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Autore: Unicorno Peloso    15/11/2012    31 recensioni
Storia interattiva scritta a quattro mani da gattapelosa Niallsunicorn.
Essendo stata rimossa dall'amministrazione la prima stesura, abbiamo dovuto ri-pubblicare la storia.
Passate pure a leggere i nuovi capitoli dei quarantottesimi hunger games, e possa la buona sorte essere sempre a favore del vostro tributo preferito!
Genere: Avventura, Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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La via più facile e immediata per impazzire





La trasmissione si era appena conclusa, Claudius Tlempesmith aveva lasciato gli schermi.

Eleuthera si allontanò dal monitor con le mani strette a pugno librate al cielo, trionfale.

— Ce l’ho fatta, hai visto?
— Sei un genio.— le rispose Gaison— altro che elettricista.

— Sono solo un paio di giochini che qualunque buon maestro è in grado di insegnare giù, dalle mie parti, quando si manovrano spine e roba varia.

— Adesso non dobbiamo fare altro che aspettare.

— Non scendiamo?
— Non essere precipitosa. Ascolteremo tutto da qui. Lasciamo che se la vedano da soli.

Eleuthera sorrise.

 

 

La notizia del festino aveva mandato in crisi un po’ tutti, nell’Arena. Forse se Claudius non avesse assicurato la presenza di un oggetto tanto indispensabile alla sopravvivenza, molti avrebbero glissato elegantemente l’invito.

Invece c’era chi aveva paura. Elaine aveva paura: da sola e senza questo miracoloso oggetto, non avrebbe avuto chance di tornare.

Theia aveva paura perché, diciamolo, la cosa puzzava proprio, e lei se n’era resa conto. In compenso temeva il sadismo di certi strateghi, tanto da decidere comunque di assistere, ben nascosta.  

Larev e Miranda avevano paura perché feriti, ma ugualmente intenzionati ad accaparrarsi il premio. 

Quella più terrorizzata di tutti, comunque, era Carol: lei al festino non era assolutamente intenzionata ad andarci. C’era qualcosa sotto, qualcosa di terribile, ma se anche si fosse trattato di un banalissimo ritrovo di agguerriti tributi lei non sarebbe corsa in braccio alla morte così, di sana pianta.

Il problema, però, era quel troglodita montato del suo alleato: Bryan era seriamente intenzionato a partecipare, e ce la stava mettendo tutta per convincerla.

— Scordatelo! È esattamente il modo migliore per morire, quello!

— Non sto dicendo che voglio che tu venga, ci vado io.

— E cosa cambia? Sei il mio alleato: ti vorrei tutto intero. — Bryan sbuffò, raccattando l’ascia e rispecchiandosi sulla lama.

— Rilassati Biondina, vado, vinco e torno.

— Non chiamarmi Biondina! E torna con i piedi per terra, deficiente schizzato, che quelli, lì, ti fanno a fette. E non ci sarò io a proteggerti!

Carol stringeva i pungi e sbraitava, infuriata. Provava l’urgenza disperata di convincere quel mentecatto del suo alleato a rinunciare.

Ce la stava mettendo tutta, senza riflettere, così, d’impulso, ma niente: lui era irremovibile.

Forse se si fosse calmata sarebbe riuscita a convincerlo. Carol era la migliore, in questo.

In quel momento, però, era troppo agitata.

— Non ho bisogno di te per uccidere qualche avversario. — la voce si fece dura, pesante — Senza quell’oggetto, mi spieghi come faremo a vincere? Ne abbiamo bisogno! Io ci vado, punto, e non riuscirai a convincermi del contrario questa volta.

Carol, rossa di rabbia e con i pugni serrati, si voltò di scatto. Poi, con lentezza quasi snervante, si sedette sul pavimento, rivolta alla finestra.

— Bene— disse, senza guardarlo.— Va pure, ma ricorda che io ti avevo avvisato.

Bryan fece un paio di passi verso le scale, poi, sospirando, abbandonò lì l’ascia e tornò indietro. Raggiunse Carol da dietro, poggiandole una mano sulla spalla. Lei si voltò di scatto, stupita.

Lui le carezzò la nuca, passando lento una mano tra i capelli, sorridendole rassicurante.

— Tornerò, è una promessa.— ma lo sguardo di Carol non abbandonò il dolore, la tristezza e il rancore di una tale delusione. Anzi, indispettita si sottrasse nuovamente al suo tocco.

— Carol…— lei non si voltò. Allora Bryan avvicinò le labbra al suo orecchio, sfiorandole la pelle, lasciando scivolare la bocca un po’ più giù, quasi sul collo. Un braccio le cinse la vita, l’altro le carezzò una guancia, da dietro.

Carol spalancò gli occhi stupita, ma non si sottrasse. Le piaceva sentire le labbra di Bryan sfiorarle la pelle come in un delicatissimo bacio.

— Non ti abbandonerò, Carol— sussurrò, in una nota sofferente— Ma ti prego, ti prego, guardami e augurami buona fortuna.

Carol non si mosse.

— Per favore— tentò ancora. Bryan non se la sentiva di andarsene lasciando lì Carol così arrabbiata. Non voleva rischiare la morte col peso di un litigio in cuore, non voleva.

Ma Carol non si voltò, né disse alcunché. Lui aspettò ancora, aspettò finché il braccio non prese a formicolare, poi fu costretto a ritrarsi, lasciando libero l’esile corpicino della sua alleata.

Alzandosi riprese in mano l’arma, caricandosela sulle spalle.

— Perdonami Carol.— disse, così che lei potesse sentirlo— Ma devo farlo, è la nostra unica possibilità. Ti prego, non essere arrabbiata con me, non voglio che tu sia arrabbiata con me.

Siccome la ragazza persisteva nel suo macabro silenzio, Bryan fu costretto ad allontanarsi. E Carol pianse una lacrima densa di paura e tristezza.

 

Cinque minuti all’alba.

Bryan s’era nascosto nell’alimentare di Emma, Theia su per una scalinata, Elaine tra le fronde dell’albero, Luke e Sam dietro macerie, Larev e Miranda ai rispettivi opposti della sala, Alwyn nella farmacia. Erano lì, in fermento, nell’attendere.

Gli altri, sparsi per l’edificio, aguzzarono l’udito nella speranza di sentir rimbombare i cannoni dei nemici caduti.

Poi, col rischiararsi al primo accenno d’alba, uno zainetto, sulla cima della Cornucopia, prese a brillare. E fu guerra.

Elaine saltò giù dall’albero e prese a correre nella direzione della Cornucopia, sperando di non incappare in spiacevoli scontri. Invece, poco dopo, si ritrovò davanti un Alwyn terribilmente determinato armato di coltello.

Ci fu un terribile fragore di lame, quando i due nemici presero a combattere. Lei scartò di lato evitando il primo affondo, poi tentò un colpo che mozzò l’aria, quando Alwyn si scansò un’istante prima d’essere trucidato. Questo tentò di piantarle l’arma in mezzo al petto, ma il massimo in cui riuscì fu un leggero taglietto sulla spalla, quando Elaine si piegò sganciando un manrovescio che destabilizzò appena Alwyn sul posto quei due secondi necessari a tentare l’ennesimo affondo. Alwyn parò il colpo bloccandole il braccio e storcendo l’arto, Elaine gridò; subito, per far precipitare l’avversario, tentò di portare un piede dietro la gamba dell’altro in un maldestro sgambetto. Alwyn, preso di sorpresa, non cadde, ma allentò la preso quel tanto che bastava ad Elaine per scappare.

Quando il ragazzo stava giusto per riprendere anch’egli la corsa, si ritrovò contro Bryan armato di una tale ascia che i suoi coltelli non sarebbero mai stati in grado di reggere il confronto.

Mentre ancora era indeciso se tentare la sorte o scappare il più velocemente possibile verso la Cornucopia, l’attenzione di Bryan si spostò da Alwyn a Luke, il quale sembrava avere tutte le intenzioni di eliminarlo. I due ingaggiarono una terribile lotta ai limiti delle capacità umane, ascia contro spada.

Intanto Elaine, sfuggita alla furia di Alwyn, si ritrovò contro Miranda. Stava già iniziando a salire su per la Cornucopia, bagnata fradicia.

La Rossa aveva ben pensato di contrastare la scalata di Elaine cercando di piantarle un coltello nel collo, ma questa aveva finito solo col perdere l’equilibrio e precipitare in acqua.

Le due intrapresero una lotta sottomarina: senza nemmeno preoccuparsi di riprendere fiato, Miranda ed Elaine tentarono affondi su affondi, colpi su colpi. Nonostante la lesione alla spalla, Miranda non perse di precisione e potenza, mentre l’acqua ne rallentava i movimenti. Alla fine riuscì nell’intento di colpire Elaine, la quale venne ferita ad un braccio e iniziò a perdere molto sangue. L’acqua si tinse di un rosso opaco che rese ad entrambe difficile la vista.  

Miranda dovette trattenersi sotto quei cinque secondi necessari per recuperare il coltello scivolatele dalle mani. Inutilmente.

Quando ritornò a galla Elaine era già in procinto di ritentare la scalata. La Rossa comprese così che non c’era più nulla da fare, dolorante e disarmata, fu costretta a ritirarsi.

 

 

Lo stesso non poteva dire Larev, coinvolto in una lotta corpo a corpo con Alwyn. Già prima aveva avuto il suo bell’incontro con Sam, ma il ragazzo era stato coinvolto da Luke nella battaglia contro Bryan, quindi Alwyn, approfittando della situazione, aveva cercato di colpirlo.

Un affondo dopo l’altro i due tributi avevano iniziato un lento gioco di massacro, per il quale finirono col perdere ingenti quantità di sangue.

Larev dovette sentirsi praticamente tagliar via un dito, fortuna vuole che fosse riuscito ad evitare un colpo al tendine, mentre Alwyn percepiva già le orecchie impastate di sangue. La volontà di entrambi, però, era ferrea: continuavano a tentare colpi su colpi, tagli su tagli.

Larev schivò per un pelo l’ennesimo affondo, cercando di trapassare col coltello il collo dell’avversario, il quale, prevedendone la mossa, si spostò di lato. Il colpo finì ugualmente col tagliarli via mezza manica lasciando incisa una ferita che presto avrebbe avuto modo di rimarginarsi, se solo ne fosse uscito vivo.

Alwyn tentò un nuovo attacco, mirando in basso, ma ancora una volta Larev previde il movimento spostandosi fulmineo e lasciando cozzare nuovamente la sua lama contro quella del nemico. Il movimento aveva destabilizzato Alwyn, il quale finì col cadere a terra: il primo, grande passo falso.

Larev non ci pensò mezzo secondo, sollevò il coltello e mirò alla testa. Alwyn riuscì a spostare il capo quel po’ che era sufficiente ad evitare il colpo fatale ma l’orecchio, già dolorante, non si salvò: percepì distintamente la lama trapassargli la cartilagine. Spaventato compì un movimento eccessivamente brusco; la lama, impiantata tra orecchio e pavimento, rimase impalata lì mentre il ragazzo finì con il strapparsi la carne liberando l’organo dall’arma a dal pavimento.

Il dolore fu talmente accecante che Alwyn non riuscì nemmeno a percepire Larev, sopra di lui, che sollevando il coltello già tentava l’ultimo, misericordioso affondo.

Forse fu l’istinto a concedergli di bloccare con le mani il colpo: rimasero così, Alwyn disteso a terra con Larev seduto su di lui, mentre questo cercava di colpirlo con la lama di un coltello e il ragazzo che, impugnandone i polsi, faceva leva affinché non lo beccasse.

Dopo secondi di pura agonia, la paura, l’adrenalina, il desiderio di vivere, corsero in soccorso ad Alwyn, il quale riuscì a fare leva sulla schiena lasciando cadere a terra Larev.

Lui non se l’aspettava, come non s’aspettava l’arma di Alwyn che, raccolta da terra, gli passò attraverso la gabbia toracica. Un colpo non fu sufficiente a placare la furia omicida del ragazzo: piovvero coltellate su coltellate, sangue su sangue, anche quando ormai Larev era morto, anche quando il cannone aveva già decantato la sua fine. Ma Alwyn lo colpì ancora e ancora, questi sono gli Hunger Games:  la via più facile e immediata per impazzire.

 

 

Carol non era preoccupata. No, non lo era.

Cosa poteva importarle poi se Bryan stava giù a farsi ammazzare da sadici tributi assetati di sangue?

No, Carol non era preoccupata. E non voleva assolutamente dire niente il fatto che se ne stesse lì, camminando su e giù per la stanza, a rimuginare. Solo che non aveva voglia di stare ferma, ecco, solo questo. Solo questo. E intanto lanciava improperi e maledizione verso il moro bluastro con la faccia tosta di andare ugualmente a morire.

Quando percepì il colpo di cannone, però, poco importava come e perché si sentisse tanto irrequieta: prese a correre a basta. 

Ogni passo era una speranza in più, filava spedita rampa dopo rampa, col cuore a mille e una voglia matta di uccidere lei stessa quel gran cretino. Sentiva ancora rimbombarle in testa il colpo, quell’unico colpo che razionalmente poteva appartenere a chiunque, ma tanto doloroso e persistente da farle presagire il peggio.  

Era spinta dalla disperazione, solo dalla disperazione. Nella sua testa rigiravano le immagini di Bryan al loro ultimo saluto. La sua promessa di tornare.

Finalmente raggiunse la fine della penultima rampa di scale, dalla cui cima, affacciatasi alla ringhiera, fu in grado di scrutare l’intera sala.

C’era sangue ovunque, l’acqua stessa tinta di un rosso opaco, ragazzi che si ammazzavano a vicenda. La sua attenzione venne però catturata da tre ragazzi, appena sotto di lei, che combattevano gli uni contro gli altri.

Bryan.

Fu come una ventata d’aria gelida, una felicità improvvisa e disarmante.

Sei vivo.

In un altro momento avrebbe pianto di sollievo, invece era già là che rifletteva su come sarebbe riuscita a fargliela pagare per lo spavento.

Bryan non s’accorse di lei per interi minuti, troppo preso nella lotta corpo a corpo con Luke e Sam. Il primo sferrava colpi micidiali, il secondo tentava di seguire l’alleato.  

Per un momento, un momento soltanto, pensò che forse sarebbe stato meglio se avesse dato ascolto a Carol. Pensò che forse sarebbe stata tutta colpa sua se, alla fin fine, lui non fosse riuscito a tornare. Invece, voltandosi appena, se la ritrovò lì, a guardarlo.

Fu una sorpresa: prima si sentì stupito, poi euforico. Ma la vista di Carol, così inaspettata, lo distrasse mezzo secondo di troppo.

Non vide né Luke né la sua spada mentre questa finiva col trapassargli l’intestino. Sentì solo un improvviso silenzio accompagnare il dolore lancinante.

Poi tutto fischiò, la vista s’annebbiò, le gambe cedettero. Bryan cadde a terra, in ginocchio.

Guardava ancora Carol. Pensava a quanto strano fosse il fatto che lei fosse lì. Pensava a quanto lei avesse insistito perché non partisse. Pensava a quanto poco convincente fosse stata.

Pensava anche a tutte le volte in cui – ora se ne rendeva conto – lei era riuscito ad ingannarlo. Pensava che se lo avesse davvero voluto sarebbe riuscita a trattenerlo dal partire. Pensava che forse era stata proprio lei a spingerlo nelle fauci della morte.

Pensava anche a Elaine, e a quella volta in cui aveva tentato d’avvertirlo.

Pensava che forse avrebbe preferito una morte veloce piuttosto che tutti quei secondi di tempo in cui morire col peso del tradimento.

Il colpo di cannone che seguì la fine dei suoi pensieri rimbombò nella mente di Carol come una condanna, persistente, tenace. Le sue gambe presero a tremare, fece ugualmente qualche passo indietro, incerta. Si lasciò scivolare contro la parete, col respiro corto, le mani tremolanti. Se le portò davanti al volto e le guardò stupita, incapace di comprendere appieno l’immagine di Bryan trapassato dalla spada di Luke. Sanguinante. Disteso a terra. Morto.

Gridò, gridò con quanto fiato avesse in gola, le mani tra i capelli, il respiro accelerato, il cuore che batteva a mille. Gridò nonostante il pericolo che qualcuno, scoprendola, andasse a prenderla.

E pianse, soprattutto pianse. Pianse il dolore della morte di Bryan, il ricordo dell’ultimo saluto. Pianse lo squallore degli Hunger Games: la via più facile e immediata per impazzire.

 

E mentre Luke e Sam si piegarono stremati per la fatica di sconfiggere Bryan, doloranti e stanchi, Elaine era riuscita a prendere tra le sue mani lo zainetto. Riusciva con fatica a muovere il braccio dove Miranda era riuscita a ferirla in acqua, ma il desiderio di poter finalmente tornare a casa le fece ugualmente raggiungere la cima.

Tempo d’afferrare il bottino, però, che ancora una volta si ritrovò davanti ad Alwyn.

Questo sembrava più un ammasso informe di sangue, ma Elaine ebbe paura, tanta paura: negli occhi di Alwyn c’erano rabbia e dolore.

Elaine si caricò lo zainetto in spalle, estraendo il coltello. Non avrebbe ceduto senza combattere, lì, su quella Cornucopia.

Ma Alwyn era una bestia: le si scagliò contro in un ruggito tremendo e lei fece appena in tempo a spostarsi per evitare l’affondo che subito ne tentò un altro. Elaine non riuscì mai a contrattaccare, sempre sulla difensiva, ma Alwyn finì col spingerla all’estremità della Cornucopia, un pelo sopra il vuoto.

Finì col fare un passo di troppo, già sentiva l’aria sotto i piedi, che la sua caduta venne frenata da Alwyn. Questo le aveva afferrato con una mano lo zainetto, con l’altra brandiva ancora il pericoloso coltello, grazie al quale sperava di uccidere una volta per tutte le ragazza del sette.

Fu questione di pochi secondi. Elaine si perse con lo sguardo nell’orrore della sala: piscina impastata di sangue, macchie rossicce ovunque, un cadavere mutilato orrendamente, due ragazzi, vivi, sporchi e doloranti, Bryan trapassato da una spada.

Bryan. Il suo compagno di distretto, Bryan.

E il coltello di Alwyn mancò il colpo, perché Elaine, rinunciando allo zainetto, se ne liberò precipitando in acqua.

Una volta riemersa dallo schifo della piscina corse via, dolorante, corse il più velocemente possibile, corse con il cuore a mille, quando sentì d’essere sufficientemente distante dallo scempio del piano terra s’aggrappò a una parte e vomitò l’orrore di quell’immagine, di quella giornata.

Vomitò il dolore per la morte di Jude, che non conosceva ma che, in realtà, era avvenuta per mano sua.

La sofferenza per la caduta di Yvonne, trapassata da tante spine mutanti, a cui lei stessa era stata costretta a porre rimedio.

Tutto quel sangue. Tutto quel dolore. Tutte quelle morti.

La rabbia negli occhi di Alwyn, la follia della loro battaglia.

Ti prego, fa che i bambini non stiano guardando.

Ed Elaine rimase contorta su se stessa a vomitare lo schifo degli Hunger Games: la via più facile e immediata per impazzire.

 

 

Luke e Sam non raggiunsero la Cornucopia prima che Alwyn riuscisse a svignarsela con il bottino.

Lui, ancora in piedi, raggiunto l’angolo più angusto del primo livello, finalmente si liberò in una risata isterica e sollevata, sollevando al cielo lo zainetto.

Poi con foga e impazienza lo aprì, felice di poter essere l’unico vincitore della quarantottesima edizione.

Una volta aperto, però, il sorriso gli morì sulle labbra, sostituito da un’espressione scandalizzata. Rovesciò a terra tutto ciò che questo conteneva, sperando di sbagliarsi, pregando di sbagliarsi.

Polvere. Tanta polvere.

Frugò con insistenza il contenuto dallo zaino, senza trovarvi altro. Gridò. Gridò disperatamente.

E Theia, nascosta dietro la prima colonna, sorrise.

 

 

Eleuthera e Gaison se ne stavano seduti tranquillamente nel loro angoletto del secondo livello, ad attendere pazienti i successivi colpi di cannone.

Due. Solo due.

Eleuthera si sollevò irrequieta, prendendo a camminare.

— Perché tanto nervosa?— chiese Gaison— il piano è stato un successo. Poi mi devi spiegare come ci sei riuscita.

— Non è stato difficile— rispose— ho solo rubato dal server principale degli Strateghi un vecchio filmino in cui Claudius Templesmith invitava gli altri tributi ad un festino, per poi mandare il tutto sugli schermi.

— Sì, questo l’avevo capito. Ma chi te l’ha insegnato?
Eleuthera scosse le spalle. In realtà era qualcosa che molti sapevano, giù dalle sue parti, ma era forse meglio evitare di spiegare esattamente chi avesse avuto l’idea di insegnarglielo.  

Aspettarono ancora un po’, mentre Eleuthera diventava sempre più irrequieta.

Poi, ad un tratto, si fermò. Aveva gli occhi spalancati, le mani che tremavano.

— Cosa mi sta succedendo…?— chiese, spaventata.

Gaison preoccupandosi le corse incontro, facendola sedere contro la parete, domandandole ripetutamente se stesse bene.

— Sono morte due persone— disse lei.— ho ucciso due persone. Sono un mostro!

Gaison, che sapeva sarebbe arrivato anche quel momento, le cinse le spalle con un braccio, posandole un delicato bacio sulla fronte.

— Stai tranquilla.— la consolò — Non sei stata tu ad ucciderli: hai fatto quel che dovevi fare per tornare indietro. Non sei un mostro.

— No! No, tu non capisci! Io non sono triste perché ho ucciso due persone. Io sono triste perché ne ho uccise solo due!— si portò le mani al volto, disgustata. — Speravo nel macello e invece ne sono morte solo due. Ho ucciso due persone e rimpiango che non siano state di più! Sono un mostro!

E Gaison, spaventandosi, comprese quanto lui stesso si sentisse deluso dalla scarsezza di morti. Capì quanto mostruosi erano di diventati. Capì quanto gli Hunger Games riescano a rendere folli gli uomini. 





Bacheca dell'autrice


Non mi piace. Lo ammetto, non mi piace affatto come capitolo. Dopo una rilettura...mah.
La scrittura non mi convince e il titolo fa schifo, ma non potevo certo scrivere "il falso festino", troppo rivelatore. 
Quindi scusate davvero, una parte tanto importante fatta un po' così, alla come viene. 

La storia di Carol è quella che mi convince meno. Doveva venire qualcosa di bello, ma temo d'aver forzato un po', spero che i mentori non se la prendano...

Solo due vittime. Abbiamo pensato ad altro per gli altri. Un saluto alle mentori di Larev e Bryan, grazie per averci donato due splendidi tributi, si sono meritati una vita lunga che, purtroppo, ora è dovuta cadere. Non importa più davvero chi hanno come sponsor, chi li segue, chi li acclama. Ora è guerra, e che guerra sia.

Almeno si sono risparmiati la follia che sembra iniziare a contaggiare i vivi. Cosa che a me diverte moltissimo, devo dire....non uccidetemi, sono pur sempre di Capitol City!

Mentori, se i vostri poveri tributi sembrano star per morire, forse penso sia il caso di attingere un po' alle vostre risorse. Spero che ne abbiate ababstanza.

Scusate anche i possibili errori grammaticali, non sono mai stata un asso in questo!

Che altro dire...buona fortuna, gente. E ben tornati ai quarantottesimi Hunger Games. 


Scritto da Gattapelosa


 

 

   
 
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