Ciao adorabile fandom!
Perdonatemi per tutto questo. Mi manca poco per sfogarmi completamente.
Nel
frattempo, ahimè, temo che dovrete sopportarmi!
Sperando in bene (e augurandomi di non avervi spaventato, eh!) vi
auguro buona
lettura!
S.
Something of
you
*
[…]“Ormai
non l’ho più, è vero, ma
forse l’amo ancora.
E’ così
breve l’amore e così lungo
l’oblio.
E siccome in notti come questa
l’ho
tenuta tra le braccia,
la mia anima non si rassegna
d’averla
persa.”
-P. Neruda
Sembra ipnotizzato dalle lievi increspature sulla superficie ambrata
del suo tè,
come se in ognuna di quelle piccole onde fosse scritto qualcosa,
qualcosa che
Sherlock vorrebbe assolutamente decifrare, ma senza successo.
Dopo qualche secondo sembra però non tollerarne
più la vista e distoglie lo
sguardo, avvicinando la tazza alle labbra e bevendone un sorso
minuscolo,
qualche goccia appena.
“Bevi. Ti sentirai meglio” Molly dice, come fa
solitamente. Non ci crede davvero,
ovviamente, ma è qualcosa che l’ha sempre rassicurata.
Sherlock, stranamente, non obietta, non dice assolutamente nulla.
Prende un
altro piccolo sorso e sospira, come impotente, come se non riuscisse a
fare
altro in quel momento.
“La ferita ti da ancora problemi?” la donna
domanda, sistemando le maniche del
maglioncino rosa antico che indossa quella sera. Sherlock non reagisce,
o
almeno non immediatamente: tutti i suoi movimenti sono lenti, placidi,
come al
rallentatore.
A Molly sembra di trovarsi davanti ad una vecchia cassetta dalla
pellicola
ormai consumata.
“Non importa” risponde finalmente il detective
toccandosi la spalla ferita e
reprimendo un mugolio di fastidio. “Non ci penso”.
Molly storce il naso, indispettita e piena di rancore. Non sono
sentimenti a
cui è abituata, affatto, ma non può fare a meno
di provarli, in quel momento.
Sa tutta la storia, e sa bene quello che Sherlock ha fatto, o meglio non ha fatto.
“Sei stato uno stupido Sherlock. Uno stupido
incosciente” si sorprende a dire,
e vorrebbe scappare, fuggire da quella stanza nei pochi secondi che
Sherlock
gli concede prima di guardarla sconvolto. Poco dopo però ci
ripensa, e non va
via. Rimane a guardarlo, perché è ciò
che pensa davvero, ciò che vuole. Non
c’è
spazio per la Molly timida e impacciata, adesso, ma solo per la donna
forte, soltanto
la buona amica.
Sherlock, come previsto, la guarda con occhi spalancati, sbalordito, le
labbra
leggermente socchiuse e apparentemente senza parole.
“Che cosa stai dicendo?”.
Molly posa la sua tazza sul tavolino di vetro e si siede di fronte a
Sherlock,
guardandolo decisa, severa, austera come il detective non
l’ha mai vista.
“Quello che hai fatto. Tuo fratello me l’ha
detto” la dottoressa fuga ogni
dubbio al detective.
Sherlock guarda altrove e beve un altro sorso dalla tazza ormai
semifredda,
stringendo la coppa di ceramica come se potesse dargli un sostegno,
come fosse
un appiglio per la salvezza da qualcosa
che nemmeno lui conosce.
“Mycroft non riesce mai a tenersi qualcosa per
sé” sibila, acido.
“Ha fatto bene, Sherlock. Da chi saresti dovuto andare,
altrimenti?” Molly lo
rimprovera. “Sei stato folle. Hai lasciato che
quell’uomo ti sparasse quando tu
eri armato e pronto a difenderti”.
Le mani di Sherlock tremano, a quelle parole. I suoi occhi sembrano
brillare,
come irrorati da un velo di lacrime che però scompare prima
ancora che Molly
potesse scorgerlo meglio. Gli occhi azzurri di Sherlock guardano il
vuoto
davanti a sé come se vi vedessero qualcosa, come se nello
spazio vuoto tra la
poltrona e il divano vi fossero immagini invisibili a chiunque tranne
lui.
“Volevo avere qualcosa di lui” Sherlock sussurra
infine, e Molly potrebbe dire
con certezza di non averlo mai sentito parlare in quel modo.
“Qualcosa che
rimanesse per sempre. Qualcosa che facesse tanto male quanto io ne sto
facendo
a lui”.
Molly resta in silenzio e non fa nulla, rimanendo immobile sulla sua
poltrona
ad ascoltare la malinconica quiete che pervade la stanza. Vorrebbe
scuoterlo,
urlare, gridargli che è un incosciente e uno stupido e uno
stronzo, ma non ci
riesce. Non riesce perché allo stesso tempo vorrebbe
stringerlo a sé e dirgli
che quello che ha fatto non ha bisogno di rimorsi o di rimpianti e che
se John
sapesse gli perdonerebbe ogni più piccolo momento.
Però, non fa nemmeno quello.
Non lo fa perché in fondo, non lo crede. Immaginandosi in
John, estraneo
all’intera situazione, lei non sa se gli concederebbe
un’altra possibilità.
“Ti fa male?” Molly poi domanda
ancora, anche se gliel’ha già chiesto nemmeno
dieci minuti prima. Vuole la
verità, solo quella.
Sherlock vuota la tazza di tè, finalmente, e tira un sospiro
stentato
accompagnato da un gemito di rassegnazione.
“Fa male” ammette.
Molly annuisce.
“Tanto?”.
“Tantissimo. Ogni giorno di più”
esclama, stringendo i denti e chiudendo gli
occhi, con un sibilo di pura sofferenza. “Ma è
stata la cosa più bella che
potesse capitarmi, Molly”.
La ragazza guarda altrove,
respingendo una lacrima capricciosa.
Lui non lo desidererebbe, vorrebbe
dire, ma sa però che anche quella sarebbe menzogna, soltanto
un’altra piccola,
sporca e dolce bugia per mascherare un'amara verità.
"Lascia che la
veda" propone la dottoressa, ma è consapevole che la
risposta del
detective non sarà quella sperata. Sherlock posa il palmo
sulla propria spalla,
e stringe. Molly può quasi immaginare la
scabrosità umida di sangue e mercurio
cromo sotto la pelle ruvida di quelle mani. Sherlock la custodisce, la
ripara
agli sguardi indiscreti come se quella fosse un tesoro inestimabile,
una perla
rara, un gioiello prezioso da preservare.
"No. Deve far male,
Molly. Voglio che lo faccia" sussurra. “Che continui per
sempre”.
Molly scioglie la coda di
cavallo che le raccoglie i capelli, in preda ad un furioso e
martellante mal di
testa. Stringe le tempie con le mani, tentando di scacciarlo e di
pensare
razionalmente. Non sa cosa fare, è combattuta.
Vinta.
Vorrebbe che Sherlock
smettesse di soffrire, desidererebbe onorare il suo giuramento di
Ippocrate e
mettere fine a quel dolore masochista, ma sa che Sherlock starebbe
più male di
quanto già non stia e non può fare a meno di
pensare a quanto si sentirebbe
ancora più in colpa, colma di mille rimorsi.
Molly getta la spugna, fisicamente
spossata. Non combatte più.
"Va a letto,
Sherlock" Molly lo esorta, senza guardarlo. "Concedimi almeno questo.
Riposa" il tono di voce con cui lo chiede lo sente quasi estraneo a se
stessa. È lamentoso, supplichevole.
Sherlock incrocia gli
occhi scuri della donna e un angolo delle labbra si piega leggermente,
ma è
solo un lampo. Fugace quanto un fulmine in una notte tempestosa che
volge alla
fine.
Il detective non pronuncia
un’altra parola, quella sera. Dopo la preghiera di Molly, si
solleva, con
fatica evidente, e si avvicina a lei a passo lento e traballante come
in una
danza sconosciuta.
Allunga una mano verso
Molly e le sfiora una guancia con la punta delle dita, un lieve e quasi
impercettibile tocco pelle contro pelle. I polpastrelli di Sherlock
sono freddi
mentre la guancia di Molly è calda, rossa d'emozione.
Sherlock si allontana
subito dopo, salendo le scale e chiudendosi nella stanza che la donna
gli ha
preparato poco prima.
La dottoressa si sfiora il
volto, nell'esatto punto in cui la mano di Sherlock l'ha accarezzata.
E' freddo
adesso, come quelle mani, come se lui avesse trasmesso in lei quel
gelo.
L'unica cosa che Molly spera è che il proprio perduto calore
adesso pervada
Sherlock. E nel caso non potesse essere per
sempre, anche soltanto per quella notte.
§
Molly è in un
tormentato
ed etereo oblio, quando un incessante bussare alla porta la ridesta sul
suo
giaciglio improvvisato. La ragazza si guarda intorno, cercando di
capire dove
si trovasse e dove fosse finita la sua familiare stanza da letto, prima
di
ricordare di essere sprofondata in un sonno inquieto sul divano neppure
due ore
prima.
Il bussare alla porta diventa sempre più forte, intenso come
una mandria di
belve feroci intente a grattare contro il legno solido
dell’ingresso, affamate.
Molly non vorrebbe aprire, ma allo stesso tempo è spaventata
da quello che
potrebbe succedere se non lo facesse. Aprendo lo spioncino, tutto
ciò che
riesce a vedere è una sottile zazzera di capelli biondo
sporco.
Le basta. Sa benissimo a chi appartiene e il cuore le sale in gola,
immobilizzandola sul posto all’istante.
“John” lei dice, senza poter frenare la lingua,
come se quella avesse volontà
propria.
“Molly” l’uomo dall’altro lato
della porta risponde con voce roca, persa,
innaturale. “Fammi entrare” la esorta.
Una cosa è chiara, chiarissima a Molly sin dalla prima
sillaba. Qualcosa non va. Qualcosa
decisamente
non va.
Apre la porta, non può lasciarlo fuori nonostante tutto e
spera vivamente che
Sherlock non decida di uscire e scendere proprio in quel momento. Vuole
fidarsi
del buon senso del detective, in quel momento più che mai.
Appena riesce a vederlo in
viso, Molly trattiene il respiro.
John non è John. Nemmeno
un po’,
neanche lontanamente.
E’ un’ombra. Un riflesso.
Un baluginio lontano di qualcuno conosciuto una volta di cui si
ricordano solo
vagamente le fattezze.
Gli crolla quasi fra le braccia quando entra, e Molly ha appena la
forza di
sostenerlo, spingendolo contro il muro e cercando di trattenere la
presa, per
evitare che si facesse male.
Il corpo dell’uomo è scosso, in preda ad un
tremore violento e spasmodico che
non trova spiegazione nella mente della donna.
“John, calmati” Molly dice, spaventata. Lancia allo
stesso tempo uno sguardo
verso le scale, pregando ancora, dentro di sé.
“John guardami, guardami!” lo
incita, stringendo la mascella del dottore tra le dita.
John respira pesantemente, madido di sudore freddo e con gli occhi
arrossati e
iniettati di sangue. Le pupille sono dilatate, un cerchio rosso scuro a
delimitare il sottile anello blu delle sue iridi e Molly può
sentire il suo
cuore battere a mille, talmente forte da sembrare che volesse uscire
dal suo
petto, aprendosi la strada con furia inaudita.
Molly posa una mano sul
petto dell’uomo, ignorando il sudore che inzuppa la maglietta
fine con cui ha
affrontato il freddo artico di quella notte, e cerca in tutti i modi di
calmarlo.
E’ spaventata davanti a qualcosa che non ha mai affrontato
prima, a una
situazione più grande di lei e per di più
riguardante un amico.
“Molly” John ripete ancora, afferrando una manica
del maglioncino della donna.
“Molly, io l’ho visto” sussurra.
Molly lo stringe a sé, senza capire, senza effettivamente
avere la forza di capire, ma non
indebolisce
la stretta, non lo lascia andare. John la stringe a sua volta, e la
dottoressa
può sentire lacrime calde inzuppare la lana intrecciata
sulla sua spalla, in
singhiozzi silenziosi.
“John, che hai fatto?” gli domanda, cullandolo a
sé, come se l’uomo tra le sue
braccia non avesse quarant’anni ma due, un bambino bisognoso
di cure e affetto.
Il cuore di John sembra sedare la sua frenesia quanto basta per
permettergli di
riaprire gli occhi e di rendere il suo respiro più regolare.
Non riesce
nuovamente a parlare ma tenta, vuole,
ha bisogno di farlo.
Un bisbiglio attira l’attenzione di Molly, che allenta la
presa sulle sue
spalle, accarezzandogli i capelli con dolcezza, per dirgli
silenziosamente che
è lì per lui, che vuole sapere, che è
pronta ad ascoltare qualunque cosa abbia
da dire.
“L’ho trovata” John sillaba, con fatica.
“L’ho trovata, e l’ho visto” la
voce
trema e non appartiene a John, o almeno, al John che Molly conosceva.
“Che cosa hai trovato, John?” Molly domanda, ma se
ne pente un secondo dopo. Non
è sicura di voler sapere, ma continuare a girare la testa
dall'altra parte
sarebbe come arrendersi. Lei vuole aiutarlo e deve sapere come.
John boccheggia, con un sorriso vuoto che non si addice ai suoi
lineamenti
dolci ed espressivi, tentando di articolare nuovamente una frase di
senso
compiuto.
“La sua scatola” John riesce a dire, con sforzo
quasi palpabile. “Quella che lui
teneva nascosta”.
La dottoressa lo lascia andare, il volto divenuto cereo
all’improvviso. La
forza sembra aver abbandonato ogni arto e ogni singolo frammento del
suo corpo,
lasciandola lì debole e vuota.
Deglutisce, tirando un respiro profondo, sperando dentro di
sé che non
intendesse quello che pensa, quello che in cuor suo già sa.
E’ una speranza
senza radici, e Molly ne è consapevole.
Un’illusione destinata a morire prima
ancora di nascere.
“Non dirmelo, John” Molly non vuole guardarlo, non
ha il coraggio di vedere
quell’uomo cadere a pezzi. “Dimmi che non lo hai
fatto davvero”.
John ride, e Molly può sentire una nota incredula in quella
risata falsa,
innaturale. E’ come se John non capisse, come se non
tollerasse la ritrosia e
la disapprovazione di Molly. Lei vorrebbe solo scappare, evadere da
tutto,
fuggire via da quella follia che la coinvolge ormai da troppo. Sta
raggiungendo
un punto di non ritorno, ormai.
“E’ stata la cosa migliore che potesse capitarmi,
Molly” lui scandisce ogni
parola come un bambino inesperto intento a sillabare la sua prima frase
complessa. Molly sente un brivido gelido attraversarle la schiena
quando si
accorge di quanto poco tempo prima ha udito la stessa identica frase da
un’altra
voce. Le medesime identiche parole.
“Sei pazzo, John. Sei
pazzo” Molly non può piangere, perché
John cerca un sostegno, un appiglio.
Stringe gli occhi e sfiora di nuovo i suoi capelli, con delicatezza.
“Lo so” John dice, ancora sorridendo. Molly sa che
è solo una maschera. “Ma
l’ho visto, Molly”.
La donna scuote la testa con vigore.
“E’ solo finzione, John” si costringe a
dire, anche se ogni parola fa male come
una lama che scalfisce la pelle prima di affondare. “Sai che
è così”.
No no no no l’altra donna
dentro di
sé sta dicendo, gridando, urlando a squarciagola senza poter
trovare sfogo al
di fuori di quel guscio. Lui è
vivo, è di
sopra e vuole vederti e si sente come te, muore dentro lentamente per
amor tuo
esattamente come stai facendo tu.
“Non m’importa” John si solleva contro il
muro, le mani a stringersi
convulsamente le ginocchia rannicchiate contro il petto. “Per
un secondo io
l’ho visto, e questo mi basta”.
Molly non risponde e corre
in cucina, a prendere un bicchiere d’acqua fredda. Tornando
dal dottore,
s’inginocchia nuovamente davanti a lui e posa il vetro freddo
sulla sua fronte,
tentando di donargli un po’ di refrigerio. John mugola,
tirando un profondo
sospiro di sollievo.
“Ti stai solo facendo del male” Molly è
nuovamente insofferente e infuriata,
per la seconda volta in appena tre ore. Non si è mai sentita
tanto impotente e
piena di astio e risentimento come in quella notte. “Stai
solo cercando di
distruggerti con le tue stesse mani. Cosa sarebbe successo se non fossi
venuto
da me?”.
A quella frase John ride
ancora, trovandola chissà per quale motivo incredibilmente
divertente. Poi
scuote la testa, guardando Molly con viva compassione negli occhi,
occhi che
sembrano quasi commiserarla, dicendole silenziosamente: povera
ignara ragazzina.
“Mi ha detto lui di venire da te” John dice, e
sembra perdersi in ricordi
nemmeno troppo lontani, per un secondo. “Lui ha voluto che lo
vedessi e allo
stesso tempo ha fatto sì che potessi salvarmi”.
Molly gli porge il bicchiere,
scuotendo la testa, assordata dal battito incessante del proprio
cuore, questa volta. Guarda John bere avidamente, piccole
goccioline d’acqua fredda che scivolano sulla pelle bollente,
dandogli
sollievo.
“John, perché credi ancora?”¹
la donna sente se stessa chiedergli, senza poter
bloccare prima la propria voce.
John trema, le mani sul pavimento ai lati dei suoi fianchi, ferme e
salde.
“Perché devo. Perché è
l’unica cosa che mi resta” bisbiglia. “E
non voglio
rassegnarmi a non vederlo mai più”.
La donna gli prende una mano nella sua e la stringe. E’ con
lui, anche se non
approva. Gli vuole bene, tiene a lui come a pochi, pochissimi altri.
“Lo hai fatto per questo?”.
“Sì. Volevo sentire, vedere come lui
vedeva…prima” è la sua risposta
sincera. “Volevo avere qualcosa di
lui”.
E’ il colpo di grazia, per
Molly. Ha sopportato il dolore e l’enorme significato che
quella frase porta
con sé già una volta quella sera e non
può quasi credere di essere riuscita ad
incassare nuovamente un colpo simile senza crollare miseramente. Forse,
è più
forte di quanto si sia mai reputata; forse, ha sempre avuto troppa poca
fiducia
in se stessa.
“Non ne vale la pena. Non… non tutto
questo” la ragazza sfiora il viso di John,
asciugando una lacrima sfuggita al controllo del dottore.
“Non a questo
prezzo”.
John scuote il capo, convinto, assolutamente certo. Glielo si legge
negli
occhi, nelle linee sempre più marcate del viso, nella piega
sottile delle
labbra rosee. Molly vorrebbe baciarle in quel momento, ma non per fini
egoistici, assolutamente no. Vorrebbe catturare quella sensazione sulle
sue
labbra, carpire la morbidezza setosa di quella bocca e concederla
all’uomo che
adesso dorme nella sua stanza degli ospiti, per donargli sollievo dalla
sua
pena. E lo stesso farebbe con John, senza nessuna esitazione.
“Vale la pena, Molly” l’uomo risponde.
“Vale ogni piccolo attimo di sofferenza.
Ogni minuscola sensazione”.
John crolla lungo il muro,
esausto dopo quell’ultima, inaspettata e per niente
convenzionale,
dichiarazione d’amore.
Molly s’impone di non singhiozzare e solleva John con quanta
più forza riesce a
trovare, combattendo contro il peso morto del corpo semi cosciente del
dottore.
Piano piano si dirigono verso le scale, che John sale con lentezza
esasperante
e con le gambe pesanti quanto macigni, e a Molly quella scalinata non
è mai
sembrata tanto lunga e ripida.
Una volta arrivati al
pianerottolo delle stanze da letto, John apre gli occhi, sbattendo
più volte le
palpebre per mettere bene a fuoco il corridoio, riprendendo piena
lucidità per
qualche minuto.
Il dottore poi si guarda
intorno con attenzione, studiando
l’ambiente intorno a sé, come se avesse percepito
qualcosa, come se avesse
sentito una forza irrefrenabile
attirarlo.
Con sommo terrore, Molly lo vede abbandonare il sostegno delle sue
braccia per
dirigersi verso la stanza degli ospiti, ancora –grazie al
Cielo-, chiusa
saldamente. Molly vorrebbe correre verso di lui per fermarlo, con una
scusa
qualsiasi, ma ha paura che John possa sospettare, intravedendo un
barlume di
verità in quella coltre di bugie con cui Molly è costretta ad obliarlo.
Una parola, Molly non ricorda neppure quale, gli si ferma in gola,
inespressa.
Forse, dentro di sé, Molly è davvero al limite e
vuole solo che tutto abbia
fine, che John abbassi la maniglia d’ottone di quella stanza
e veda finalmente
il segreto che essa custodisce quella notte. Si sente in colpa a
negarglielo
ancora. Si sente un’ignobile ladra che nasconde la preziosa
refurtiva al suo
legittimo proprietario.
“E’…strano” John sussurra,
reggendosi allo stipite della porta. Il legno cigola
sotto la sua mano.
“Che cosa è strano?” la dottoressa
domanda, esitante. Non c’è modo che capisca,
salvo che Sherlock non faccia capolino dalla stanza in quel momento.
John non può sapere.
E’ impossibile e lei lo
sa, ma questo non basta a tranquillizzarla del tutto.
John sfiora il legno grezzo e striato di venature chiare, osservandolo
intensamente come se cercasse di guardare attraverso la porta, dentro
l’oscurità
della stanza. La mano si sposta al centro della porta, quasi
accarezzandola,
con dolcezza infinita. Molly ricorda una volta, l’unica,
in cui aveva visto John compiere lo stesso gesto, tempo
prima.
Era successo di sera al Barts, quasi notte, dopo un inseguimento folle
di un
killer o un ladro, Molly non ricorda bene.
Sherlock era crollato su una delle vecchie sedie della sala
d’aspetto e John
aveva chiesto a Molly di portargli qualcosa di caldo. Quando la ragazza
era
tornata, con una scodella di minestra della mensa in mano, aveva
esitato ad
annunciare la propria presenza davanti alla scena che si era trovata
davanti.
John era vicino a Sherlock, inginocchiato di fronte a lui con uno
sguardo che
tradiva tutta la sua enorme preoccupazione per la salute del detective.
La sua
mano destra era posata sul cuore del suo migliore amico, come se
necessitasse
di una prova tangibile che tutto fosse finito, che tutto fosse andato
per il
meglio. Come se sentirgli il polso non fosse abbastanza, come se gli
occhi
attenti e le rassicurazioni di Sherlock non gli fossero bastati. Come
se avesse
bisogno di percepirlo con le sue stesse mani, con il suo stesso cuore.
John ha la stessa identica espressione sul volto, in quel momento a
casa di
Molly. Non ha ancora risposto alla sua domanda, e la donna comincia a
pensare
che non l’abbia neppure udita.
“Mi è sembrato…” John
esordisce infine, senza distogliere lo sguardo. “Mi
è
sembrato di sentire il suo…” non conclude la
frase, non ci riesce, e scuote il
capo con rassegnazione. Torna da Molly, che bianca come un cencio gli
prende la
mano, aprendo la porta della propria stanza.
John non ha più finito la frase e la patologa, in fondo,
è contenta così. Non
può permettersi errori, non adesso, non quando tutto
è finalmente ad un passo dalla
soluzione definitiva. Arriverà il momento in cui John
avrà il diritto di
sapere, ma non quel giorno, non in quella notte fredda di settembre.
Il dottore crolla sul materasso ancora coperto dalla trapunta, ma Molly
non ha
cuore di dirgli di sollevarsi per poterlo sistemare. Afferra un vecchio
plaid
dall’armadio e rimane per un secondo a fissare la carta da
parati color pesco,
pensando al da farsi, prima di tornare al letto e rimboccare la coperta
fino al
mento di John.
Il dottore sospira ma è inquieto e Molly lo vede, lo
percepisce chiaramente,
come se il suo disagio si potesse toccare, come se
l’inquietudine del dottore
fosse solida e materiale.
“Molly” dice, improvvisamente. Il cuore della donna
le balza nel petto.
“John”.
“Ho sentito il suo
respiro” John dice, le labbra tremanti e gli occhi fissi al
soffitto.
Probabilmente crede di essere diventato pazzo o, cosa più
plausibile e
veritiera, che la cocaina non abbia ancora smaltito i suoi effetti.
Molly cerca
in tutti i modi di controllarsi, di fare la vaga, di incoraggiarlo a
riposare e
dimenticare.
“Stai tranquillo” Molly dice, ignorando il groppo
in gola che quasi gli
inibisce la parola. “Dormi, domani andrà
meglio” lo incoraggia, sforzandosi di
sorridere.
John però, non sembra intenzionato a darle retta.
“L’ho sentito” afferma di nuovo.
“Era il suo. Io lo conosco. Lo riconoscerei
tra mille”.
Molly guarda altrove,
verso la porta per di più. Non può rischiare.
“E’ solo un effetto collaterale” esclama.
“Solo un’altra bugia”.
La bugiarda è lei, e questo fa male, ma non può
dirgli altro. Non le è
permesso. John chiude gli occhi e le volta le spalle, affondando la
faccia nel
cuscino e stringendolo fin quasi a lacerare la stoffa con le sue sole
unghie.
Molly poggia esitante una mano sulla sua spalla, per confortarlo.
E’ un gesto
ipocrita, schifosamente falso ma non può farne a meno. John
poi sposta
leggermente il viso per poterla guardare negli occhi, per porle un
ultima, fondamentale
domanda.
Molly ne è spaventata.
“Giuralo, Molly” il dottore le dice,
inaspettatamente. La carezza di Molly si
blocca e lei è come pietrificata.
“Che cosa, John?”.
“Giurami che Sherlock non è in quella
stanza” la esorta, mettendola con le
spalle al muro. Gli occhi di Molly sono spalancati adesso, e le sue
labbra
corrucciate in una smorfia di panico e impotenza.
John la fissa, non distoglie gli occhi dai suoi nemmeno per chiudere le
palpebre, carpendo ogni piccola sfumatura delle emozioni che in quel
momento si
rincorrono folli sul viso della donna.
Molly si morde un labbro,
facendolo sanguinare e tentando di trovare in quel dolore qualcosa che
la
distragga da quello che sta succedendo nella sua testa. Deve trovare il
coraggio
di rispondere: non può agire altrimenti, anche se
è l’ultima cosa che vorrebbe
fare.
“Te lo giuro” sussurra, infine. “Su
quanto ho di più caro al mondo”.
John abbassa lo sguardo, perso in qualcosa che Molly non riesce a
comprendere.
“Sherlock è morto” dice ancora, per
fugare ogni dubbio, per cancellare ogni più
piccola incertezza nella mente di John. “Non
tornerà da me come non tornerà mai
più da te”.
Tanti piccoli coltelli sembrano assalirla nell’esatto momento
in cui l’ultima
sillaba di quella frase lascia la sua bocca. Lame affilate come rasoi
che
lambiscono ogni parte scoperta di lei, facendola sanguinare, ma di un
sangue
invisibile a chiunque altro a parte se stessa.
John annuisce, chinando il capo e chiudendo gli occhi.
Lui le crede, e quello fa ancora più male. Ha fiducia in
lei, fiducia che lei continua
a tradire sin dal giorno della caduta, sin dalle prime luci
dell’alba di quel
mattino di giugno che lei maledice e sempre maledirà.
“Aiutami, Molly” John
sussurra, senza altri dubbi, senza nessun’altra domanda a
riguardo. “Aiutami”.
“Sono qui. Non vado via” gli dice, mentre lo guarda
scivolare in un sonno
profondo, soccombendo al dolore, alla stanchezza e alla falsa
felicità che
ancora scorre nelle sue vene. Spera che non sogni, Molly. Spera che
almeno fino
al mattino dopo la vita lo sollevi da quel macigno che grava sulle sue
spalle e
sul suo cuore.
Si volta verso la porta, senza sapere perché, ormai libera
dal pensiero che
l’uomo nella stanza accanto possa scoprire la presenza di
John prima che lei lo
avvisi di stare attento. Sussulta con sorpresa, ma forse nemmeno tanta, stringendo la coperta sulla quale
e seduta quando sull’uscio della stanza intravede gli occhi
azzurri e luminosi di
Sherlock, la cui attenzione, però, non è affatto
concentrata su di lei.
Sherlock guarda John come se non desiderasse altro che spalancare la
porta fino
a scardinarla e insinuarsi lentamente nel letto accanto a lui,
baciandolo e
stringendolo con tutta la forza e la dolcezza repressa per tutto quel
tempo,
senza mai lasciarlo andare. Allo stesso tempo, e quel disappunto
è palese sul
viso del detective, è combattuto, arrabbiato, infuriato con
se stesso per non
poterlo fare.
Alla fine sposta lo sguardo su Molly, che gli sorride appena,
dolcemente, per
fargli capire che sa quello che prova e che gli è vicina
più di quanto lui
creda.
Il detective abbassa gli occhi e non ricambia il sorriso, infilandosi
nel suo
cappotto scuro con un fruscio leggero, il respiro pesante e affaticato
udibile
sin dall’altro lato della stanza.
Non dice una parola prima
di scivolare via dalla vista della donna, scendendo velocemente le
scale fino
all’anticamera dell’ingresso, ma Molly non sente il
bisogno di altre parole, in
quel momento.
Gli basta il lieve luccichio di una lacrima sulla guancia di Sherlock,
che quella
volta ha visto chiaramente e che probabilmente non vedrà mai più.
Molly si affaccia dalla
scalinata, attenta a non far rumore e Sherlock si ferma sulla porta,
lanciandole un’ultima occhiata fugace.
“Prenditi cura di lui”
sussurra
piano, appena muovendo le labbra. Per Molly però, quel
bisbiglio è chiaro
quanto un grido che echeggia in una stanza vuota.
La porta si chiude con un rumore debole, soffocato, ma lei riesce a
sentire
ugualmente anche quello.
Non sa quando lo rivedrà.
Forse sarà tutto finito, la prossima volta.
Quando torna da John, il
suo respiro lento e profondo è l’unico rumore che
adesso pervade l’atmosfera della
stanza e dell’intero appartamento.
Molly si sdraia accanto a John, ma non ha secondi fini, neppure uno,
nemmeno
un’ombra.
Lo stringe a sé con affetto, con un amore profondo che si
ferma però all’amicizia,
impossibilitato a varcare confini già delimitati da qualcuno
che lo ama più di
quanto lei sarebbe umanamente capace.
Chiude gli occhi e affonda il viso nell’incavo della spalla
di John, respirando
l’odore pungente della sua pelle e desiderando con tutto il
cuore, dentro di
sé, che lui possa perdonarla quando saprà.
Molly prega.
Molly spera. Con tutto il cuore.