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Autore: Chaike    14/11/2012    3 recensioni
« Bene, è stato un piacere conoscervi. » disse il maestro Norton prendendo in mano la sua borsa « Ricordatevi di fare i compiti, perché è una regola importante svolgere sempre gli esercizi che si danno per casa. Fate i bravi con il signor Way, è un ottimo insegnante di matematica, anche se … Che rimanga tra noi … » sussurrò alla classe « È una persona noiosissima! » fece ridere i piccoli che però non erano entusiasti di dover aspettare il giorno seguente per assistere ad una nuova lezione di quel giovane uomo.
I piccoli Mike e Chester quel giorno non sapevano ancora che figura importante sarebbe poi diventata per loro quella persona, così importante e che avrebbe lasciato il segno dentro ai loro innocenti e piccoli animi. Le parole che avrebbe detto nel corso di quei anni sarebbero diventate fondamentali per entrambi, per crescere e soprattutto per capire.
Genere: Generale, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Chester Bennington, Mike Shinoda
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Note: Salve-salvino lettore-lettorino, che bella serata-seratina non è vero? Perfetta per inseguirmi con la forca e le torce infuocate D: Lo so che non aggiorno da molto, ma mi sono presa troppo bene con la OS rossa che ho cominciato a scrivere... Quindi, mi farò perdonare con quella :3
Allur!  Ultimamente sto scrivendo capitoli corti, lo so :c E va beh dai, spero almeno che vi piacciano, anche se sembplici e un po' banali...
Enjoy :3


Capitolo 4 – So I’m breaking the habit

 
Martedì venti Settembre, quel giorno arrivò come un fulmine senza che realmente qualche bambino se ne accorgesse. Il tempo per loro passava veramente velocemente, perché la scuola era ancora un gioco, dove imparavano ridendo, passavano intervalli a giocare, ed infine facendo sempre di più amicizia l’uno con l’altro.
I bambini della classe C cominciarono a conoscersi sempre di più l’un l’altro, imparando piano piano tutti i nomi e tutti i cognomi, facendo nascere così delle nuove amicizie.
L’amicizia tra Chester e Michael divenne solenne, i due erano i componenti di una formula chimica per la felicità del primo, che senza il secondo era niente.
Ogni mattina andavano a scuola assieme, non c’era giorno in cui non passavano tra le vie l’uno in compagnia dell’altro, ovviamente scortati dalla madre del bambino dalle origini giapponesi e dal fratello di quello proveniente da Phoenix.
Ma se capitava il giorno in cui uno dei due si assentava per qualche motivo o perché entrava all’ora successiva, l’altro faceva la stessa cosa: o se ne ritornava in casa fingendo un malore (cosa che faceva solo Michael, dato che l’altro bastava che puntasse i piedi e nessuno avrebbe avuto la forza e la voglia di fargli cambiare idea), o entrava in seconda ora assieme all’altro.
In più, un giorno durante una lezione di matematica, presi dalla noia che il loro maestro sapeva creare, cominciarono a parlare di nomi e soprannomi. Non seppero nemmeno loro perché, ma da quel giorno cominciarono a chiamarsi Chaz e Spike. Il primo perché era semplicemente l’abbreviazione del nome originale; il secondo invece per richiamare alla memoria un cane, dato che il piccolo Michael andava matto per quella bestiola, il che lo portava a volte a fare lo stupido e a fingere di essere proprio un cane, tenendo la lingua di fuori o a volte guaendo.
Passavano gli intervalli assieme a giocare a forza quattro, a volte a monopoli, a volte al gioco dell’oca. Se uno andavano in bagno, ci andava anche l’altro; se non ce la facevano più a stare attenti giocavano assieme con gli evidenziatori, improvvisandoli come personaggi delle loro comiche; se Michael prendeva gli appunti, Chester faceva lo stesso – o per lo meno ci provava –.
C’erano giorni in cui formavano un gruppo assieme ad Anna e Ashley, trascorrendo gli intervalli assieme, giocando, parlando e conoscendosi sempre di più, fino a potersi definire ‘amici’.
Fu un brivido di gioia quando Chester realizzò che ciò che intercorreva tra lui e Michael non era semplice simpatia o banale armonia. Era qualcosa di più, perché provava quella sensazione di fiducia che mai aveva provato con altri suoi coetanei.
Sapeva che poteva contare su di lui, che si poteva fidare e credere. Aveva notato che era diverso dagli altri bambini, subdoli e stronzi con lui, ma bensì fiducioso e buono. Era uno tra i pochi che lo facevano sentire bene, apprezzato, non rifiutato ed evitato com’era invece sempre stato trattato.
Era così strano per il bambino dai capelli boccolosi avere non un semplice compagno di giochi, ma un vero e proprio amico. Forse era così perché non ne aveva uno da tanto tempo che non si ricordava nemmeno più come ci si sentisse quando si ha qualcuno su cui contare.
L’ultimo era stato Beer, quasi tre anni prima. E adesso aveva Michael, assieme ad Ashley e ad Anna, con le quali formavano un gruppo in sintonia ogni giorno.
Passavano le giornate assieme durante l’intervallo, nell’ora di pranzo si sedevano affianco; le due bambine avevano fatto cambio coi posti con gli altri compagni che sedevano dietro a Michael e a Chester, ponendosi dietro di loro per poter parlare tramite bigliettini anche durante la lezione.
A volte, quando Brian aveva voglia di accompagnare il fratello, si ritrovavano tutti e quattro assieme al Lincoln Park, vicino al centro di Los Angeles. Al fine settimana, quando i maestri davano quel poco di compiti che dovevano svolgere, si vedevano a casa di uno dei tre (dato che Chester evitava continuamente di portarli a casa sua e mostrargli lo schifo in cui abitava) e studiavano assieme. Ma alla fine, i loro ‘studi’ finivano col giocare a nascondino.
Ovviamente era più legato a Michael che a le altre due bambine, ma definiva anche loro come ‘amiche’. Chester si sentiva felice come non mai, finalmente dopo sette anni di odio e tristezza aveva qualcuno con cui giocare, con cui condividere le cose e sorridere.
Per le prime settimane della loro amicizia, i due bambini passavano le giornate assieme a casa del più piccolo, giocando tutto il pomeriggio e a volte facendo qualche compito. Chester si beava di quella visione della famiglia perfetta che era quella Shinoda, vedendo la madre sempre presente e pronta a soddisfare i figli e l’ospite per ogni bisogno, il padre sempre così buono con tutti, soprattutto con la madre, con la quale non litigava mai o per lo meno non lo faceva di fronte al bambino invitato.
Ma quei bei pomeriggi finirono quando Chester venne costretto dal padre a fare parte dei boyscout della scuola e la madre di Michael pagò un istruttore di pianoforte affinché insegnasse al primogenito come suonare per bene lo strumento a tasti.
I piccoli non ci misero poco a rattristirsi l’uno per la mancanza dell’altro. Così, il bambino destinato a passare le giornate ad imparare come si facesse un nodo alla corda, a volte non si presentava ai raduni, andandosene invece a casa di Michael, che faceva solamente un’ora di lezione di piano al giorno.
Non se ne preoccupò affatto del problema che sarebbe sorto se i suoi genitori sarebbero venuti a sapere delle su bigiate. Tanto il maestro Norton, capo dei boyscout, non aveva il compito di avvertire l’assenza del bambino, in quanto quest’ultimo in teoria veniva accompagnato alle lezioni dai propri genitori.
Ovviamente nessuno dei due si scomodava tanto per portarlo e assicurarsi che nessuno l’avesse rapito o messo sotto con la macchina nel percorso tra casa e scuola.
La settimana prima del venti Settembre, ogni alunno della sezione C aveva portato a scuola dieci dollari da consegnare al maestro Norton, il quale doveva consegnare poi i soldi al museo che ospitava la mostra su Picasso, in modo che prenotasse per loro i biglietti d’entrata con guida.
I diciotto bambini non stavano più nella pelle di fare la loro prima uscita didattica, anche se andare al museo non era proprio quello che speravano. Ma dopotutto si accontentarono anche di attraversare mezza città accompagnati dai loro insegnanti.
Michael invece era entusiasta proprio per l’esposizione artistica, cosa che lui adorava.
Questa sua grande passione per l’arte nacque quando ancora era un pargolo che camminava a malapena su due gambe, se non direttamente su quattro, e i dentini che stavano crescendo dalle sue gengive rosee mordicchiavano il ciuccio.
Fu solo grazie a suo nonno, il quale a sua volta dipingeva, che s’innamorò delle tempere e di quei mille colori con i quali si divertiva a imbrattare i propri vestiti e le varie tele ancora immacolate che il nonno lasciava in giro per la stanza in cui si rifugiava e dipingeva.
Il vecchio lo lasciava naturalmente fare, sorridendo intenerito di fronte alla fantasia artistica del piccolo che colorava con le dita strisce d’arcobaleno verticali e orizzontali, cerchi imperfetti e figure insensate.
Al piccolo Michael piaceva vedere le creazioni sottoforma di figurazione, perché non c’era modo migliore di esprimere una propria fantasia con una rappresentazione grafica a vari colori e diversi stili. Le parole erano insufficienti per lui, i gesti non valevano niente. Solo un disegno, anche se stilizzato, avrebbe reso meglio l’idea di ciò che pensava e sognava.
Ma alla fine diventava un tutt’uno con la tela, imbrattando di tempere quest’ultima ed i suoi vestiti, che appena sua madre vedeva le provocavano un urlo di orrore e di disperazione per gli ennesimi soldi buttati.
La giornata nuvolosa fu condita da qualche schizzo di pioggia che obbligava ai maestri e agli alunni di indossare i propri kway o ad aprire i propri ombrelli. Quando iniziava a cadere un po’ d’acqua i bambini si tiravano su il cappuccio del loro impermeabile, prendendo le sembianze dei fantasmi colorati di Pac Man.
Erano già le dieci e mezza, quando i diciotto bambini, tutti in fila mano nella mano per sicurezza – ovviamente Chester stringeva quella di Michael – e a gli estremi il maestro Norton ed il maestro Way, arrivarono di fronte al grande museo dell’arte che aspettava di essere esplorato e contemplato da cima a fondo.
Entrarono e lasciarono i propri soprabiti e zaini in uno spazio apposito agli studenti e ai loro docenti.
« Benvenuti. » apparve d’improvviso da dietro una porta con la scritta segnaletica ‘PRIVATO’ una donna sui trent’anni che sorrideva mostrando le sue mille rughe, con capelli biondi raccolti in una semplice coda alta.
Sul suo golfino di lana nero c’era attaccata una tessera con una sua foto ed il suo nome stampato in nero su bianco, con sotto annotato ‘GUIDA’.
« Io sono Stefani, la vostra guida alla mostra di Picasso. » disse tendendo la mano al maestro Way per stringere la sua in attesa di presentazioni.
« Io sono il maestro Thomas Way. » disse pacato con un lieve sorriso sulle labbra mentre stringeva saldamente la mano della signora che sembrava più vecchia di quanti anni avesse.
« Io invece sono David Norton. » disse il giovane maestro, troppo impegnato ad aiutare un bambino a slacciarsi il giubbotto con la cerniera bloccata per poter stringere la mano alla donna.
Dopo che tutti i bambini posarono le loro cose ed il maestro Norton riuscì a liberare il piccolo dalla giacca che era diventata la sua gabbia, finalmente potettero cominciare il tour delle opere d’arte del pittore di fama internazionale.
Per tutto il tempo, la guida parlò della vita di Picasso, delle sue prime esperienze con l’arte già in giovane età ed infine il suo esordio. Del suo modo particolare di dipingere, di ciò che raffigurava ed il perché fosse così.
Alla maggior parte dei bambini poco interessava tutto ciò, loro erano lì solo per uscire da scuola e saltare qualche materia, piacevole o noiosa che fosse l’importante era non farla. Se in quel momento si guardava dentro le loro testoline, si trovava tutt’altro che Picasso!
Ogni volta che passavano da quadro a quadro, i bambini facevano a gara per chi arrivasse per primo e chi riuscisse a guadagnarsi una delle quattro sedie in mezzo alla sala, stanchi per la camminata dalla scuola all’edificio d’esposizione.
Si stavano annoiando a morte, ed il maestro Norton se ne accorse quando erano riuniti tutti di fronte ad un’opera che rappresentava ‘il gioco’. Il bambino dai capelli rossi si sporse di troppo vicino al quadro, provocando così uno squillo assordante che lo avvertì della presenza di rilevatori della distanza di sicurezza, facendo girare tutti gli sguardi delle persone presenti nell’enorme stanza che subito lo guardarono male.
Il piccolo, divertito per l’effetto provocato da quel fastidioso allarme, cominciò a muovere la mano tra i due rilevatori, provocando un continuo fischio che fece innervosire persino i suoi compagni di classe, che però non riuscirono a fermarlo nemmeno con un cattivo sguardo. Così il giovane maestro dovette ammonirlo e tenerselo stretto prima che il bambino ritornasse a creare qualche altro tipo di noia.
Anche Chester si stava annoiando a morte. Lui voleva tornare a casa, mangiare, fare finta di andare dai boyscout e poi suonare il campanello della famiglia Shinoda, per passare l’ennesimo pomeriggio straordinario da quando l’aveva conosciuto a quella parte.
Voleva tanto mettere in atto qualsiasi scenata che gli avrebbe garantito il deviamento di quella lagna pazzesca. Ma nonostante avesse voglia di spararsi per non soffrire così in agonia, preferì stare affianco al suo amico, il quale sembrava molto preso e attento a tutto ciò che usciva dalla bocca della guida, qualsiasi informazione su Picasso, sul il suo quadro e sulla sua vita.
Gli dispiaceva da morire, e sapeva che se lui fosse uscito da quella stanza perché ‘stava male’ Michael lo avrebbe seguito a ruota anche se amaramente perché a lui tutta quella noia interessava. Sarebbe benissimo potuto rimanere al fianco di Anna e Ashley proprio per non annoiarsi se Chester fosse uscito o fosse andato altrove pur di non morire di noia, ma restava il fatto che l’altro fosse più importante delle altre due.
Non c’era molto da scegliere: o lui o niente.
Così il bambino dai capelli boccolosi rimase a soffrire in silenzio accanto al suo amico per cortesia e per farlo felice, cosa che però lo appagò dato che nonostante soffrisse si sentì bene. Dentro di sé voleva sorridere compiaciuto, perché quello che stava facendo rendeva felice Michael e a lui piaceva sapere che quest’ultimo lo fosse.
Non sono normale, per niente! pensò Chester mentre passavano da un quadro all’altro.
In effetti aveva ragione, stava facendo una cosa che non gli era abituale, qualcosa che prima, a Phoenix, non gli sarebbe mai passato in mente di fare.  Voler vedere felice gli altri, coloro che non poteva nemmeno considerare amici ma bensì nemici? Nemmeno per sogno!
Non si meritavano nemmeno un quarto della sua bontà che adesso lui stava totalmente donando a Michael, nonostante stesse rischiando. Non lo conosceva al cento per cento, poteva benissimo essere pugnalato alle spalle quando meno se lo aspettava. Dopotutto era un bambino, come gli altri.
Era soltanto un bambino, l’unico, che lo faceva star bene, che era riuscito a tirar fuori la parte buona di lui, sotterrata col tempo dalla cattiveria e dall’avarizia imposta dai suoi coetanei.
Rischiare per qualcuno che era come loro, ma infondo totalmente diverso, non fuori ma dentro. Ecco cosa stava facendo Chester, e se ne accorse solo in quel momento. Ma ne fu felice.
Ritornarono nella stanza con gli armadietti verso le dodici, per dare ai bambini una decina di minuti di pausa per poter fare la merenda delle dieci che avevano saltato. Ovviamente Chester non ce l’aveva sempre per il fatto del dover risparmiare, così Michael, come aveva sempre fatto dal primo giorno, gliene diede un po’ dividendo la merenda di pan di spagna e pseudo-marmellata di ciliegie.
Il piccolo Chester inizialmente si sentiva imbarazzato a dover sempre dipendere dal suo compagno, perché non era mai riuscito a sdebitarsi con lui e la sua carità che gli faceva dandogli qualcosa da mangiare.
Ma l’altro sapeva che stava già contraccambiando standogli vicino ogni giorno, sopportando ogni sua mania e voglia, standogli sempre affianco anche a fare cose che ovviamente a Chester non interessava ma che faceva lo stesso per farlo felice – come quell’uscita didattica –.
Nonostante Michael fosse un bambino tranquillo, buono e socievole, a differenza di Chester, non aveva ancora avuto qualcuno da definire ‘migliore amico’. Chester l’ebbe, anche se era un cane; ma Michael non ebbe nemmeno un animale da definire compagno di giochi vita e segreti.
Aveva un cane pure lui, Lucky, ma non reputava normale chiamare migliore amico un quadrupede.
Di amici ne aveva avuti all’asilo, ma alla fine erano solamente amicizie destinate a concludersi all’inizio delle elementari. Nessuno dei suoi vecchi compagni era abbastanza speciale per essere messo al disopra degli altri.
Finito di mangiare, andarono tutti quanti in una stanza laboratorio interattivo per i bambini che venivano lì con la scuola, dove c’erano alcuni tavoli con sedie, dove i bambini ci si precipitarono a sedersi stanchi dopo tutto quel tempo passato a stare in piedi.
Ovviamente Chester, Michael, Ashley e Anna si sedettero tutti e quattro vicini: Chester con affianco Michael; quest’ultimo con davanti Anna che sedeva affianco ad Ashley.
« Vi è piaciuta la mostra? » chiese Stefani con il suo solito finto entusiasmo.
« Sììì … » i bambini risposero in coro, mostrando veramente il loro bassissimo entusiasmo, ovviamente tutti tranne Michael.
« E ditemi, qual è il disegno che vi è piaciuto di più? » chiese mentre tirava fuori contenitori di plastica di caramelle che però erano riempiti di pennarelli e matite colorate.
I bambini cominciarono ad elencare alla rinfusa descrizioni di ciò che gli era piaciuto alzando troppo la voce con i maestri che gli facevano segno di calmarsi, mentre Stefany prese una risma di carta già aperta e distribuì un foglio a ciascuno.
« Adesso, se riuscite a ricordarvi il vostro disegno preferito, disegnatelo e coloratelo. Se non ve lo ricordate ditemelo, che vi faccio vedere l’immagine, va bene? » chiese posando le scatolette semi-trasparenti con dentro i pennarelli ogni sei bambini, mentre quest’ultimi intonarono un altro ‘sììì’ in simbiosi.
Chester, che non era stato per niente attento a ciò che gli venne mostrato durante il giro, dovette copiare passo per passo riga per riga quello che stava disegnando Michael sul suo foglio, ovvero l’acrobata, un uomo tutto bianco il cui corpo si perdeva in varie forme impossibili da compiere realmente.
A disegno finito, quello del mezzo giapponese sembrò una copia perfetta ma un po’ imprecisa ed infantile dell’opera originale. Al bambino dell’Arizona venne un condannato ad una strana pena dell’inferno che consisteva nel deformargli il corpo.
Infatti, a Chester scappò un mugolio disperato quando vide la perfezione dell’amico.
Era l’una quando uscirono dall’edificio d’esposizione, ed arrivarono a scuola quando già erano le due e le altre classi erano già in cortile a finire la ricreazione di un’ora.
I diciotto bambini pranzarono nella sala mensa da soli, senza nessun’altra classe attorno e si meravigliarono del silenzio che si poteva creare in quell’immensa stanza, dove si poteva persino sentire il rumore che facevano le bidelle nella cucina e le loro voci.
Mandarono giù quella brodaglia verdastra del giorno che sarebbe dovuta essere minestra ma che aveva la consistenza del catrame. Il piccolo pane a disposizione di ciascun bambino era duro e pastoso, difficile da mandare giù. Infine il kiwi, che era il loro dessert, o era acerbo o addirittura bacato con chiazze nere.
Uscirono dalla sala mensa per precipitarsi nel grande cortile che per quel giorno sarebbe stato solamente loro, un sogno. Giocarono tutti e diciotto assieme a ‘ce l’hai’, rincorrendosi per poco più di un’ora da una parte all’altra dell’immenso cortile senza un filo d’erba e vegetazione, tranne per i quattro alberi posti ai lati.
Chester non si ricordò nemmeno quando fu l’ultima volta che giocò spensierato assieme a così tanti bambini, ridendo di gusto e senza dover passare il resto della giornata di cattivo umore ed isolato dalla felicità. Era una cosa al di fuori di ciò che era abituato a fare.
Ritornarono in classe verso le tre e mezza passate, ricevendo una decina di minuti d’intervallo in più tanto per abbellire quella magnifica giornata, che diventò ancora più bella quando invece di riprendere a fare lezione cominciarono a fare un cartellone con sopra i loro disegni fatti al museo.
Quel pomeriggio, come tutti gli altri dal lunedì al venerdì, Chester doveva recarsi al raduno dei boyscout della scuola poco dopo quando sarebbe dovuto arrivare a casa. Ma quel giorno non ci pensava nemmeno a rovinarlo con una noiosissima escursione al parco vicino scuola o a legarsi l’un l’altro come dei salami. E Michael doveva fare la sua ora giornaliera di pianoforte, cosa che a lui non dispiaceva affatto.
Appena mise piede in casa, il bambino affiancato dal fratello che andava nella stessa scuola, posò la grande e macabra cartella di scuola facendo poi retrofront per uscire di nuovo.
« Bra, io vado al corso dei boyscout … » mormorò rauco il piccolo riaprendo la porta appena chiusa e fingendo neutralità nel nascondere il ghigno sulle sue sottili labbra.
« Vuoi che ti accompagni? » chiese premuroso il fratello, una tra le pochissime volte in cui osava essere affettuoso con il suo fratellino, il quale non accettava alcun tipo di tenerezza, non da lui e dai suoi familiari, gli unici che invece dovevano dargliene.
Il piccolo s’irrigidì come una scopa in un decimo di secondo, sentendosi morire per un attimo al solo pensiero di doversi subire realmente quella lagna di raduno che reputava inutile.
« N-No, grazie. » disse pacato, uscendo di fretta di casa e chiudendosi dietro le spalle la porta che sbatté delicatamente e con un semplice rumore della serratura.
Camminò nel silenzio del suo quartiere malfamato, le manine nelle tasche della sua piccola felpa blu, lo sguardo basso che seguiva il cemento grigio del marciapiede sporco di aloni e di cicche.
Non aveva paura che qualcuno lo rapisse o gli facesse qualcosa, perché doveva capitare proprio a lui? C’erano così tante persone nel mondo, perché la sfortuna doveva puntare il dito contro di lui per l’ennesima volta?
Era un pensiero fisso nella sua testolina: questa è la mia vita, a me non capitano queste cose, succedono a gli altri ma non a me.
Come se fosse inconcepibile l’avvenimento di una disgrazia nei suoi confronti, un rapimento, uno stupro, un incidente. A lui queste cose non sarebbero successe, perché secondo lui la sua vita era immune da ciò.
Suo padre la stessa cosa: era un poliziotto, sventure del genere non potevano capitare al figlio di un poliziotto. E così lo lasciava andare a zonzo tra le vie pericolose ed inquietanti del suo quartiere con nonchalance, non preoccupandosi dei vari pericoli che nemmeno celava.
Schiacciò con la scarpa ereditata dal fratello una siringa usata ed abbandonata da un drogato.
In questo momento sarà già seduto sullo sgabello davanti al pianoforte pensò il bambino guardandosi intorno, sperando che non ci fosse alcun malintenzionato nei paraggi che lo seguisse.
Sospirò insofferente e con un leggero sollievo nel notare che era da solo in quella grande e marcia via. Se invece si fosse accorto della presenza di qualsiasi individuo ai suoi occhi inaffidabile, si sarebbe sicuramente messo a camminare più velocemente, fino a raggiungere la velocità di una corsa a perdifiato.
Avrà a malapena iniziato, adesso. Ho ancora un’ora prima che lui mi raggiunga.
Imboccò la via del suo amico, intravedendo la steccata che separava il marciapiede giornalmente pulito al suo splendido giardino con l’erba verde e fiorente.
Sapeva che sarebbe stato scortese andare a casa sua nel mezzo della sua lezione, poi Michael si sarebbe distratto troppo e non sarebbe stato più abbastanza concentrato da continuare. Così qualche giorno prima, il bambino dagli occhi a mandorla gli mostrò una sorpresa che gli aveva regalato il padre quando aveva compiuto sei anni: una casa sull’albero.
Non che la madre fosse molto d’accordo di lasciare salire un bambino a sei quasi sette metri d’altezza, ma sapevano che sarebbe stato felicissimo nel possederne una. E poi non ci saliva molto spesso, per lo meno prima dagli ultimi giorni. Ci andava solo quando c’era qualche suo amico, ed in quel periodo, data la presenza di Chester, ci saliva frequentemente.
Il bambino ridusse immediatamente quei cinquanta metri che lo separavano dalla casa Shinoda con una piccola corsa, entrando dal cancello in legno bianco e fiondandosi subito nel giardino dietro casa, dove vivevano tre querce alte e robuste. Salì le scale posate sul tronco della quercia più a destra, ritrovandosi all’interno della casetta di legno ben salda.
Adorava quel piccolo rifugio, perché era stato allestito come una stanza di un bambino, come se Michael vivesse lì e non in casa.
Aveva alcuni poster dei svariati gruppi pop sulle pareti legnose e laccate da cera protettiva da termiti e tarli, comodini e scaffali pieni di alcuni giochi da tavolo, un largo e semplice letto posato per terra con lenzuola e cuscino senza rete che lo sollevasse dal pavimento. Infine un’infinità di pupazzi, ovvero il passatempo preferito di Chester.
Più che passatempo, erano ciò che lo tiravano su di morale, oltre allo stare con Michael. Erano più grandi di lui, scimmie giganti e morbide con un sorriso cucito con una linea curva, leoni che sembrava potessi cavalcarli, cani sempre con la lingua di fuori che sembrassero chiedere disperatamente acqua.
Lui li abbracciava sempre, s’inabissava nella loro sofficità di cotone, lasciava che le braccia delle scimmie due volte più grandi di lui gli circondassero il corpo nel ricadere in avanti.
Non gli interessava che fossero inanimati, che non potessero provare qualcosa, qualche emozione o sentimento. A lui interessava solo che qualcuno lo abbracciasse, anche solo quando le loro braccia a malapena si posavano sulle sue piccole spalle gli andava bene.
Si sentiva così bene quando gli capitava. Si chiedeva poi perché la gente non si abbracciasse così spesso, era qualcosa di bello e piacevole, perché non farlo? Pensava che se qualcuno lo abbracciasse più spesso, anche senza un valido motivo ma solamente inaspettatamente, si sarebbe sicuramente sentito meglio.
A volte Michael lo faceva, lo abbracciava ridendo e stringendolo forte a sé, con il tentativo di fargli un po’ male per scherzare, ma alla fine faceva sentire a Chester una stretta piena d’affetto perché era troppo debole. Erano quelli i momenti in cui lui si sentiva veramente bene e ringraziava Dio di essere stato così fortunato da conoscerlo e di averci fatto amicizia.
Si tolse le scarpe e la felpa, rimanendo così con la sua maglietta blu a maniche corte, per poi buttarsi sul materasso un po’ rigido ma su cui era piacevole starci. Afferrò il grande cuscino, con la fodera bianca che profumava di ammorbidente alle rose, e se lo mise sotto la testolina, riposando un po’ nel frattempo in cui aspettava l’amico.
Ovviamente gli riuscì difficile fare un pisolino a quell’ora, era sì un bambino ma il tempo del riposino pomeridiano era finito da quando era entrato alle elementari. Erano cose che si facevano solo quando si andava all’asilo o quando si sarebbe diventati vecchi, per lui.
Pensò a cosa avrebbero potuto fare quel pomeriggio: se rimanere lì nella casetta e fare i pirati immaginando di essere sul loro grande galeone, gli indiani che lanciavano frecce di legno al piccolo Jason appena metteva piede fuori nel giardino, cercare di cavalcare Lucky o lanciargli semplicemente la palla, andare a caccia di rane, andare al Lincoln Park a giocare con Anna e Ashley, arrampicarsi su gli alberi …
Ad un certo punto, mentre il piccolo stava pensando a cosa fare, gli passò solo per l’anticamera del cervello un pensiero che mai e poi mai credeva di realizzare, bloccando il suo flusso d’idee e rimanendo paralizzato a fissare il soffitto in legno.
Solo mezzo mese fa, non potevo nemmeno immaginare di essere qui, ad aspettare un mio amico. Un mio amico. Ho un amico, qualcuno con cui giocare, con cui confidarsi.
Qualcuno che mi resterà affianco, che mi sosterrà, che non mi prenderà in giro. E nonostante qualche volta litigheremo un po’, ritorneremo a fare pace e a giocare assieme, come se niente fosse accaduto.
Eppure, era solo poco tempo fa quando mi chiedevo come ci si sentisse ad avere un amico, quando desideravo averne uno. Adesso, sto facendo qualcosa al di fuori della mia abitudine e alla mia giornaliera solitudine.
   
 
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