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Autore: Shesburning    15/11/2012    1 recensioni
"La gente con me ha la stessa reazione di quando tocca un vetro ghiacciato: prova un brivido di sconcerto e si scosta di colpo. La cosa che mi fa più rabbia è che loro mi toccano, mi toccano più volte. Davanti alla pizza, versandomi il vino, punzecchiandomi con delle battute scadenti. Di solito rido a battute di quel tipo, anche se non sono divertenti. Eppure, stasera, più loro cercano di scaldarmi più io mi raffreddo. E’ una prerogativa degli insicuri, noi siamo come i ricci: più li tocchi, più loro si chiudono puntandoti contro le spine."
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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E’ una sera di novembre come tante. Una di quelle sere in cui Roma potrebbe perfino essere una città piacevole. Nell’aria si sbriciola già un po’ di natale, lo intravedi negli abeti gelati, nelle prime luci sui palazzi, nelle decorazioni dei negozi. In un certo senso tutto questo si potrebbe anche chiamare felicità. Felicità è stare mano nella mano con il ragazzo di cui sono innamorata e farsi trascinare per le strade di via del corso. Felicità è non avere freddo perché si ha fatto la scelta giusta di vestiti quella mattina. Felicità è sapere che tra un’oretta sarai seduto al tavolo di un ristorante a sbocconcellare la tua pizza margherita annegando nella pace di un bicchiere di vino e di quattro chiacchiere con gli amici.
Io ci cammino dentro alla felicità, eppure non riesco a sentirla. Ci dev’essere qualcosa nella mia pelle che non le permette di entrare. Io lo so cos’è, ma non voglio ammetterlo: è la corazza di cemento armato che mi sono costruita da una vita, fatta di tutti i “non abbastanza”, i “troppo poco”, i “sono uno sbaglio” che ho accumulato in diciassette anni. Le delusioni che ho avuto me le leggi addosso. Non parlo solo dei piccoli tagli rossastri che nascondo sotto le maniche: quelli sono frutto del delirio. Parlo del modo in cui evito gli sguardi, in cui mi nascondo nel cappotto, in cui infilo le mani in tasca e in cui mi mangio le unghie e mi mordo alle labbra quando vorrei entrare in un discorso e non c’è posto. Tutto questo è un barricarsi.
Per questo quando io e il mio ragazzo incontriamo i suoi amici estraggo a forza un sorriso e continuo a nascondermi. Sembro un pezzo di ghiaccio. La gente con me ha la stessa reazione di quando tocca un vetro ghiacciato: prova un brivido di sconcerto e si scosta di colpo. La cosa che mi fa più rabbia è che loro mi toccano, mi toccano più volte. Davanti alla pizza, versandomi il vino, punzecchiandomi con delle battute scadenti. Di solito rido a battute di quel tipo, anche se non sono divertenti. Eppure, stasera, più loro cercano di scaldarmi più io mi raffreddo. E’ una prerogativa degli insicuri, noi siamo come i ricci: più li tocchi, più loro si chiudono puntandoti contro le spine.
Poi arriva il momento in cui anche gli altri si stancano di provarci. Vedono che tu non reagisci, e allora è come cercare di far ballare un cadavere. Lentamente smetto di esistere. I sorrisi si girano dall’altra parte e i dialoghi smettono di includermi. Non era quello che volevo? Anche il mio ragazzo è girato di spalle. Io sono al bordo del tavolo, nella stessa stanza, eppure mi sembra di essere a miglai e miglia di distanza. Mi sembra di essere un foglio di carta volato lì per caso; non c’entro niente con questa gente, con questa pizza e con queste risate. La gente parla, si diverte, io so solo dire cose sbagliate. La gente ha dei problemi e allora cerca di alleviarli versandosi sopra i graffi un pizzico di allegria serale, una spolverata di amicizia innocente. Io invece mi ci rotolo, nei problemi, mi ci tuffo e lascio cuocermi a fuoco lento finché non mi si sciolgono la pelle e i muscoli. Solo le ossa restano, quelle sempre. E sono piene di sangue e di ferite. E io mi ci premo sopra il dito. E mi faccio piacere il dolore.
Anche stasera è così. Sono una figlia del dolore. Prendo ogni parola di quel tavolo e me la premo contro come lamine affilate. Prendo una risata e mi ci taglio il polso. Prendo un commento gentile e mi ci squarcio il petto. Poi il mio ragazzo dice qualcosa e tutti ridono: quella me la pianto nel cuore.
Niente, io non sono capace di vivere. Prendo il vino e mi affido a lui. Una volta mi piaceva il sapore, ma quello rimane forse per i primi due bicchieri. Quando superi i cinque, allora non ti resta altro che la voglia di annegarci ancora. Io sono fatta così: annego. Nei problemi, negli sguardi, nelle parole, nella gente e nel vino. E quando me ne accorgo, che ormai boccheggio in cerca di un po’ d’ossigeno, capisco che è troppo tardi. Allora continuo ad affondare. E quando se ne accorgono gli altri, dopo due ore di chiacchiere e risate, tutti a porgermi le loro bombole per farmi risalire in superficie. Ma io non le voglio. E’ questo il punto, non le voglio: fa troppo male. Fa così male che non sento neanche più il dolore.
Così chiudo gli occhi, insensibile a qualsiasi forma d’aiuto. E mi lascio annegare.
Quando li riapro sono fuori dal locale. Forse è l’aria fresca che mi ha fatto svegliare. Ho la nausea, ma non di stomaco, di emozioni. Mi viene da vomitare una valanga di parole che marciscono dentro di me da anni. Ne verso qualcuna per strada e so che devono essere squallide, perché vedo i lampi d’odio del mio ragazzo e gli sguardi degli altri che mi cancellano come una gomma, mi escludono sempre di più, ed io divento piccola piccola, fino a scomparire. Sono ancora abbastanza grande da camminare. Cammino e vomito parole, voglio essere lasciata in pace. Che differenza farebbe se lui mi lasciasse qui? Probabilmente non cambierebbe niente per nessuno. Nemmeno per me. Voglio solo bere ancora un po’: mi piace la sensazione di niente che ti lascia l’alcol. Ti dissolve. E tu non sei più niente, neanche i tuoi problemi. Bere è come spogliarsi per un po’ dai pensieri.
Solo che le emozioni, quelle ce le hai cucite addosso. E non si scollano.
Chiudo e riapro gli occhi. Un battito di ciglia e sono alla metro. Un ragazzo mi parla, io rispondo, ma non capisco cosa dice. Lui mi guarda a un metro di distanza. Quando mi tocca è solo per trascinarmi nel verme metallico e farmi sedere. Non capisco più niente. Però mi sento bene: non mi sento più invisibile, non mi sento più e basta. Non sono niente ora.
Altro battito. Sono nel bagno di casa a vomitare. Ho il sapore del vino rosso sulle labbra. Mentre la stanza gira io mi arrampico nel letto e allora salgono su tutte le lacrime. Sciolgono quel po’ di alcol rimasto in circolo e corrono in gola come un rigurgito.
Le ingoio tutte, insieme alle parole che vorrei ma non so pronunciare. La lascio mescolarsi alle risate che avrei voluto condividere, alle frasi che avrei voluto dire, alle emozioni che avrei voluto provare, agli istinti che avrei voluto seguire. Le lascio cuocere al calore della me stessa repressa e sepolta sotto strati di ghiaccio inquieto, dimenticandomi ancora una volta come si fa per tirarle fuori.
Penso che non ci riuscirò mai.
E allora chiudo gli occhi. Questa volta, per non riaprirli più. 
  
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