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Autore: Remiel    14/11/2012    3 recensioni
Protagonista di questa storia è la semidea Cithara, figlia di Apollo, che scoprirà di possedere sin dalla nascita una dote particolare...
Arrivata al Campo Mezzosangue in seguito al rapimento della madre, Thara farà la conoscenza di varie persone tra le quali Emile, figlio di Ermes, incaricato di accompagnarla alla scoperta del mondo delle divinità e dei suoi poteri di semidea, e Raven, figlio di Apollo e capo dormitorio, nonché capo della banda musicale del Campo.
Il mistero del rapimento della madre di Thara si infittisce con la sparizione di altre donne. Chi le sta portando negli Inferi, e a che scopo?
Dal Cap.2
"Mi accorsi che era tempo di andare all’entrata e scesi le scale circolari con calma, assaporando il rimbombo del rumore che i piccoli tacchi delle ballerine producevano a contatto col marmo bianco. Chiusi gli occhi, deliziata da questo suono, mentre riconoscevo senza problemi prima un La, poi un Do provocato da un passo più deciso, un Fa… Questo era il vero dono che mi aveva fatto mio padre: la Musica."
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La storia è "ambientata" nel mondo di Percy Jackson, più che essere una fanfiction vera e propria... Dunque, buona lettura anche a chi non conosce i libri!:)
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gli Dèi, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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[Shrinking Universe - Muse]
[Crystallize - Lindsey Stirling]
 
Mi lasciai cadere sul letto sospirando.
Era ormai sera e mi sentivo distrutta come non mai: Emile aveva deciso di allenarsi con me nonostante il braccio ferito e le mani mi dolevano, affaticate dal peso della spada di legno.
«Uff…»
Speravo fosse una mia impressione ma per tutto il resto della giornata mi pareva di aver intravisto uno strano sorriso beffardo affiorare più volte sulle labbra del biondo.
“Scema…!”
Affondai il viso nel cuscino, soffocando un  gemito di protesta. Ebbi un moto di tristezza nel pensare che solo una stupida sarebbe stata capace di farsi prendere dalle emozioni in quel modo.
Ripercorrendo mentalmente gli avvenimenti della giornata, mi accorsi di non aver notato Raven a cena. Forse la sua ferita era più grave di quello che mi era parso inizialmente ed era stato costretto a rimanere a letto. Mi morsi le labbra: ero stata scortese ad andarmene così, lasciandolo nell’Arena senza nemmeno informarmi sull’entità effettiva della lesione.
Non avevo neanche la più pallida idea di dove si trovasse la sua stanza ma pensai fosse giusto fare un tentativo.
Uscii dalla mia camera con circospezione per avviarmi verso il salone centrale del piano terra, sperando di riuscire a carpire qualche informazione in più ai miei fratellastri senza destare troppi sospetti.
Arrivata a scendere l’ultimo gradino, dedicai qualche minuto a osservare le teste brune che affollavano il salone. Qualcuno si accorse della mia presenza e si limitò a rivolgermi uno sguardo di sufficienza, di certo dopo la mia uscita di oggi non avevo guadagnato dei punti simpatia!
“Ci sarà almeno una persona vagamente amichevole in questa stanza…” continuavo a ripetere tra me e me portandomi verso il centro del salone, cercando di attirare meno attenzione possibile.
Finalmente una ragazza incrociò il mio sguardo senza ombra di ostilità.
«Ciao! Sei quella nuova, vero?» Si era avvicinata dopo aver ricevuto un sorriso imbarazzato in risposta alla sua occhiata incuriosita.
«Piacere… Cithara Greenwood» annuii, porgendole in modo meccanico la mano. Quando me la strinse rimasi sorpresa nel sentire delle mani morbide e paffute. I capelli castani, corti e ricci le cadevano in ciocche ribelli sugli occhi ambrati, mentre delle lentiggini color caffèlatte le coprivano parte delle guance e del naso.
Aveva un’aria simpatica.
«Io sono Martha Lowel! Benvenuta tra noi, spero che  tu possa ambientarti quanto prima.»
Il suo sorriso sincero era contagioso e mi ritrovai ben presto a sorridere a mia volta.
«Lo spero anch’io…» sospirai.
Iniziavo a pensare che sarebbe stata più dura del previsto fare amicizia coi miei fratelli mentre rimanevo sempre e solo con Emile. Non che passare tutto il tempo con lui mi dispiacesse…
«…Ti senti bene?» Dovevo essere arrossita, perché Martha mi stava guardando preoccupata.
Decisi di imputare l’improvviso cambio di colorito all’afa estiva.
«Scusa, posso chiederti una cosa? Oggi Raven è stato ferito all’Arena e non l’ho visto a cena stasera… Per caso sai se sta bene?» Rimasi stupita dall’essere riuscita a comporre una frase così lunga dopo giorni e giorni di quasi mutismo.
Martha arricciò le labbra,  indecisa sul da farsi.
«Mmm… Sì, ho saputo di quello che è successo.» Mi guardò per un attimo in silenzio con i suoi occhi ambrati, come se dovessi capire qualcosa di sottointeso. «L’ho visto poco fa mentre tornava in camera a riposare! …Volevi andare a trovarlo?»
Annuii con un sorriso colpevole. La ragazza ‒faticavo ancora a realizzare che si trattava di una mia sorella, come d’altronde tutti quelli che si trovavano in quella stanza‒ pareva molto acuta: ero convinta che conoscesse la storia e avesse intuito il motivo del mio imbarazzo.
«La stanza è al terzo piano, in fondo al corridoio a destra delle scale. Detto tra noi…»  si avvicinò, abbassando la voce «…non comprendo tutto questo rancore tra quei due. Non sentirti in colpa, a volte i ragazzi sono difficili da capire!»
«Grazie» dissi semplicemente, molto grata a Martha per aver tentato di rincuorarmi.
All’improvviso non mi dava più fastidio l’idea di avere dei fratelli, se questo significava avere una sorella gentile come lei.
«Domani dopo pranzo vieni alle prove?»
Ci misi qualche secondo a capire che si riferiva alle famose prove del concerto di cui mi aveva parlato Raven.
Emile mi aveva promesso di darmi lezioni di ripetizione sulla storia dell’Antica Grecia la mattina, avrebbe voluto allenarmi di pomeriggio. Sperai che non si arrabbiasse se per un giorno mi fossi presa una pausa.
«Stavo pensando di venire… Dove le fate?»
«Ti aspetto al dormitorio alle 15:00! Così andiamo assieme.» Mi sorrise di nuovo, allungando la mano verso la mia spalla per darmi un colpetto affettuoso.
«Ok, grazie ancora Martha.»
Annuì con il capo e fece un cenno verso le scale.
«Un’ultima cosa… Raven è un tipo difficile a volte ma non è cattivo. Dagli un po’ di fiducia.»
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Erano passati ormai cinque minuti da quando avevo trovato la porta della stanza di Raven e ancora non mi ero decisa a bussare. Stavo lì, immobile e incerta sul da farsi.
Cos’avrei detto una volta dentro? “Ciao Raven, sei ancora tutto intero? Oh, mi dispiace tanto per essere scappata in quel modo stamattina ma ero troppo impegnata a seguire i miei stupidi ormoni e correre dietro ad Emile! Spero che non ti dispiaccia.” …No ok, così non andava decisamente bene.
La cosa più  strana è che all’inizio la mia azione non mi era sembrata terribile ma col passare delle ore avevo realizzato che dovevo essere sembrata un’insensibile o peggio, una traditrice. Maledizione, era pur sempre uno dei miei fratelli quello che era stato ferito più gravemente!
Era tutto così dannatamente difficile… Quando andavo a scuola non dovevo preoccuparmi tanto, a forza di stare a contatto coi miei compagni per tutte quelle ore le cose venivano da sé. Le amicizie lì mi erano parse facili da costruire, anche se mi ero accorta di quanto fossero altrettanto facilmente deperibili. È brutto ritrovarsi a pensare dopo anni di essere amica di tutti ma di nessuno in particolare.
Le uniche due figure a cui mi appoggiavo, mia mamma ed Eleuse, erano attualmente fuori dalla mia portata e fu strano realizzare di essere stata lasciata da sola con i miei problemi.
Uno scricchiolio proveniente dalla porta mi strappò ai miei pensieri.
«Oh…? Cithara?» Non poteva essere lo stesso Raven che avevo conosciuto, quello che avevo davanti in quel momento. Con i capelli arruffati e un pigiama scuro di seta, aveva l’aria sorpresa e ‒incredibile a dirsi!‒ indifesa.
«Ah… Perdonami, stavo per bussare ma avevo paura che stessi dormendo.» La scusa mi risultò parecchio patetica, tuttavia Raven non la mise in dubbio.
«…Vuoi entrare un momento?» fece, spostandosi di lato per lasciare libera parte dell’ingresso.
«Ti ringrazio.»
Rimasi piacevolmente colpita da come aveva arredato la sua piccola camera, c’erano un sacco di scaffali pieni di libri in greco e sulla scrivania, davanti alla finestra, spiccavano dei barattoli in vetro contenenti delle erbe in polvere.
Con la mano fece cenno di accomodarmi sulla sedia mentre lui si sedeva sul letto semidisfatto.
«Scusa il disordine, non aspettavo ospiti.» Era imbarazzo quello che avevo appena percepito nella sua voce?
«Volevo solo vedere come stavi. La ferita al fianco è grave?» Nel pronunciare la domanda spostai lo sguardo sulle bende che si intravvedevano dallo scollo del pigiama.
Raven alzò le spalle con noncuranza e si passò una mano tra i capelli ebano. Sembravano morbidi…
«Nulla di cui preoccuparsi. Guarirà in tempo per la Caccia alla Bandiera» aggiunse sorridendo. Di sicuro stava progettando un modo per farla pagare ad Emile.
«Riguardo oggi pomeriggio all’Arena… Mi spiace di essere scappata in quel modo.»
I suoi occhi grigi mi studiarono a lungo prima di sorridere e diventare simili a opali scuri.
«Non ti devi scusare, ho capito subito che ti dà fastidio la vista del sangue! D’altro canto, anche l’inetto…» alzai un sopracciglio «…Pardon, Emile, necessitava di cure. È normale che tu lo abbia seguito.»
Rilassai un poco le spalle ed emisi mentalmente un sospiro di sollievo. Almeno Raven pareva ancora ben disposto nei miei confronti.
“Raven è un tipo difficile a volte ma non è cattivo. Dagli un po’ di fiducia.”
«Posso… Posso farti una domanda?»
Quando mi sorrise sornione mi aspettai quasi che rispondesse una cosa del tipo “L’hai appena fatta”, invece fece un cenno col capo.
«Dimmi pure.»
«C’è un motivo particolare per il quale tu ed Emile non andate molto d’accordo?»
Dire che non andavano d’accordo era un eufemismo, pareva piuttosto che tra i due ci fosse una sorta di rivalità viscerale.
Sembrò pensarci su a lungo.
«Beh, siamo arrivati assieme al Campo Mezzosangue otto anni fa. Lui è sempre stato, come dire… Molto attivo. Io, per contro, ero un bambino abbastanza tranquillo e avere sempre addosso un ragazzino assillante che cercava di trascinarmi nei suoi giochi spericolati… Non era il genere di divertimento che mi attirava, ecco.» Raven aveva lo sguardo perso mentre raccontava, le immagini gli scorrevano davanti agli occhi. «Quando siamo cresciuti ho deciso di mettere in chiaro le cose con un combattimento e, dopo essere stato battuto, Emile mi promise solennemente che si sarebbe allenato per superarmi. Da quel momento ci sono stati continui scontri tra di noi per determinare chi fosse il migliore.»
Provai a immaginare un piccolo Raven importunato da un mini Emile e mi venne da ridere. Mio fratello mi sorrise.
«Non posso dire di odiarlo veramente, mi sono affezionato alle nostre scaramucce. Se non ci azzuffiamo entro un tot di giorni ne sento la mancanza.»
Non riuscii più a trattenermi e mi sfuggì una risata mentre cercavo di asciugare le lacrime che mi erano salite agli occhi.
«A-ehm… Scusa» feci, cercando di riprendere contegno. Lui sorrise bonario e scosse la mano.
«Figurati! Capisco che sia difficile da credere ma è così. Quindi, per rispondere alla tua domanda, non c’è un vero e proprio motivo per il quale non andiamo d’accordo… È solo ordinaria amministrazione.»
“Non è poi così difficile da credere… Piuttosto, non riesco a credere che questo sia lo stesso Raven che ho conosciuto l’altra mattina! Come ha potuto farmi una così brutta impressione…?”
Ricordai l’aria arrogante che aveva la prima volta che l’avevo visto e compresi: non ero mai stata brava con le prime impressioni. Mi ero, come al solito, fermata alla scorza e fidata dell’aura armonica che avevo percepito. Chi dice che una melodia lugubre debba essere per forza negativa?
«Grazie per il racconto, è stato illuminante» dissi, mentre mi alzavo dopo aver notato che Raven aveva trattenuto uno sbadiglio.
Mi guardò con aria smarrita.
«Oh, vai di già? …Spero che la mia storia non abbia messo in cattiva luce Emile, non potrei mai sopportarlo.» La vena ironica nella sua voce indicava tutto il contrario.
Sospirai mentalmente per la seconda volta, ora in segno di rassegnazione: non poteva proprio sopportare Emile. Forse c’era dell’altro che non mi aveva raccontato.
«Immagino che sarai stanco e devi riposare per riprenderti del tutto.»
Gli si illuminarono gli occhi, non si aspettava che mi preoccupassi per lui.
«Su questo hai ragione… Grazie per la visita, mi ha fatto piacere vederti, Cithara.» Nella sua voce c’era una nuova dolcezza nel pronunciare il mio nome che mi fece arrossire.
«Ci vediamo domani, Raven. Buonanotte!»
«Buonanotte anche a te.»
---
«E quindi mi tradisci così?»
Abbassai lo sguardo con aria colpevole.
«M-mi spiace, è che…» biascicai, sempre senza guardare Emile negli occhi. Mi era sembrato davvero deluso quando gli avevo chiesto di lasciarmi il pomeriggio libero per partecipare alle prove della banda.
Emile mi colse alla sprovvista, arruffandomi i capelli e rischiando di farmi venire un attacco di cuore.
«Ho capito, devi legare anche con i tuoi fratelli. Non preoccuparti per me, troverò qualcosa da fare!»
Sapevo che non avrei dovuto alzare gli occhi su di lui, perché lo sguardo amabile che mi stava rivolgendo traspariva già dal suo tono di voce, ma non potei farne a meno.
«Grazie, Emile.»
Il suo sorriso si allargò di più.
«Naturalmente, questo significa che perderemo del tempo prezioso per l’allenamento… Dovrai farti perdonare in qualche modo.»
Rabbrividii in modo impercettibile alle sue parole ed iniziai a preoccuparmi. Mi trovavo pur sempre di fronte a un figlio di Ermes, e avevo sentito racconti poco raccomandabili sui tipi di pagamento che prediligevano (come biancheria intima femminile e cose di questo tipo)…
Deglutii e cercai di dissimulare l’agitazione.
«Cosa dovrei fare?»
«Andrai a suonare con la banda, no? Dunque presumo che suoni uno strumento…» disse in tono suadente e con un sorriso angelico, abbassando la voce «…Vorrei che suonassi per me.»
Mi guardò incuriosito quando tirai un sospiro di sollievo.
«Solo? Oh, pensavo che…» Avevo dimenticato che stavo parlando con Emile, non con un figlio di Ermes qualunque. Insomma, a sentire Eleuse, il biondino era una specie di santo in mezzo a tanti arrapati…
«Beh, se vuoi ripagarmi in qualche altro modo… Forse se ne può parlare.»
Ritirai mentalmente tutto quello che avevo pensato. Nonostante la sua apparente noncuranza, Emile rimaneva un figlio di Ermes in tutto e per tutto, oltre che essere un ragazzo, in primis.
«...Sì, suonare andrà bene.»
Non lo guardai mentre soffocava un risolino e tornava ad arruffarmi i capelli.
«Sono curioso si sentire il tuo violino, si dice che si possano capire tante cose di una persona, sentendola suonare…»
«Come sai che suono il violino?» Mi diedi della scema nel momento stesso in cui glielo chiesi. «Te l’avrà detto Eleuse, immagino…»
Emile sorrise, scuotendo la testa.
«Ho visto la custodia quando sono venuto a prenderti la prima sera per la cena.»
Sentii imporporarsi le guance al pensiero di Emile che, nella mia stanza, aveva avuto tutto il tempo di studiarmi mentre dormivo e provare a capire qualcosa di me guardando i miseri bagagli che ero riuscita a portare al Campo.
«Scusa ancora per quella volta! Non verrò più a importunarti, lo prometto» si sentì in obbligo di aggiungere, forse preoccupato dal mio mutismo. «…A meno che non sia tu a invitarmi nella tua stanza, s’intende.»
Ok, due battute sagaci nel giro di qualche minuto erano un po’ troppe. Doveva essersi accorto del mio imbarazzo il giorno precedente…!
Per non perdere del tutto la faccia, l’unica cosa da fare era mostrare indifferenza.
«Non ci vedo nulla di male, se vuoi sei il benvenuto. Naturalmente quando sono sveglia, s’intende» conclusi, scimmiottando la sua frase.
Il biondo rise di gusto e per quella mattina tornò ad essere il santo di sempre, almeno in apparenza.
 
Alle 15:00 in punto, Martha scese la scalinata principale della nostra Casa con un cofanetto dalla forma affusolata sulle spalle. Immaginai fosse il contenitore del suo strumento musicale e strinsi più saldamente la presa sulla custodia di pelle del mio violino.
«Eccoti qui, Cithara! La stanza in cui ci esercitiamo è poco lontana da qui ma vorrei arrivare un po’ prima per presentarti alcuni dei nostri fratelli. A proposito, lui è Loren.»
Non mi ero accorta della figura allampanata dietro di Martha nonostante la custodia del suo strumento fosse decisamente ben visibile, talmente grande da superare la sua altezza mentre la portava sulle spalle.
Gli occhi verde scuro del ragazzo mi scrutarono pigri da sotto i lisci capelli castani prima di sorridermi.
«Piacere, Loren Kylies. Sono il violoncellista» disse, indicando col pollice il borsone alle sue spalle.
«Cithara Greenwood. Suono il violino.»
Il suo sguardo s’illuminò alla parola violino e lo vidi annuire soddisfatto.
«Finalmente un violino! Ero stanco di tutti questi strumenti a fiat... Ouch!» Martha gli aveva tirato una gomitata nel costato, creando non pochi problemi al suo equilibrio, precario a causa del peso del violoncello.
«Loren è simpatico, ma dovrebbe imparare a non criticare i gusti degli altri. Non è colpa di nessuno se ultimamente partecipano alle prove per lo più clarinetti, flauti traversi e trombe… Anzi, ci sono Ruth alla viola e Chama all’arpa, non dovresti nemmeno lamentarti!»
«Siamo così in pochi alle prove?» Dovevo aver toccato un tasto dolente, perché entrambi smisero di bisticciare e mi rivolsero un’occhiata addolorata.
«Molti nostri fratelli non sono interessati all’idea del concerto di fine estate… Intervengono nel suonare e cantare le canzoni attorno al falò ma per il resto preferiscono dedicarsi all’allenamento con le armi e allo studio delle erbe medicinali.»
Questa storia mi puzzava, da quello che avevo capito i figli di Apollo erano noti per suonare egregiamente gli strumenti, perché mai avrebbero dovuto metterli da parte per le armi? Come se si fossero dovuti preparare per qualcosa…
«…Sono tutti impegnati per la Caccia alla Bandiera? È così importante?» Martha e Loren scoppiarono a ridere all’unisono, lui era addirittura piegato in due e la ragazza dovette aiutarlo per far si che non rimanesse schiacciato sotto il peso della custodia del violoncello.
«S-scusa… No, ovvio che no! La Caccia alla Bandiera è più un divertimento che altro…» mi rispose Loren con le lacrime agli occhi. Aveva davvero una bella voce, la sua risata cristallina mi ricordava il rumore della dolce pioggia estiva.
«In effetti tutte le Case sono in subbuglio, ma di certo non per la Caccia» continuò la riccia, in tono serio «Sembra che là fuori stiano succedendo cose strane e, anche se gli insegnanti non ci dicono nulla, abbiamo capito che qualcosa di importante bolle in pentola sull’Olimpo.»
Rimasi in silenzio a riflettere, mentre seguivo i due che nel frattempo avevano ricominciato a beccarsi. Possibile che anche il rapimento di mia madre c’entrasse qualcosa?
Non riuscii a formulare altri pensieri utili a unire i tasselli del puzzle che si stava formando nella mia mente, perché appena arrivati nell’aula una mano dalle dita affusolate si posò sulla mia nuca in modo affettuoso.
«Cithara, sei venuta alla fine! Sono felice che ti sia voluta unire a noi.»
«…Raven! Ma sei ferito, non credi che sarebbe meglio…?» Mi zittì con due colpetti sulla spalla, come a dire “va tutto bene”, e si allontanò per prendere posto al piano.
«Buon pomeriggio a tutti, fratelli! È con grande onore che vi annuncio l’arrivo di un nuovo elemento nel gruppo: Cithara Greenwood col suo violino.»
Stavo pregando di svanire nel nulla o venire risucchiata dalle pareti per paura di rivedere i volti ostili dell’altra sera, e invece rimasi colpita dal constatare che tutti mi fissavano con aria di speranza, piuttosto che di risentimento. Dovevano davvero sentire la mancanza degli strumenti a corda.
Dopo aver salutato i miei fratelli ed essermi presentata (cercando di ricordare almeno qualche nome tra la quindicina di persone che componeva la nostra mini orchestra), mi abbandonai su di una sedia e aprii la custodia con dolcezza. Con tutto il trambusto che c’era stato dopo il mio arrivo al Campo, non avevo avuto la possibilità di suonare.
Accarezzai con affetto la vernice bianca del mio violino, assaporandone ogni asperità.
Il suono dolce del pianoforte mi riportò alla realtà e Raven iniziò a illustrare il pezzo sul quale ci saremmo esercitati quel giorno, un arrangiamento orchestrato di una delle canzoni che avevo sentito intonare attorno al falò.
Mentre iniziavo a pizzicare le corde del violino sotto lo sguardo vigile del corvino, capii perché era venuto alle prove nonostante la ferita e come potesse essere seguito così ubbidientemente da tutti.
Senza di Raven, il gruppo non esisteva. Lui era come il Sole per i fiori, la Luna per le maree, l’acqua per la vita… Era tutto.
Capii questo, e guardandolo con occhi diversi compresi anche perché Emile era tanto desideroso di superarlo.
Iniziai a pensare che non ci sarebbe mai riuscito.
   
 
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