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Autore: Sophie Isabella Nikolaevna    15/11/2012    1 recensioni
[Fandom: Iliade, Omero]
Atena Glaucopide, la dea dagli occhi azzurri. Il Pelide Achille, eroe fra gli eroi. Un incontro avvenuto per caso e un legame che ben presto, nonostante i divieti e le insidie della guerra, diventerà indispensabile per entrambi, tessendo dietro all'Iliade che tutti conosciamo una rete di segreti. Il cuore solitario di una dea racconterà ciò che per anni ha tenuto segreto: la storia di un amore sofferto, di una guerra in bilico, di un eroe spietato e insieme magnanimo, una seconda Iliade che nessuno ha mai letto.
Genere: Drammatico, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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GLAUKOPIS 




CAPITOLO 1

Sono passati anni, tanti anni, dall'ultima volta in cui ho messo piede in questo luogo. Tanti anni, ma non abbastanza da farmi dimenticare di quello che è successo.
La piana è deserta, tutto ciò che i miei piedi calpestano è terra chiara mista a sabbia ocra. Il vento fa volare la polvere tutto intorno a me e mi scompiglia i capelli, che la mia complicata acconciatura non riesce a trattenere. Briciole di pulviscolo mi entrano negli occhi, facendoli lacrimare. O forse sto piangendo veramente, non è colpa del vento.
Alla mia sinistra si estende il mare, una distesa del blu più vero che abbia mai visto. E' un pozzo profondo, una coperta finemente tessuta, un cielo notturno sceso in terra per riposare.

Alla mia destra, invece, le rovine. I resti delle mura, squarciate un po' dal tempo e un po' da quella guerra tanto lontana, e oltre le mura, macerie di abitazioni ancora annerite. Lo scheletro del Cavallo, invece, non c'è più. Deve essersi distrutto con lo scorrere degli anni, con le piogge e con i fulmini di mio padre.
Mio padre. Mi guardo intorno preoccupata. Non c'è nessuno, ma so che lui sa che mi trovo qui. Come potrebbe non saperlo? Oltre ad essere il più potente degli dei, è anche mio padre. Sa di sicuro delle lacrime che, ancora una volta dopo tanti anni, mi solcano le guance.
In me non è cambiato nulla da allora. Sono rimasta la stessa. Sono una dea, e gli dei non invecchiano come gli uomini, non con la loro rapidità. Quanti anni sono passati? Due, cinque, sette? Potrebbe non esserne passato nessuno. Solo guardandomi intorno intuisco che di tempo ne è passato.
Ma così come non è cambiato il mio aspetto, non è cambiato quello che provo, né il ricordo di quello che ho provato, in questo luogo, tempo fa.
Non è cambiato il mio ricordo dell'incontro con quell'uomo, e di tutto quello che tale incontro ha comportato.
Mi infilo l'elmo che tengo sottobraccio e mi dirigo verso le mura diroccate, e mi sembra ancora di vedere quell'esercito potente come un'onda del mare, e di sentire ancora quegli schiamazzi agitare la piana di Troia.


La prima volta in cui lo vidi, la guerra era appena iniziata.
Il mare color notte era invaso dalle navi. Migliaia di navi. Navi dalle vele colorate, sparpagliate come stelle. Miriadi di guerrieri, schiavi e schiave si riversavano sulla spiaggia di sabbia e terriccio. Ognuno proveniva da un diverso luogo, infinite culture si stavano fondendo in un trepidante marasma.
Ero scesa alla piana di Troia con Artemide e Afrodite, per vedere come procedeva l'arrivo degli Achei a Ilio. Mentre loro erano entusiaste, io, pur nella mia curiosità, non ero serena. Ritenevo quella una guerra giusta, ma futile. Una guerra per una donna, offerta a quel tale, quel Paride, da Afrodite. Una guerra che avrebbe potuto essere evitata. Ero la dea della guerra combattuta per nobili cause. Il dio della violenza era quel megalomane di Ares, io mi occupavo solo ciò che era combattuto giustamente. Ero, però, anche la dea della saggezza, e la mia mente mi diceva che, per quanto giusta, era una guerra inutile. Per la prima volta ero divisa, combattuta.
Ero una dea, non un'umana, eppure mi comportavo come una di loro.
"Non possiamo restare qui", riflettei ad alta voce. "'E' meglio tornare da nostro padre".
"Non ci penso nemmeno", cinguettò Afrodite. "A Troia c'è mio figlio Enea. Suo padre è Anchise, ve ne ho parlato, quando...".
"Efesto, Ares, poi questo mortale, Anchise... ti ricordo che sei tu stessa la causa di questa guerra, Afrodite".
"Artemide, se non vuoi stare qua puoi tranquillamente tornartene all'Olimpo. E tu Atena, se vuoi, puoi andare con lei. Io ho intenzione di assumere le sembianze di una schiava, entrare a Troia e salutare mio figlio".
Ciò detto, in un attimo Afrodite si tramutò in una ragazza dagli abiti poveri e poco appariscenti tipici di una schiava, e sparì in mezzo alla folla. Era così minuta e veloce che in attimo la perdemmo di vista.
"Non rischia di essere catturata dagli Achei?", domandò Artemide, un poco preoccupata, osservando sei enormi guerrieri poco lontani da noi che scaricavano da una nave un pesante ariete di legno.
"No", la rassicurai. "E' abbastanza veloce e poco appariscente da non essere notata. E inoltre, è una dea, come noi".
Restammo in silenzio per qualche secondo, ad osservare il viavai di armi e soldati.
"Io la seguo", affermò. "Anche se di certo non andrò a rimirare i guerrieri: voglio vedere Troia. Là sono molto devoti al culto di Artemide dea della caccia. Vieni anche tu?".
Artemide si voltò a guardarmi interrogativamente.
Osservai le alte mura di Troia, mura che sembravano inoppugnabili, stagliarsi illuminate contro il cielo terso. Il Sole ardeva senza pietà, quel giorno. Poi il mio sguardo passò alla moltitudine di soldati Achei. Principi e re, ognuno con la propria nave dalla vela colorata, venuti a combattere per una donna.
"No", le risposi, mantenendo fisso lo sguardo sugli Achei, "io resto qui, sulla spiaggia".
Mentre Artemide si allontanava, anche io assunsi le sembianze di una schiava: ma non di una schiava Troiana, bensì una proveniente dalla Grecia. Feci il mio gesto abituale di calarmi l'elmo sul viso, ma restai a mani vuote: non avevo più l'elmo, solo capelli castani, ben diversi dalla mia veri chioma color dell'ebano.
Mi avvicinai alla folla, pronta ad inoltrarmici.
Ed ecco, ero dentro. Le persone mi sorpassavano, mi urtavano, mi vedevano ma non mi osservavano. Potevo spiare senza essere spiata.
Sentii un richiamo nell'aria. In lontananza volava una civetta. Sospirai. Una civetta che volava in pieno giorno non era normale, i guerrieri avrebbero subito capito che Atena si era nascosta tra la folla. Feci un'impercettibile gesto con la testa, invitandola ad allontanarsi.
La mia attenzione fu attratta da una coppia di uomini accanto ad una tenda che discutevano con, apparentemente, enorme trasporto. Non stavano litigando, come avevo pensato in un primo momento. Stavano parlando di spedizioni militari, e uno dei due faceva proposte all'altro, con il tono di chi non può aspettare un minuto di più. Spedizioni militari. Mi avvicinai, cercando di non essere notata. Era sempre così: ogni volta che si trattava di guerre e battaglie, sentivo un fremito percorrermi da capo a piedi, ed ero attratta inevitabilmente dal discorso, o dalle armi, o da qualsiasi cosa fosse. Gli scintillii al Sole degli scudi erano tutti per me, quando li vedevo sembravano quasi chiamarmi. Parole come "spedizione", "armata" e "lancia" avevano un suono che incantava il mio udito, come una musica che conquista lo spirito.
Li osservai. Uno dei due era più basso e meno appariscente dell'altro, parlava con un tono di voce più pacato e sembrava più tendente alla bontà e alla gentilezza. L'altro invece si esprimeva con gesti forti e decisi. Era più muscoloso e alto dell'amico, la voce più possente, maggiore l'inclinazione alla guerra e alla violenza. Però, erano entrambi biondi e bellissimi. I loro capelli sembravano pagliuzze d'oro, che risplendevano come infuocate al Sole della terra di Ilio.
"Dobbiamo essere soltanto noi Mirmidoni", stava dicendo quello più alto al compagno, gesticolando freneticamente. "Altrimenti la cosa non riuscirà. Per abbattere le difese esterne della città bastano pochi soldati, mobilitare l'intero esercito significherebbe...".
"Lo so, lo so!", esclamò l'altro ridendo. "Tranquillo. Me lo hai già detto. Ora, piuttosto, vai a recuperare il resto della tua roba, l'hai lasciata quasi tutta sulla nave".
"Ora non posso", rifletté il primo. "Ho altro a cui pensare, devo parlare con Agamennone di una faccenda, e poi mettere a posto gli oggetti che ho già scaricato".
"Allora andrò io a prenderla, se vuoi".
Il guerriero guardo l'altro sorridendo.
"Grazie. Sei un amico".
"Di niente. Sono solo felice di poterti fare un favore".
Nei pochi secondo in cui rimasero a fissarsi, potei notare che, nonostante le maggiori altezza e virtù fisiche, il guerriero che aveva parlato di spedizioni militari sembrava il più giovane fra i due. Si notava in lui una certa impulsività a cui l'altro sembrava essere superiore, come chi ha più anni di esperienza - o forse, semplicemente, erano due persone molto diverse. Diverse ma profondamente, inscindibilmente legate. Lo si intuiva dal sorriso impresso sui volti di entrambi nei pochi istanti in cui si guardarono negli occhi. Mentre quello più basso aveva sorriso per tutto il tempo, l'altro l'aveva fatto solo in quel momento. Ma in quel sorriso c'erano tutta la sincerità e tutto l'affetto di un vero amico, quasi di un fratello.
Si separarono. Uno si diresse verso il mare, l'altro sparì in direzione delle mura. Davanti a me era rimasta solo la tenda, immaginai appartenente ad uno dei due.
Vinta dalla curiosità e dal desiderio di saperne di più su quei due amici dai capelli d'oro, vi entrai.
C'era un ricco giaciglio addossato alla parete in fondo, e il resto del pavimento era cosparso di sacche di tela piene di qualcosa. Il guerriero proprietario della tenda evidentemente non era ancora riuscito a mettere ordine. Mi chinai, tentata di sbirciare il contenuto di una delle sacche. Un pensiero mi attraversò la mente come un lampo di quelli di mio padre: mi stavo comportando esattamente come Afrodite. Un'impicciona irrispettosa. Ero la dea della saggezza. Ma ero anche la dea della guerra, e probabilmente alcune di quelle sacche contenevano armi. Al solo pensiero di slacciare l'apertura della tela e ritrovarmi fra le mani del ferro scintillante, non resistetti.
Proprio come avevo immaginato, il baluginare del riflesso del Sole che filtrava dalla tenda sul ferro mi rapì. Un attimo dopo, però, mi accorsi che ciò che riluceva non era ferro bensì rame, e che non si trattava di un'arma bensì di una statuetta di un dio. La presi in mano: rappresentava una dea che portava, sopra la veste, un'armatura. In mano teneva un'alta lancia e in testa un elmo, su cui era posata una civetta.
Era una statuetta di Atena, una mia statuetta.
"Chi sei? Cosa ci fai qui?".
Una voce possente mi fece sobbalzare, e la statuetta mi cadde di mano. Era entrato il guerriero più alto e muscoloso, che ora mi fissava con gli occhi azzurri che rilucevano d'ira.
"Chi sei? Come osi entrare nella mia tenda e frugare nelle mie cose?", gridò. Mi si avvicinò a grandi passi e mi prese per le spalle, prima che potessi compiere qualsiasi gesto. "Rispondi! Che cosa stavi rubando?!".
La soluzione era una sola. Chiusi gli occhi, e un attimo dopo sentii nuovamente il peso dell'elmo sulla mia testa. Immediatamente, le sue mani lasciarono le mie spalle, ora ricoperte da veli pregiati e non più di abiti da schiava.
"Perdonami, mia signora... io non sapevo...", iniziò.
"Chi sei, guerriero?", domandai, interrompendolo.
"Sono Achille figlio di Peleo, re dei Mirmidoni", disse guardandomi negli occhi.
Achille.
Dunque, finalmente incontravo il Pelide Achille, il semidio figlio di Teti, di cui avevo tanto sentito parlare. Il bel guerriero forte e biondo che nessuno aveva mai sconfitto.
L'invulnerabile, l'eroe. Fra tutti i soldati Achei che erano giunti a Troia, ero capitata proprio nella sua tenda. Sosteneva il mio sguardo con una luce negli occhi, al contrario di come avrebbe fatto la maggior parte della gente davanti ad un dio. Ma la sua non era sfrontatezza: leggevo in lui un profondo rispetto verso di me, una devozione. Non mi guardava negli occhi per affrontarmi, ma per comunicarmi in modo diretto la propria ammirazione. Un modo di comunicare che mi toccò molto più profondità di quanto avessero mai fatto inchini e inginocchiamenti.
Lo sguardo che si addice ad un eroe, sicuro di sé ma mai empio e sfrontato. Da qualche parte, mi colpì.
Un tuono rombò, lontano. Vi sentii un richiamo. Mio padre.
"Achille Pelide, re ed eroe dei Mirmidoni, è stato un onore conoscerti", dissi restituendogli la statuetta. "Tornerò presto da voi Achei. Potrete contare sulla mia protezione".
Mi diressi verso l'uscita e mi fermai sulla soglia della tenda. Il cielo si era improvvisamente rannuvolato, e i fulmini lo illuminavano esattamente sopra di me.
"Aspetta, figlia di Zeus Egioco. Ho bisogni di parlarti di questa guerra".
Mi voltai a guardarlo. I suoi occhi, ora che il Sole se ne era andato, erano diventati dello stesso colore del cielo nuvoloso.
"Non posso, ma tornerò presto".
"Ti aspetterò presto, dea dall'occhio azzurro".
Guardai un'ultima volta l'eroe di cui avevo tanto sentito parlare, e poi me ne andai in tutta fretta, ignara di quello che si era appena scatenato, pensando che i miei occhi erano dello stesso colore dei suoi.



NOTE:
L'idea di questa fiction mi è venuta da un sogno che ho fatto, e ci tenevo a metterla per iscritto perché secondo me come storia può funzionare. Ci sto provando ad essere fedele all'Iliade, alla cultura della Grecia arcaica, al loro modo di pensare e comportarsi, alle loro idee e alla caratterizzazione dei personaggi omerici, e quindi a restare In Character. Ci sto provando. Il risultato è un altro paio di maniche, ma GIURO che ci sto provando. Ovviamente, alcuni particolari sono un po' diversi da quelli omerici, ma se non lo fossero, non sarebbe la mia storia ma una fotocopia dell'Iliade. Per qualsiasi critica, consiglio e qualche eventuale complimento a caso, ma proprio a caso, scrivete una recensione! Vorrei tanto sapere cosa ne pensate.



   
 
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