mi terrorizzava. Dovevo spostarmi, dovevo farcela. Mi ritornò quella voglia di lottare svanita per troppo tempo.
Mi resi conto troppo tardi di tutto questo, quando ormai si trovava ad un palmo da me, mentre quelle luci mi pungevano accecanti gli occhi.
C’erano ancora tante cose che desideravo fare. Cose che avevo sempre lasciato per il futuro, quando pensavo che la vita fosse eterna. Cose per le quali avevo perduto interesse, quando ho incominciato a pensare che non valesse la pena vivere. Ma mi sbagliavo. Ora più che mai volevo realizzarle, prima che fosse troppo tardi.
Aprii la bocca in un grido, quando capii che ormai non c’era più speranza, ma qualcosa o qualcuno me lo fermò.
Sentii una figura possente cingermi velocemente i fianchi, mentre si scagliava con troppa velocità su di me per spingermi da un lato, prima che quella macchina m’investisse.
Sentii il suo peso gravarmi addosso, mentre cadevamo entrambi dall’altra parte della strada, su quel terreno umido, bagnato da quell’incessante pioggia, che mi sporcò la guancia e subito un attimo dopo quella macchina superò la strada, investendo dove solo ora si trovava il vuoto, poi scomparve lontana e la sua luce ci abbandonò.
Mi trovai distesa sul terreno con il viso rivolto verso il basso e i gomiti stretti al petto che toccavano terra.
Avevo paura di muovermi e cercavo di respirare piano, come se volessi risultare invisibile, mentre quelle gocce d’acqua mi bagnavano i capelli e le lacrime mi macchiavano il volto.
Un peso mi gravava sulle spalle, forse troppo leggero, come se non volesse pesarmi, togliendomi così il respiro, dopo avermelo ridato.
Il cuore mi rimbombava nel petto con troppa forza, con troppa violenza, che faceva male e a stento riuscivo a trattenere quei singhiozzi, che mi si spezzavano in gola.
Un fresco respiro mi soffiava tra i capelli umidi, mentre il suo braccio sulle mie spalle si mosse e mi aiutò a voltarmi.
Mi lasciai guidare da lui, come se non potessi scegliere, come se fossi un corpo senza vita, come se quella macchina mi avesse realmente investito.
Quel dolore alla testa continuò a farsi sentire, come un agghiacciante urlo che mi rimbombava nella mente.
Le tempie incominciarono a pulsarmi velocemente in una serie di sussulti, che mi laceravano, che mi bruciavano, mentre pian piano riuscivo a scorgere quella figura, come se l’avessi già vista una volta.
Tenni la testa bassa perché aveva un peso troppo grande da sopportare, mentre lui mi mise seduta sul terreno e con la sua mano mi sorresse la schiena, mentre minacciavo di cadere a terra.
Il dolore era troppo forte, faceva ciondolare il mio corpo tremante, mentre lui, con troppa facilità, mi teneva salda, cingendomi le spalle e i fianchi.
Una goccia di pioggia mi scivolò lungo la pelle del viso fino a cadere a terra inerme, mischiandosi con le altre. Lui allungò una mano verso di me. Lo sentii dall’aria che veniva spostata, mentre si avvicinava. Poi, con le sue gelide dita, mi sfiorò glaciale il mento, per poi tirarmi su il viso, in modo da potermi vedere in volto.
Io tenevo gli occhi chiusi. Sembrava mi costasse fatica anche solo provare ad aprirli. Mi facevano male. Dio quanto mi facevano male.
Un lungo e fastidioso brivido mi percorse la spina dorsale, quando appoggiò la mano sulla mia guancia, cercando di pulire quel fango, che poco prima mi aveva macchiato la pelle.
Quelle fredde dita mi congelavano le vene, raffreddando il sangue che scorreva veloce all’interno. Mi sentivo la gola secca e deglutii lentamente, ma non servì a nulla.
Poi decisi di aprire gli occhi, quando le sue dita mi asciugarono le lacrime e poi scesero leggere, percorrendo le linee sottili dei miei zigomi poco pronunciati, fino a posarsi lievi sulle labbra che tenevo leggermente schiuse, che sussultarono sotto il suo gelido tocco.
Pian piano aprii gli occhi, ma ci volle qualche istante prima che l’immagine davanti a me assunse una forma. Scorsi un uomo dalla pelle chiara e dagli occhi di ghiaccio, con il viso solcato dalle lacrime del cielo, che si abbattevano senza tregua su di noi.
Corrugai la fronte per cercare di definirlo meglio, anche se ero certa di conoscere la persona a cui appartenevano quelle iridi, anche se vedevo sfuocato per le lacrime di poco prima.
Poi un raggio di luna riuscì a sconfiggere le nubi e illuminargli il volto.
Klaus.
Quell’uomo che avevo incontrato qualche giorno fa, che affermava di essere un vecchio amico dei miei genitori, quello che mi aveva appena salvato la vita o forse aveva allungato la mia morte?
“Perché?” Riuscii a dire a stento con la voce rotta dal pianto.
Volevo sapere perché mi aveva salvata. Perché diavolo non aveva lasciato che quella macchina m’investisse, ponendo fine alle mie sofferenze.
Volevo una risposta e lui doveva darmela. Perché mi aveva seguita e come aveva fatto a raggiungermi così velocemente?
Una lacrima argentea mi scivolò solitaria lungo la mia guancia e lui la scorse e la seguì con gli occhi fino a che cadde a terra, poi tornò a guardarmi in volto.
Il suo sguardo era minaccioso, non mi pareva apprensivo, ma infuriato. Quelle lamine di ghiaccio erano fisse nei miei occhi, illuminate da un barlume di rabbia e di follia.
“Perché se morirai…non sarà certo per colpa di un auto” mi rispose in un sussurro, sogghignando paurosamente.
Quelle letali e marcate parole mi trafissero il cuore che perse un battito, mentre per un attimo il respiro mi rimase sospeso in gola.
Il dolore alla testa divenne più forte che mai, tanto che mi sarei messa ad urlare. Un forte giramento mi costrinse a cadere con il corpo all’indietro, ma prima che toccassi terra, lui mi bloccò.
Mise un braccio attorno alla mia schiena e l’altro sotto le mie ginocchia. Chiusi gli occhi quando non sentii più il terreno sotto di me, ma la sua possente figura che mi sosteneva.
Non provai a divincolarmi. Mi lasciai trasportare inerme dalle sue braccia. Quel movimento leggero che mi dondolava, ma così scaltro e calcolato che m’impauriva.
Gli occhi divennero pesanti, tanto da non riuscire a tenerli aperti, ma dovevo farlo. Klaus mi aveva salvato la vita, ma potevo davvero fidarmi di lui?
Quei suoi occhi indecifrabili e apparentemente così indifferenti e distaccati, vennero illuminati da una strana luce che non avevo mai visto in nessuno prima. Mi terrorizzava, ma allo stesso tempo m’incuriosiva.
Mi sentivo così piccola, così invisibile, il nulla in confronto a lui, come una fragile foglia che veniva spezzata dal vento, che poteva portarla via in qualsiasi momento, senza che lei potesse opporsi.
Ogni singolo rumore, ogni singolo gesto divenne lontano, troppo distante da neanche provare a cercarlo. Solo un impercettibile sussurro, mentre sentivo i muscoli delle sue braccia tendersi, mentre sorreggevano il mio peso.
Il mio fianco aderiva perfettamente al suo rigido corpo. Sentivo il fruscio della sua maglia muoversi ad ogni suo passo, mentre la pioggia continuava a colpirci con violenza.
Sentivo il suo respiro soffiare leggero tra i miei capelli. Così regolare, così preciso, così differente dal mio che sembrava tremasse.
La mia testa divenne così pesante. Incominciò a ciondolarmi e a farmi venire la nausea.
Con gesto involontario mi aggrappai con un braccio alla sua spalla. Sapevo mi stesse tenendo, ma il giramento era troppo forte, avevo paura di finire a terra. Lui, con un fluido e veloce gesto, mi strinse di più a se, come per farmi capire che non mi avrebbe mai fatta cadere, e io mi fidai.
Chiusi per l’ennesima volta gli occhi, così stanchi, così deboli, mentre tutto il mio corpo veniva raggiunto dal sonno.
Non mi resi nemmeno conto di come appoggiai la testa in un punto impreciso tra la sua spalla e il suo collo e venni investita da quel suo particolare profumo, che m’inondò in una leggera brezza fresca il viso, così vicino al suo.
Il cuore mi colpiva velocemente il petto, ma non mi parve che il suo facesse lo stesso, anzi, ero sicura di non sentirlo nemmeno battere, sotto il suo petto, al quale ero appoggiata. Dovevo essere proprio esausta.
Alzai di poco la testa e lo guardai per un attimo, cercando di concentrarmi per scorgerlo meglio tra tutta quella pioggia.
Il suo volto, prima solcato dalla rabbia e dalla follia, ora sembrava più sereno, più tranquillo. Quelle gocce d’acqua li rigavano la pelle del viso, dai tratti marcati, mentre i suoi zigomi si rilassavano.
I suoi occhi furono la cosa che mi colpì di più. Non erano come ricordavo, ma erano abbagliati da una luce diversa, da uno strano bagliore, che non avevo visto la prima volta che l’avevo guardato in volto. Gli donavano un aspetto differente, anche se non riuscii a comprendere cosa fosse perché non lasciava trasparire alcuna emozione, ma tutto questo durò solo qualche attimo. Lui si accorse di me e la sua espressione tornò dura come prima.
Appoggiai di nuovo la testa alla sua spalla, che si contrasse leggermente appena sentì il mio tocco. Il tessuto leggero della sua maglia mi accarezzò la gote, mentre pian piano chiudevo gli occhi, sopraffatta dal sonno.
Avrei voluto fargli tante domande, fin troppe e avrei voluto avere delle risposte. Ma in quel momento si annullò tutto. Tutti i pensieri, ogni singola sensazione, ma non i ricordi.
Questo ricordo mi accompagnerà per sempre, mentre il buio attorno a me s’infittiva, sprofondando ancor di più nelle tenebre. I suoi passi così calcolati, quelle sue braccia così possenti, quegli occhi di ghiaccio e quel suo inebriante profumo, ogni singola cosa. Mentre mi addormentavo tra le sue braccia, abbandonandomi a lui, che camminava tra la pioggia. In una notte senza stelle che ci faceva da guida, e sigillava con le sue tenebre, il ricordo di questi attimi irreali, privi di tempo.


Buongiorno a tutti,
scusate il ritardo, ma mi serviva un po' di tempo per mettere insieme la storia e decidere se continuarla o meno. Ora cercherò di mettere un capitolo ogni settimana e spero davvero che questa fanfiction continui a piacervi.
Se c'è qualcosa che non vi convince o se avete bisogno di chiarimenti sono ben disponibile tramite recensione.

Ecco un'immagine dell'attrice che ho scelto per interpretare Allyson

http://www.cinema10.it/wp-content/uploads/2012/03/5216477393_5dc6649c34.jpg

Grazie per aver letto il capitolo, alla prossima. :)


  
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