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Autore: Love_in_London_night    14/11/2012    6 recensioni
Una promessa difficile da mantenere, quella del titolo. Difatti è una promessa infranta.
Una scelta da cui ne conseguono tante altre, molte obbligate.
Quindi c’è Pemberley, che non si è fermata un attimo negli ultimi dieci anni e non sa quale direzione ha preso la sua vita.
C’è Nathan che è il suo passato, il suo primo grande amore. Il custode di quel cuore che poi la proprietaria si è ripresa con la forza.
C’è Rhys, che non è perfetto e lei mai si sarebbe vista con un tipo simile, ma qualcosa tra loro sta succedendo.
E c’è Naive, l’ago di una bilancia troppo delicata, come l’equilibrio che tutti questi personaggi faticano a trovare.
Rhys è l’occasione di Pem per voltare pagina dopo anni, ma cosa succede se il passato, con le fattezze di Nathan, ritorna, anche se non proprio per lei? E se ci fossero nuove responsabilità per qualcuno a complicare il tutto?
Una storia, un grande inganno su come la scelta sbagliata possa essere quella giusta.
Dalla storia:
“«Mi piace il buio» sentenziò Pemberley dopo poco.
«E perché?» lui la trovò strana come affermazione.
«Perché può essere sempre illuminato».”
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Video Trailer di Ti ruberò il cuore


Capitolo 2
 
City of blinding lights

 
Le luci che rischiaravano la città a giorno nonostante fosse dicembre, la camera lussuosa dell’hotel e quelli che poteva considerare suoi amici: non poteva chiedere di meglio, eppure non gli sembrava abbastanza.
Lione era sì una bella città, ma non reggeva il confronto con ciò a cui era abituato. Perché avevano insistito per andare proprio lì i ragazzi, quando c’erano capitali molto più interessanti e degne di questo nome? Perché partecipare alla festa delle luci, quando vivevano a New York, la città delle luci sempiterne?
Doveva ammettere che aveva il suo fascino, certo, era innegabile; ma una città non molto grande non offriva grandi divertimenti, secondo lui.
Era del parere che l’Europa avesse un certa quanto antica attrazione, ma a lui sembrava solo vecchia e nostalgica. Era più il tipo d’uomo che prediligeva l’architettura moderna, i palazzi tutto vetro e cemento; posti asettici ma funzionali, come lui.
Ecco perché amava tanto New York e Manhattan, il suo centro nevralgico. Era un uomo d’affari Rhys Hewitt, e lo era dentro e fuori. Nonostante avesse solo ventotto anni, adorava quantificare tutto ciò che lo circondava, cercare il profitto in ogni cosa. Se non portava ad avere tanti zeri dalla propria parte, questo qualcosa non valeva la pena di essere calcolato. Di sicuro non valeva il suo tempo.
Così era seduto su quel divano sontuoso in pelle, con la camicia e il maglione ben accomodati e stirati, mentre davanti a lui, sul tavolino di un materiale freddo e specchiato spiccavano due strisce malfatte di cocaina e dei flute di ottimo champagne; almeno la gita in Francia aveva portato i suoi frutti.
Prese il bicchiere e si versò il Dom Pérignon con assoluta eleganza, saltando le strisce di droga. Ecco sotto i suoi occhi il modo peggiore di sprecare i soldi. Il buon vino era un lusso in cui investire, la cocaina non faceva certo per lui; aveva bisogno di tutto il suo raziocinio sul lavoro come nella vita, non poteva lasciare che una sostanza ormai del tutto chimica portasse via la sua ragione e i suoi soldi.
Lasciò così che fossero gli amici a usufruirne come meglio credevano, come sempre.
In poco tempo Stephen riprese il proprio posto davanti alla droga, raggiunto subito dopo da Addison e Colton che, avidi, si litigarono la bottiglia di champagne per cercare di accaparrarsene di più. Colton conosceva troppo bene Addison per permettersi di fare il cavaliere con lei, nonostante avesse fatto sue le buone maniere.
Ma d’altronde chi si comportava in modo decente con Addie? Era bella, ricca e stronza, voleva raggiungere vertici alti a ogni costo e per questo si concedeva a tutti, anche ai perdenti. La filosofia adattata dalla ragazza le permetteva di frequentare la gente più facoltosa di New York di cui faceva parte di diritto, ma non la portava a realizzare i propri obiettivi. Se tutti potevano avere senza difficoltà ciò che lei offriva, perché sposarsela?
Il fatto che fosse in viaggio con tre uomini e che si facesse sbattere a sere alterne da tutti e tre ne era la prova, nonostante provasse sempre a far cadere Rhys nella propria trappola, solo perché era il partito migliore tra tutti. Ma questo era troppo intelligente e scaltro per cascarci: Addison Lloyd non valeva tutti gli zeri che il cognome offriva, era solo un buon diversivo con cui sfogarsi. Perché starle insieme quando lei ti concedeva lo stesso il suo corpo? Anche perché altro non poteva offrire, e Rhys le donne vuote le usava solo per due motivi: scopare e come accompagnatrici agli eventi della New York bene, dei trofei da mostrare a tempo determinato, nulla più. E, poco ma sicuro, Addie non era un trofeo degno di essere presentato in pubblico.
Steve fissò gli amici «Ne preparo una terza?»
«Sei fuori? Da quando ho ufficializzato il fidanzamento con Adrianne ho smesso con quella merda, devo rimanere pulito. È una clausola del contratto prematrimoniale, se no in caso di divorzio non becco nulla». Colton finì le bollicine e se ne versò un altro bicchiere, sistemandosi sul divano quasi spossato, nonostante non avessero fatto poi molto nella giornata.
«Rhys, tu?». Stephen sapeva che l’amico non si univa mai a certe usanze, ma non voleva essere sgarbato, così la domanda era diventata di rito.
Amico poi era una parola grossa: per lui Rhys era solo un conoscente. In comune dividevano l’amicizia di Colton, che li portava a frequentarsi, ma se fosse stato per loro si sarebbero limitati ai soliti convenevoli scambiati durante a barbose feste di beneficenza, nulla più. Addison era stata una loro compagna di college che aveva preso l’abitudine di seguirli ovunque. Più che un’amica era una gregaria, ma i più la consideravano una sanguisuga.
«No, grazie. Fate voi» sfoggiò il suo sorriso educato e condito con una punta di freddezza, prese il tablet e lesse le notizie che riguardavano il Nasdaq, voleva sapere come stavano andando i suoi affari; nonostante fosse in vacanza non poteva concedersi del vero e proprio relax, dato che era a capo delle maggiori società del paese, lasciate a lui dal padre. Quel figlio di puttana che era scappato in Russia sedici anni prima per non essere perseguito dalle autorità.
Puff, sparito. Eppure secondo Mitchell lasciare a lui la responsabilità della società era il modo per dire al figlio che gli voleva bene. Ma lui voleva un padre, non un conto fiduciario a nove zeri e nessuno con cui spartirlo. Ecco il motivo per cui aveva chiuso con le persone e aveva teso le braccia verso i dollari, erano molto più facili da gestire, nonostante la gente fosse più manipolabile.
Stephen alzò le spalle prima di arrotolare una banconota da cinquanta euro e avvicinarsi alla striscia per aspirarla con forza. Quando sollevò la faccia si ripulì il naso dalla polvere bianca, allungò il piccolo rotolo ad Addison e si lasciò cadere sul morbido schienale del divano, la faccia al soffitto e gli occhi rivoltati in cerca dell’estasi che di lì a poco sarebbe arrivata.
Lei si fiondò sulla striscia restante, quella più sottile, e infine mimò ogni gesto del suo pusher improvvisato.
Con la testa reclinata, il suo respiro divenne affannoso, facendo alzare il petto sempre più concitatamente. Il rumore si presentò prepotente alle orecchie di Stephen, ormai sotto il completo effetto della cocaina.
La guardò e vide la camicia bianca slacciata fino al seno, di cui riusciva a intravedere la carne. Senza chiedere il permesso, né aspettare un qualsiasi tipo di invito, slacciò il bottone sul petto e infilò la mano nella camicia, spostando il pizzo dell’indumento intimo per palpare il seno e giocare con il capezzolo già turgido.
Addie ridacchiò a occhi chiusi, convincendosi ancor di più di essere una donna irresistibile a cui gli uomini non potevano non cedere, non pensando nemmeno un attimo a quanto in realtà la vedessero invece come una facile occasione per soddisfare il loro bisogno di dimostrarsi uomini e appagare il proprio ego, quindi lo lasciò fare.
Colton li guardò famelico, il suo lato voyeuristico ringraziava per lo squallido spettacolo. Avrebbe fatto di tutto per unirsi a loro, ma non era il momento, la fame veniva prima di tutto e di lì a venti minuti sarebbero dovuti uscire per andare a cena. Quel poco tempo gli sarebbe servito solo per i preliminari.
«Quanto potremmo continuare ad andare avanti in questo modo?» domandò al nulla riflettendo sulla propria vita.
«Fino a quando non ci si sposa, suppongo» rispose Rhys senza alzare lo sguardo dallo schermo touchscreen, aveva visto costa stava succedendo con la coda dell’occhio e aveva scelto di far finta di nulla «Quindi direi che per te il tempo non è poi molto».
«Io però sono felice del matrimonio con Adrianne. È una compagnia piacevole, una donna pacata. Sembra anche fedele e devota» sorrise compiaciuto a quell’idea «Devo dire che i miei mi hanno indirizzato proprio bene».
«Dalla descrizione è una stronza frigida» intervenne Addison con il fiato corto, segnale che stava gradendo le attenzioni di Stephen.
«Non possono essere tutte stronze in calore come te, se no non serviresti a nulla» fu la risposta di Colton, che si divertiva a sminuirla dato che non riusciva a rispondere, visto dove era la mano dell’amico mentre stavano parlando insieme.
«È questo il linguaggio di una delle ragazze perbene di New York? Dove finiremo!» disse amareggiato Rhys. Forse la descrizione di Adrianne non era stata delle migliori, ma lui l’aveva conosciuta e gli aveva fatto una buona impressione, quella ragazza.
Per la prima volta abbandonare quel genere di vita che comunque non gli apparteneva non gli sembrava una cattiva idea.
«Dovresti trovarti una donna anche tu Rhys, sarebbe la volta buona che ti liberi di tutte le stronze in calore e ti trovi una stronza frigida» Colton affondò il colpo, ma Addie era intenta a giocare con la lingua di Steve per preoccuparsene, anche se al suggerimento di trovare una donna a Rhys la fece tornare alla realtà dopo qualche secondo di troppo.
«Mettere la testa a posto. Magari amare o anche solo affezionarsi a qualcuno» rincarò Colton.
Facile per lui a dirsi. Rhys era il classico self-made man. Il padre l’aveva abbandonato a dodici anni, così a ventuno, poco prima di laurearsi all’università di Harvard, aveva avuto il permesso di dirigere la Hewitt corporation. Milioni di migliaia di dollari nelle sue mani, quando il padre si era rifatto una vita in Russia: una compagna più giovane della madre di Rhys, un figlio più piccolo, un lavoro nuovo e sempre remunerativo. Una sorta di buen retiro anticipato.
Due anni dopo, quando Rhys si era fatto carico di troppe responsabilità per un ragazzo giovane come lui, aveva perso la madre, stroncata da una fulminea malattia. Solo, si era ritrovato con poche persone al funerale, gli occhi chiari, velati di pianto che non voleva saperne di abbandonare il suo sguardo, cercavano il padre, che non si era degnato nemmeno di presentarsi o chiamare per fare le condoglianze. Era stata sua moglie, la donna con la quale aveva concepito un figlio, che per anni aveva amato, e in quel momento non aveva meritato nemmeno un suo ricordo.
Rhys si era chiuso in se stesso, votando la propria vita al successo e ai soldi. Aveva imparato che le persone ti lasciavano, i soldi no, finché non decidevi tu di spenderli e abbandonarli. Non erano di compagnia, ma per quello c’erano Colton e i suoi amici, anche se erano solo rumori perlopiù fastidiosi che veri e propri amici con cui passare il tempo.
Ecco perché l’idea di abbandonare tutto quello e affidarsi a una persona lo allettava e lo spaventava al tempo stesso. Non cercava felicità, ma stabilità.
Se doveva soddisfare i propri bisogni abbordava qualche ragazza bella e in cerca di un partito d’alto bordo per tentare di farlo diventare il loro futuro marito, erano le più facili da portare a letto. Se aveva bisogno di compagnia ricorreva a Colton e se voleva felicità – o una semplice parvenza – studiava i suoi estratti conto o giocava a golf sul tetto della Hewitt corp.
«Avanti, stasera esci e trovati una ragazza. Parlale, corteggiala e cerca di non scopartela subito. Io ho fatto così con Adrianne, è stato divertente, finché è durato».
«Oppure rimani qui» Addison, per attirare l’attenzione di Rhys e tentare di avvicinarsi a lui, aveva scacciato la mano di Steve dal proprio seno, cercando di nascondere il fastidio per quel contatto mancato.
Rhys però la fermò «Stai dove sei Addie, da me non otterresti nulla, come sempre. Sono più l’uomo da una ragazza alla volta» riferendosi al fatto che si stava facendo palpare da un altro.
La freddezza con cui la rimbeccò la ferì, ma cercò di non darlo a vedere, non voleva passare per la donna che si offendeva con nulla, non poteva fare la rompipalle di turno, o si sarebbe giocata la compagnia.
Steve, ormai preda dell’eccitamento causato dalla droga, mise la propria mano sulla coscia scoperta di lei, dato che la gonna era corta. Addison, al posto di allontanare le dita, aprì un po’ di più le gambe facendo salire ancora di più la stoffa, permettendogli di salire fino agli slip. Si era dimenticata quanto la cocaina rendesse tutto eccitante, tanto da iniziare a muovere la mano sull’inguine ormai indurito di Stephen coperto dai pantaloni.
Lui si fece più vicino e scostò il pizzo coordinato al reggiseno per raggiungere la sua entrata già umida. Eppure, l’elastico degli slip non gli permetteva di muovere le dita dentro di lei come avrebbe voluto, così strappò il tessuto per avere un rapido accesso, facendola arrabbiare.
«Fanculo Steve. Erano di Laperla» aveva cercato di chiudere le gambe, ma lui ormai aveva le dita intrappolate lì in mezzo, e sentire l’irrigidimento di lei lo spingeva a muovere la mano con più veemenza.
«Sssshhh Addie, stai zitta e lasciami divertire. In fondo sei qui per questo» e si fece spazio tra le gambe con forza, sapendo di avere facile accesso grazie all’eccitamento di lei che ormai sentiva sulle proprie dita.
Rhys, infastidito da quella scena ormai porno, era sbottato «Andate in camera e fatevela lì una scopata veloce, perché a noi di assistere a spettacolini di questo tipo non interessa affatto» parlò anche a nome di Colton che, seppur eccitato, annuì «E fate presto, perché tra quindici minuti passa l’auto per portarci a cena».
Steve non se la prese. Si alzò e tese la mano ad Addison che la afferrò per seguirlo. L’ultima cosa che Colton vide fu la mano dell’amico sollevare la gonna, tanto da permettergli di vedere tutta la parte più segreta di Addie mentre, contro la porta della sua camera, le strappava un gemito godurioso.
L’unica cosa che rimase nel salotto furono gli slip rotti di Addison e la bottiglia di Dom Pérignon che Rhys finì in quei quindici minuti.
 
Si strinse nel cappotto a doppiopetto, sistemandosi poi la sciarpa attorno al collo in modo che non rovinasse il colletto inamidato della camicia. Sorrise a una battuta idiota di Colton e si divertì ad ammirare il vapore prodotto da quell’emissione di fiato. Faceva veramente freddo, eppure andarsene in giro per le strade piene di gente non era poi così male. Doveva ammettere che la festa delle luci era davvero uno spettacolo mozzafiato di cui probabilmente avrebbe sentito la mancanza. Ripartire l’indomani sera alla volta degli Stati Uniti gli sarebbe dispiaciuto un po’.
Ogni angolo di Lione era preparato per stupire gli avventori di quei giorni con effetti luminosi. Statue che assomigliavano a palle di neve, giochi di luce montati nelle fontane e nei loro vapori. E ancora facciate di palazzi animate dalle luci proiettate ad arte e la ruota panoramica che cambiava colore e motivi a ogni corsa.
Per un simile spettacolo si lasciava entrare il freddo nelle ossa volentieri, anche se Rhys rimaneva poco convinto della cosa.
Non era il tipo da feste cittadine che ricordavano a tratti le sagre di paese con i prodotti tipici, ma non era nemmeno il tipo da locali in e discoteche. Era un giovane vecchio dai gusti raffinati che preferiva gli ambienti cui ormai era solito frequentare: eventi di beneficienza, cene e feste che richiedevano un determinato codice d’abbigliamento. La musica dal vivo e soffusa, bicchieri tintinnanti e sfarzo centellinato, coperto da sobria eleganza. Non voleva altro, quello era il mondo in cui era abituato a muoversi e lo faceva con un certo fascino, e questo gli bastava.
Era anche uno che non capiva certe tendenze, infatti non aveva condiviso la scelta del ristorante: il giapponese. Avevano scelto il più costoso e lussuoso della città, come se questo offrisse un pesce migliore degli altri; più fresco, più buono. Lui adorava la cucina giapponese, ma mal sopportava la gente che si affacciava al genere per pura moda, come Stephen, che aveva scelto il ristorante perché era cool. Essendo in Francia, avrebbe preferito cenare in un buon ristorante tipico che gli permettesse di provare le prelibatezze tipiche della nazione, non del pesce crudo. Eppure il suo disappunto non gli aveva impedito di gustarsi dell’ottimo sushi, non aveva fatto storie, non gli piaceva mettere zizzania ed era inutile lamentarsi della scelta con due strafatti.
Si girò al rumore sfalsato dei tacchi di Addie sull’asfalto. Si vedeva che con quell’ambiente non c’entrava nulla. La ruota panoramica sullo sfondo e le luci a circondarla, al contrario delle altre donne lì intorno, che indossavano scarpe comode e poco femminili e giacconi spessi e per nulla eleganti, Addison vestiva un cappotto con inserti di pelliccia e scarpe con il tacco dodici, talmente sottile che a volte scompariva alla vista. O si infilava tra i ciottoli, come in quel caso.
La lasciò a imprecare il giusto, il tempo necessario per farle dare spettacolo e farla vergognare, poi la aiutò prendendo la scarpa, esercitando una pressione sul tacco e sfilandolo dalle fessure. Mise la decolleté sull’asfalto assicurandosi che il tacco fosse saldo sul suolo e la tenne ferma finché Addison non la calzò.
Una volta in piedi si sistemò i vestiti in modo che fossero impeccabili come sempre, non gli piacevano i tessuti sgualciti. Addie, colpita dal gesto, si sperticò in ringraziamenti eccessivi, tanto che gli promise una notte che non avrebbe mai dimenticato, e che se solo lui avesse voluto gliene avrebbe concesse molte altre.
Ma lo sguardo di Rhys era ben oltre il viso di Addison, era fisso sulla piccola folla in coda sotto la ruota panoramica, c’era qualcosa ad attrarlo, eppure non capiva cosa. La poca affluenza l’aveva colpito poco prima di abbassarsi per aiutare la sua amica, dato che di solito le persone in fila per salire e ammirare la festa nella sua completezza erano sempre molte. Guardò l’ora, erano le undici e quarantacinque circa, di lì a pochi minuti ci sarebbe stato lo spettacolo di luci nella piazza principale della città, ecco la scarsa affluenza.
«Bravo Rhys, guardati in giro e cerca di farti spezzare il cuore da qualche giovane sconosciuta» Colton gli mise un braccio intorno alla spalla con fare amichevole.
Pensava che l’amico potesse essere sulla strada giusta, poi seguì il suo sguardo e vide qualcosa di bizzarro e invitante al principio della ruota panoramica e decise di metterci lo zampino.
«Ragazzi» urlò al gruppo «Andiamo a farci un giro!».
Non attese risposta e si mosse verso l’esigua fila davanti all’attrazione, comprò i biglietti per tutti e si fece spazio tra le persone che, disturbate da quel comportamento, si lamentarono.
Colton si giustificò dicendo che ad attenderli davanti c’erano delle amiche, peccato che lo fece in inglese quando avrebbe dovuto scusarsi in francese.
 
Pemberley stava parlottando con Silene, quando fu distratta dal vociare delle persone dietro di lei. L’amica però non le permise di distogliere l’attenzione da ciò che stavano per dare, dato che Sil aveva abbandonato gli amici per poter salire: era da tempo che aspettava quel momento.
La bionda scosse la folta chioma ed entrò nella cabina prima dell’amica. Fu questione di pochi secondi, il tempo di accomodarsi, che successe tutto.
Una volta seduta fissò un tizio dai capelli neri dare dei soldi al ragazzo che faceva salire le persone nelle varie cabine, spingere poi un ragazzo dai capelli chiari in quella da lei occupata, prendere in disparte Silene e l’addetto alla ruota chiudere la porticina della loro cabina, facendo accomodare Silene in quella dopo con il tizio moro che aveva avviato tutto quello.
Sbatté le palpebre ripetutamente, cercando di togliersi da davanti gli occhi le immagini di poco prima. Cos’era successo?
Lo sconosciuto si schiarì la voce, spaesato quanto lei, e le sorrise cordiale. Pemberley lo fissò per studiarlo. Aveva i capelli di una tonalità scura di biondo, non erano corti ma nemmeno lunghi, ed erano tutti sistemati all’indietro, anche se qualche ciocca si ribellava alla cera e si ergeva più dritta di altre. Gli occhi erano chiari e glaciali, un particolarità che non le piaceva molto, dato che risultavano freddi e impenetrabili. Il naso era dritto e grazioso, in linea con i lineamenti del viso. Ma a colpirla fu il sorriso: bianco e dai denti perfetti.
Se aveva pensato che il moro non fosse male, per quel poco che l’aveva visto, doveva dire che lo sconosciuto era davvero un bel ragazzo, non male come colpo di fortuna.
Era elegante e aggraziato, ed era tremendamente affascinante e conscio di questo suo aspetto e della sua bellezza.
Di fatto, quando realizzò tutto quello, si sentì piccola e insignificante e un po’ rozza; nonostante sua mamma l’avesse cresciuta come una piccola duchessa, da quando aveva preso le distanze dal suo passato di ragazza perfetta si era rivelata più normale delle altre donne esistenti. In quel momento si vergognò della sua tinta bionda, dei capelli che con quel clima non le stavano a posto e ringraziò di avere nella borsa una cuffia con cui camuffarli, anche se indossarla al chiuso non sarebbe stato l’ideale per dimostrare di non essere una stupida totale.
Rhys, invece, era affascinato da ciò che vedeva.
Era la prima ragazza dopo tempo che non aveva attaccato subito bottone, anzi, lo studiava quasi come se fosse sbagliato, un alieno sulla terra. La ragazza era sì piacente, ma a colpirlo fu la chioma. Non pensava che una donna potesse avere così tanti capelli e così lunghi. Capì che a catturare il suo sguardo, qualche minuto prima, erano stati proprio i capelli della sconosciuta che gli sedeva di fronte. Sembravano soffici e profumati.
Lei aveva gli zigomi alti, cosa che si accentuava quando sorrideva, aveva notato; il naso era piccolo e lasciava spazio a una bella bocca a cuore, quasi della stessa forma del viso.
Inoltre aveva una certa compostezza, e quello gli fece piacere. Indossava un cappotto blu con vistosi bottoni oro e una cintura in vita, le gambe erano fasciate da collant scuri e spessi e ai piedi calzava stivali bassi da cavallerizza. La cosa che più lo colpì fu il portamento che la contraddistingueva: le spalle dritte, il mento alto le mani in grembo e le gambe unite ma non accavallate. Non era come tutte le ragazze che si vedevano per strada e non era nemmeno una di quelle con la puzza sotto il naso che frequentava di solito; quella ragazza sembrava vivere in un mondo tutto suo, e gli piaceva. Forse aveva trovato la preda perfetta per attuare quella specie di piano di cui aveva parlato prima con gli amici.
Ma in che situazione l’aveva cacciato Colton? Poteva aver intravisto l’interesse di lui prima che Rhys se ne accorgesse, ma come poteva pensare che chiuderlo lì dentro con una sconosciuta potesse aiutarlo? Aveva l’aria di essere straniera, e di sicuro era intimorita.
Sorrise in modo affabile «Ciao. Io mi chiamo Rhys, e mi scuso per questo errore, non so cosa sia successo»
Dio, che situazione imbarazzante, non gli succedeva dal terzo anno di liceo. «E ti chiedo perdono per il mio pessimo francese».
Sua madre, dopo che Mitchell era sparito, aveva deciso di impiegare il tempo del figlio in modo utile, istruendolo il più possibile. Gli aveva fatto frequentare il corso di francese, poi quello di spagnolo, infine quello di giapponese. Aveva così un vocabolario ridotto di ogni lingua, e sapeva esprimere i concetti base, difatti aveva sbagliato un sacco di parole e verbi in quelle poche frasi, lo sapeva.
La ragazza rise divertita e  il suono riempì la cabina in modo piacevole, avvolgendoli e rompendo finalmente il ghiaccio «Piacere, io sono Pemberley e sì, nonostante io non sia francese, ma avendolo studiato, posso dirti che il tuo fa un po’ pena».
Gli allungò la mano e Rhys ridacchiò, felice di essere uscito da una situazione imbarazzante e di constatare che Pemberley parlava fluentemente la sua stessa lingua. Afferrò la mano e la strinse in modo saldo, come gli avevano insegnato a fare.
«Pemberley? Bel nome. Sei inglese?» gli venne spontaneo, visto e considerato il modo in cui si chiamava.
Lei storse il naso «Nah, americana. Non si sente che abbiamo lo stesso accento strascicato?» scosse il capo, divertita «Però mia madre voleva per me un nome originale. In quel periodo si era ostinata con Orgoglio e Pregiudizio ed eccomi qui, una persona che si chiama come una tenuta».
La smorfia che accompagnò quelle parole lo fece ridere ancor di più.
«Sembra che la cosa non ti piaccia, invece io trovo che sia davvero azzeccato. Inoltre è quasi regale, dovresti esserne fiera»
«Diciamo che poteva andarmi peggio. Ti immagini se mi fossi chiamata Netherfield? Meglio Pemberley» convenne infine. Si stupì di quanto fosse facile aprirsi e ridere con quel ragazzo, non le capitava da tempo. Più o meno dal suo ultimo flirt, avvenuto un paio d’anni prima. Non si ricordava quanto fosse bello poter parlare e civettare nella giusta misura con un uomo.
Rhys si piegò in avanti, poggiando i gomiti sulle cosce «Decisamente» poi unì le mani «Allora Pemberley, di dove sei di preciso?».
La curiosità a riguardo era sincera, una volta tanto. Era abituato a fare domande per ammaliare chi aveva davanti, fare in modo che lo amassero, venerassero e temessero. Era un pezzo grosso degli affari di New York e doveva fare di tutto per mantenere alto il proprio prestigio. Invece davanti a una semplice sconosciuta voleva saperne solo di più. Voleva scoprirla e ricordarla. Quel misto di sicurezza e spontaneità, portamento e quieta esuberanza l’aveva colpito.
«Ah, Rhys, sei un tipo curioso, vedo» appoggiò la schiena contro la parete trasparente dietro di sé «Ma io lo sono di più. Soddisfa tu per primo i miei desideri di sapere qualcosa in più su di te, e io farò lo stesso. Quindi… Di dove sei di preciso?».
Com’era riuscito a farsi mettere con le spalle al muro da una ragazza all’apparenza così indifesa, nonostante vedesse in lei tante doti positive? E perché era pronto a cedere a quel debole ricatto?
Semplice, l’attrazione. Questa smuoveva mari e monti, era facile per lei far breccia in un muro costruito male dietro cui si nascondeva un uomo così tutto d’un pezzo.
«Dire New York è riduttivo, io appartengo all’Upper est side».
Pemberley rise divertita. Non poteva essere possibile, il mondo era davvero piccolo. In effetti, a ben guardarlo, aveva una faccia conosciuta. Chissà, magari l’aveva incontrato da qualche parte e nemmeno se ne era accorta.
«Perché ridi? Lo trovi presuntuoso, vero?» mise le mani in tasca e indietreggiò, in segno di difesa. Mettere distanza tra di lui e la persona che lo stava mettendo alla prova era il miglior modo per far capire che non stava più scherzando.
«No, rido perché conosco bene quei posti. Io vivo a Princeton, ma nell’Upper east side ci accompagno i miei, qualche volta… Quando ci sono feste di beneficienza, sai, quelle cose lì».
Interessante, tanto che Rhys rilassò le spalle, di nuovo tranquillo. Non gli piaceva fare la figura dell’arrogante quando non ce n’era bisogno; o peggio, dell’insicuro.
«Sono i tipi di eventi a cui presenzio. Sempre» sottolineò l’ultima parola come per farle capire che forse c’era stata la possibilità di vedersi in passato e che, forse, ci sarebbe stata anche quella di vedersi in futuro. «Posso chiederti il cognome?»
«Voight» sussurrò quasi imbarazzata Pemberley, perché scoprire tutte le carte non le piaceva affatto. Temeva sempre che qualcuno potesse sapere troppo su di lei, e giudicarla prima ancora di poterla conoscere.
«Tuo padre è Terrence, Terrence Voight?» chiese interessato. Si ricordava di lui e la moglie. Terrence, prima di andare in pensione, aveva fatto il contabile per uno studio associato di avvocati molto famoso a Manhattan, mentre Felicia era stata una meravigliosa docente all’università di New York, che in quegli ultimi anni si era dedicata molto all’associazione benefica Lost Children, occupandosi così di tutti gli eventi di beneficienza che si tenevano in città e nei suoi dintorni, volti a raccogliere fondi per i bambini malati terminali, con un occhio di riguardo a quelli orfani.
Pem annuì in silenzio; prima di parlare voleva sapere quanto conosceva di lei e della sua famiglia. Improvvisamente quella cabina era diventata piccola e priva d’aria a sufficienza per farla respirare a dovere.
«Conosco per sentito dire la tua famiglia, tua mamma è un membro della Lost Children, e la mia società è una dei fondatori dell’associazione. Non ho mai parlato con loro, ma li conosco di fama, so che tutti vi apprezzano».
Era difficile non ricordarsi dei Voight: non avevano mai fatto parte della New York bene –  non di diritto, almeno – ma erano a tutti gli eventi più importanti. Terrence aveva lavorato per uno dei pezzi grossi della grande mela, e quindi conosceva molte persone in quell’ambiente patinato. Sapeva che non avevano un conto cospicuo, o ridicolmente senza fondo come il suo, ma di certo non erano solo benestanti. I Voight erano l’anello di congiunzione tra i potenti e i semplici borghesi che popolavano l’America. Come Pemberley, vivevano in un mondo tutto loro, costruito su loro misura, dove erano il centro di tutto.
Pemberley tirò un sospiro di sollievo. Quello che Rhys sapeva si limitava al lato più superficiale della sua famiglia, e questo non poteva che farle piacere. Odiava quella privazione di privacy che subentrava una volta che si diventava un nome da mormorare nel giro giusto a New York. Se uno dei tanti rampolli usciva con una persona per più di due volte, veniva segnalato sul giornale locale o qualche sito di gossip, senza che l’interessato ne fosse a conoscenza, e non solo dell’articolo, ma di avere un partner.
Per fortuna i Voight non erano tanto rilevanti da meritare quest’attenzione. In quel momento Pem capì l’importanza di vivere a Princeton, abbastanza vicini da non essere tagliati fuori, ma abbastanza lontani da non far parte di quel mondo che affascinava ma, in realtà, annientava tutte le persone che ne facevano parte. Gliel’avevano sempre detto che la loro era stata una scelta ponderata, ma lei non aveva ma concepito il perché.
A Manhattan era tutta una questione di soldi, potere e prestigio, e a qualsiasi mezzo fosse utile per arrivarvi; i Voight invece avevano incentrato la propria vita sul lavoro pulito e sui benefici che si potevano trarre da esso, nulla più.
Dopo aver tirato un sospiro di sollievo, si concentrò sulle parole di Rhys. «E, se posso sapere, qual è la tua società? Penso di conoscerle tutte quelle che hanno fondato la Lost Children».
Sua mamma non avrebbe mai creduto a quelle parole, era il colmo. Aveva tentato per anni di presentarle i pargoli d’oro che facevano parte dell’associazione e lei si era sempre tirata indietro con le più fantasiose scuse, e ora, a causa di un incidente alquanto bizzarro, stava fraternizzando con uno di loro.
«La Hewitt Corporation. Conosci?»
Pemberley spalancò gli occhi «Sei il padrone della HewittCorp?! Mio Dio, ora mi sento inadatta anche a respirare la tua stessa aria» lo fissò quasi intimorita «Tu non appartieni a New York, tu sei New york!».
Gli occhi di Rhys si piegarono verso il basso, tristi. Era la prima volta che non gli piaceva il risultato di quella rivelazione, non voleva incutere timore nella persona che aveva davanti, anzi.
«Ti prego, così mi rattristi. Sono una persona come tante»
«Ma tra le mani hai mezza America. O mezzo mondo» convenne Pemberley, un po’ meno intimorita.
Ci fu un momento di silenzio imbarazzante, dove entrambi concentrarono lo sguardo fuori, sullo spettacolo che imperversava sui muri dei palazzi, nelle fontane e nel cielo. La gente formava un fiume che, lento, imperversava per le strade e sui ponti. Un’immagine che nessuno dei due avrebbe dimenticato.
Poco dopo Rhys sogghignò involontariamente.
«Cosa c’è?» Pemberley staccò a fatica gli occhi dalle immagini con cui si stava riempiendo la memoria, doveva ringraziare Silene per la bella esperienza.
«Stavo pensando a prima» spostò lento lo sguardo su di lei, cercando di catalizzarne l’attenzione «Quando ho visto qualcosa di strano qui, in coda, e la cosa ha portato me e le persone in mia compagnia a salire».
«E cosa c’è di strano?» era curiosa, non capiva il nesso con la sua presenza in quella cabina.
«Quello che mi ha colpito erano i tuoi capelli, l’ho capito ora. Sono veramente tanti!» e rise. Voleva dimenticarsi di essere il padrone della HewittCorp, di avere ruoli e obblighi, voleva solo essere una persona come tante, libera di fare quello che più gli piaceva, almeno per una sera.
Pemberley fece una smorfia «Lo so, e sono pure difficili da gestire. Li tengo lunghi perché corti sarebbero impossibili».
Tornò a fissare le luci fuori, mentre la ruota li riportava piano verso il basso.
«No, così lunghi sono belli, ti stanno bene. Con i capelli corti perderesti la tua particolarità, suppongo» non sapeva come gestire al meglio complimenti sui capelli, ma non era facile quando di una ragazza ti colpivano quelli per primi rispetto al resto.
Un altro momento di silenzio a frapporsi tra loro.
«Mi piace il buio» sentenziò Pemberley dopo poco.
«E perché?» lui la trovò strana come affermazione.
«Perché può essere sempre illuminato».
E lo credeva davvero. Il buio non era solo fonte di paura o portava con sé le cose peggiori, l’oscurità nascondeva le cose migliori, cullandole con le ombre e tenendole segrete agli occhi di chi non voleva vedere, era il silenzio di chi sapeva custodire i segreti nel migliore dei modi. Bastava una piccola punta di luce, una scintilla, per illuminare il minimo e vedere un po’ di più, un po’ meglio, scoprire solo parte di quello che circondava e cullava le persone. Davvero custodiva i segreti meglio di un amico, c’era sempre e, volendolo, poteva essere accantonato, accendendo la luce.
Un lusso che questa non poteva garantirti. Non sempre.
Sì, il buio la rendeva tranquilla, era la costante che vedeva nella sua vita. L’elemento che la rasserenava con la sola presenza, anche se timida.
La ruota stava compiendo il loro giro, smettendo di far sovrastare loro Lione e la sua festa.
Parlarono poco di lì alla fine, rapiti dalla magia degli spettacoli.
Fu solo quando tornarono con i piedi per terra che si guardarono straniti, quasi imbarazzati. Si erano sentiti protetti in quella cabina, lontano da tutti; ora dovevano condividersi agli occhi di un mondo famelico a cui non erano preparati.
Si allontanarono dalla struttura senza parlarsi.
«Io, beh, penso di aspettare la mia amica, dovrebbe scendere a breve…» non si era ricordata che Silene era in compagnia degli amici di Rhys.
Gli occhi chiari erano diventati d’improvviso duri, come se non volesse accettare quel distacco. Facevano paura tanto erano freddi, così diversi da quelli di Nathan.
Era la prima volta che il pensiero corse a lui, dato che per Pemberley era spontaneo paragonare al proprio ex ragazzo ogni essere vivente. E, dopo tempo immemore, quel pensiero era diventato scomodo e non doloroso, un ostacolo che riusciva a superare senza difficoltà. Rhys l’aveva colpita.
Lui abbassò lo sguardo. Tirò un sospiro arreso. D’improvviso raddrizzò le spalle, alzò il viso e tornò a essere il giovane uomo sorridente e sicuro che era stata sulla ruota panoramica.
Estrasse la mano dalla tasca del cappotto blu che faceva risaltare gli occhi azzurri, e con un sorriso accennato colmo di speranza si rivolse a Pem, la mano tesa verso di lei con il palmo rivolto verso l’alto in un tacito invito.
«Vuoi illuminare ancora un po’ la notte con me?».
Pemberley sgranò gli occhi e arrossì, una cosa che non le capitava da anni.
Una proposta così diretta e differente dalle altre non le era mai stata posta. Come poteva aver colto il segno in poco tempo? Possibile che Lione avesse compiuto la magia, il miracolo?
Si voltò a guardare dubbiosa la ruota, come se potesse vedere comparire Silene da un momento all’altro.
«Solo tu e io» la incalzò.
Si girò verso di lui, studiandolo.
Non ebbe bisogno d’altro, in quel momento, per accettare.
Posò la mano sulla sua e, per la prima volta in quella serata, non sentì freddo.

* * *

Buonasera! eccomi qui con il secondo capitolo di questa storia.
Lo so che magari aspettavate dei chiarimenti sul passato, capire cosa ne è stato del rapporto tra Pem e Nathan, ma per quello c'è tempo. In questo capitolo ho voluto presentarvi la situazione nuova, e sotto quali sembianze si presenta.
Rhys che, ci tengo a sottolineare, non è bipolare. E' molto rigido anzi, ma com Pem, una totale sconosciuta, ha deciso di rilassarsi un attimo. Stessa scelta, tra l'altro, che ha deciso di fare lei: godere della compagnia dell'altra persona con un po' di spensieratezza, questo perchè forse sono stanchi di adempiere sempre ai propri doveri.
Ma prima o poi giuro che tutti questi lati, verranno fuori.
Mi scuso per la scena iniziale un po' forte, me ne rendo conto, ma spero che possiate apprezzarla, ho cercato di immaginare il suo mondo e, quindi, descriverlo.
Lo so che ho tagliato il capitolo su un punto interessante, ma ho preferito gestire le cose così, anche perchè la scena dopo mi premeva in particolar modo e trovo che all'inizio del terzo capitolo ci stia bene.
Altra precisazione: la festa delle luci di Lione esiste e vi lascio un link per aver un'idea a riguardo. ah si, si svolge nei giorni in cui ho scelto di ambientare là l'occasione, ho cercato di essere fedele alla festa, ecco. qui il video: Fête des lumières
Inoltre ringrazio ale per il video trailer della storia che io adoro: lei ha un canale youtube: TheCarnivalefp e una pagina fb: La vida es un Carnaval
Io, infine, vi lascio il link al mio gruppo: Love Doses,
Vi ringrazio per l'accoglienza per la storia, spero che questo secondo capitolo sia stato di vostro gradimento.
A presto, Cris.

   
 
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