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Autore: twentyfivenovember_    14/11/2012    3 recensioni
Questa storia è stata ideata da una mia amica, ma l'ho messa in atto io.
E voglio dirvi solo che queste parole sconvolgeranno tutta l'idea che avete di un vampiro; come disse l'Edward Cullen cartaceo: «evoluzione o creazione?». Noi optiamo per 'malattia'.
La protagonista è Hayley Hamilton, ragazza di 16 anni incline a non avere buoni rapporti con la società che si riscontrerà in un morbo che stravolgerà del tutto la sua vita tanto odiata. Il 'morbo del vampiro'.
Buona lettura!
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Vita di tutti i giorni; capitolo 1

Il suono della sveglia mi sconvolse totalmente, facendomi dimenticare persino il mio nome.
Tastai sul comodino centenario per sbattere al muro quel fastidioso e maledettamente efficiente arnese, che era l'unica cosa che mi permettesse di vivere un'altra schifosissima giornata con quegli idioti della mia generazione. Ma poi l'unico problema ero io: sola, incapace di interagire col mondo. Non riuscivo a vedere le cose dalla prospettiva degli altri; la mia era sempre un'opinione contrastante, male accetta. Nessuno mi cercava, nessuno mi voleva. Almeno quanto io volessi e cercassi gli altri. E non era esattamente un dato positivo. Persino con i miei genitori - che teoricamente dovevano essere il mio imput per la vita di un giorno, le persone con le quali potevo confidarmi e cazzate varie - non avevo molta confidenza.
            Ma cosa c'era di sbagliato in me?
            Me lo ero chiesta davvero tante volte...
           
Mi scossi dai miei pensieri depressi (tanto per cambiare), e cercai di darmi una mossa a lavarmi e vestirmi. Appena scesa dal letto osservai il mio doppio nello specchio, fin troppo simile a me. No, decisamente troppo simile all'originale, anche se era stupido che mi aspettassi qualcosa di diverso.
Le labbra orrende poiché devastate dai miei denti peggio di un coniglio; gli occhi di un castano talmente anonimo che mi irritava solo a guardarli; i capelli castano chiaro - quasi miele -  invece decisamente fuori dal comune, che allo stesso modo mi infastidiva; il corpo coperto da un pigiamone viola di dimensioni sproporzionate non adatto al mio fisico esile e pressoché privo di ogni tipo di forza. Sbuffai. Ero ridicola.
Cercai di non odiarmi più di quanto non fosse necessario, dato che poi una volta al piano di sotto avrei dovuto inscenare una stupida commedia per sembrare una ragazza normale agli occhi dei miei genitori. Dunque corsi in bagno a cercare di rendermi un po' più accettabile. I miei capelli sembravano una cazzo di balla di fieno!
           
Dopo una doccia veloce indossai una felpa gigante e torbida, adatta al tempo non proprio ottimo di quei giorni. Il che era normale dato che abitavo a Seattle, Washington. Poi un paio di jeans talmente attillati che dovetti fare uno stupido balletto per indossarli come meglio andava e le mie amate Converse. Una delle poche cose che non schifavo.
Appena uscita di corsa dal bagno presi un respiro profondo. Mi dissi che era solo un'altra stupida e inutile giornata e che sarebbe passata anche quella. Ma il punto era che tutte le giornate della mia vita erano inutili e passeggere. E meno male che era un città grandicella, non saprei cosa avrei fatto se avessi abitato in uno sperduto paesino di provincia, pieno di idioti dalle mentalità ristrette. Ma anche se Seattle non faceva parte di quella classificazione, forse non c'era molto divario fra le mentalità di un povero contadinello e quella di un tipo di qui.
           
Scesi giù, stampandomi un falso sorriso in volto, e sperando che anche quella volta nessuno si fosse reso conto che era un sorriso vuoto e morto.
«Ciao ma’. Buongiorno», salutai, con un nodo in gola – perché mi stavo di nuovo concentrando sul fatto che di lì a poco avrei dovuto affrontare un’altra terribile giornata – però poi cercai di concentrarmi sulla frase 'lo show deve continuare'.
«Buongiorno, Hayley!», salutò pimpante mia madre, mentre cercava nel frigorifero chissà quale vivanda, e contemporaneamente grattando in testa un'altra delle poche cose che non odiavo: Kurt, il cane di pedigree sconosciuto che tenevamo in casa, alto quanto un Volpino, nero fino dentro al midollo. Era una macchia nera, quasi. Rivolsi un sorrisetto a Kurt, mentre lui scodinzolava.
«Dov'è papà?», domandai, atona, mentre mi sedevo al tavolo centrale della cucina.
Casa nostra non era né esageratamente lussuosa né una casupola: non abitavamo in appartamento, come quasi il 65% della popolazione, quindi era importante mantenere alto l'onore delle vecchie case americane, come ci teneva a proferire mio padre.
           
La cucina era dipinta di un azzurrino piacevole agli occhi, e al suo centro piazzato un tavolo un po' troppo colossale, ma molto elegante, di legno di ciliegio, come il resto della cucina. Il frigorifero invece era di ultima generazione, costellato di ogni tipo di souvenir con la calamita. C'era qualche cosa di Barcellona, di Amsterdam, di Palma di Maiorca, dell'Australia, dell’Italia... di certo non si poteva dire che eravamo sempre stati rinchiusi in una cupola di gas e tempo piovigginoso. E poi ai miei piaceva viaggiare: i soldi di certo non mancavano: mia madre era non solo un avvocatessa, ma anche una wedding planner, mentre mio padre possedeva un’agenzia di automobili e una delle poche in tutta Seattle.
«Sai che ora è? Se n’è andato da un buon quarto d’ora».
Fantastico, erano le otto e mezza in punto. Ma come…
Sgranai gli occhi, e, senza riflettere ulteriormente, mi buttai per la gola il bicchiere di latte e caffè fumante che era appoggiato sul tavolo. Mi scottai la lingua, ma non ci pensai più di tanto, mentre volavo su a prendere lo zaino e il giaccone impermeabile. Appena scesa di nuovo giù, mia madre mi bloccò.
«Gli occhiali», mi disse, in tono severo, mentre mi porgeva un cover fucsia, colore che odiavo. Ah, già, il mio castano così anonimo era abbruttito pure da due lenti schifosissime che portavo dall’età di quattro anni. Viva la miopia.
Alzai gli occhi al cielo e lo ficcai nello zaino, mentre con assurda goffaggine mi mettevo il giaccone beige addosso.
 
Uscii di casa, coprendomi il capo con il cappuccio del giubbotto e sciaguattando nell’acqua piovana.
Purtroppo – però per me, dato che per i miei genitori questa cosa veniva considerata un aiuto dal cielo – noi abitavamo nel pieno centro della ‘città’, peraltro vicino alla mia scuola. Neanche mezzo chilometro che mi si parava davanti quell’osceno edificio tanto odiato. E ci andavo a piedi, pure se avesse grandinato. Quale gioia.
Dopo un vicolo angusto, arrivai di fronte alla scuola. Usavo la strada secondaria, dato che non la conosceva nessuno, e che secondo mia madre era utile per non incontrare malintenzionati. Paranoica, ecco cos’era.
L’edificio era abbastanza grande, ma non reggeva il confronto con altre scuole americane.
 
Entrai di corsa dal cancello provvidenzialmente socchiuso, e aprii con infinita calma la porta d’ingresso. Notai con un vago malessere che i corridoi erano deserti, e che probabilmente erano tutti nelle aule. Mi conveniva cadere una o due volte, anche solo per non prendermi una fottuta ramanzina paterna dal professor Kean, docente di inglese, uomo odioso colpito da calvizie precoci, dedito solo alla rovina delle vite dei propri studenti.
Raggiunsi l’aula con una smorfia, e aprii la porta con fare teatrale. Sapevo che Hector Kean stava aspettando solo me.
Ma stranamente non c’era, e quindi mi sedetti al mio banco, non facendo caso agli sguardi dei presenti che mi perforavano la schiena. Un avvenimento raro.
Appena seduta, mi girai a destra e a sinistra. C’era un innaturale silenzio, nessuno stava parlando, pure se nell’aula non c’era nessuno a imporlo. Solitamente nell’aula di inglese c’era un putiferio inimmaginabile. Ma la cosa che mi colpì fu il fatto che tutti mi fissavano. Alcuni ridacchiavano sommessamente, altri guardavano dietro di me, altri ancora avevano un’espressione sorpresa.
«Hm-mh».
Mi girai anch’io di spalle.
Il professor Kean aveva un’espressione falsamente amabile, mentre stava lì impalato al centro della classe con un ragazzo affianco che non avevo mai visto.
Il mio fare di tagliare la realtà fuori mi aveva fatto da pannello oscuro, cosicché non avevo neanche notato la figura di quei due alzati? Ero davvero così fuori dal mondo?
«Ritardo, signorina Hamilton?», chiese Mr. Kean, con un labbro arricciato.
Cercai di non rispondergli, altrimenti potevo rischiare un invito a fare una visita al preside. E non volevo rovinare il mio curriculum per una sola frase detta in un momento di stizza.
«Mi scusi», mormorai a mezza voce, mentre lui segnava sul registro del mio ritardo.
Una volta compiuto l’atto che secondo lui lo rendeva un uomo migliore, fece sedere il tipo che poco fa era di fianco a lui al banco vicino al mio.
La prima fila era il mio regno: non avevo amici, quindi nessuno ci teneva a albergare dove i professori ti sgamavano molto facilmente anche solo per un bigliettino.
«Come dicevo prima della tua interruzione, signorina Hamilton», iniziò Mr. Kean con una grande dose di veleno, «il signore qui presente, Bentley Lloyd, è appena arrivato nella nostra scuola. Spero che tutti voi lo trattiate come merita. E pregherei la signorina Hamilton di non mischiargli la mania di essere continuamente in ritardo. E adesso possiamo iniziare la lezione». Alcuni ridacchiarono, ma io avevo solo il forte impulso di sputargli in un occhio, ma lasciai di nuovo perdere. Sorpassare gli istinti omicidi era diventato il mio scopo di una vita intera.
 
Mentre prendevo il libro della grammatica, con la coda dell’occhio vidi che il ragazzo nuovo, Bentley, invece di rivolgere lo sguardo verso i molteplici ragazzi che lo stavano fissando e richiamavano la sua attenzione, osservava attentamente me, con un espressione quasi assorta. In un primo momento lo ritenni uno stupido pensiero, quasi un film mentale involontario.
Ma con una fugace occhiata mi resi conto che non ero del tutto ammattita. Cercai di riportare immediatamente lo sguardo sullo zaino, subito dopo che avevo incontrato il suo. In un solo secondo i miei occhi furono costretti a recepire più dettagli nello stesso momento.
Il ragazzo nuovo era carino: la mascella squadrata, gli occhi azzurri, il colorito pallido e i capelli color sabbia, con le labbra appena un po’ pronunciate, rosse. Strano, sembrava che da un certo punto di vista ci assomigliavamo. Il colorito pallido – seppure non quanto il mio – e le labbra rosse, almeno. Ma ovviamente io non reggevo il confronto, come a dire che la nostra scuola era carina come quella di Washington. Un’assurdità.
Il resto della giornata trascorse logorroica e tranquilla, come le altre. Ma continuavo a pensare a quel Bentley, l’unica persona che forse, nell’arco di sedici anni, non avevo odiato dal primo sguardo. E questo era il massimo, per me.
  
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