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Autore: Melie Devour    15/11/2012    3 recensioni
«Do fastidio?» lui alza le sopracciglia.
«No, ma mi fai paura.» Lei sente le labbra impastate, e i polmoni non si dilatano abbastanza da permetterle di respirare con serenità.
«Lascia parlare me.» Fa lui «Non sono un chiacchierone. Il disegno nel tuo sketchbook l'ho fatto io.» Si ferma, guardandola. «Ti piace?»
Lei annuisce.
«Unice, io sono morto. Tu lo sai, no?»
«Sì.»
«Ma tu senti la mia voce nel cortile della scuola.»
«Cosa? Eri tu?»
«Già.»
Parole totali: 20k ca; Lunghezza capitoli: 2/3k ca;
[COMPLETATA]
Genere: Angst, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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«Svegliati. Unice, svegliati!»

Lei emise un verso di disappunto, impiastricciato di sonno, senza neanche aprire gli occhi, ma un’improvvisa ondata di freddo le percorse tutto il corpo fino alle ossa, facendola svegliare in un brivido.

«Cosa c’è?» Biasciò lei strusciandosi gli occhi.

Lui esitò «Niente di buono.» fu tutto quel che disse. Unice stava per chiedere spiegazioni, quando lo squillo del pesante telefono di metallo trillò, ad un volume che mai le era sembrato così alto, squarciando la pace della notte.

Drin drin, drin drin, drin-

Lei si alzò di scatto e si affannò verso il corridoio, rischiando di inciampare più volte.

«Pronto?»

«Signorina Bryant? Unice Bryant?» gracchiò una voce seria dall’altra parte del cavo.

la ragazza esitò. Solo in quel momento aveva realizzato che di solito ricevere una telefonata in piena notte non voleva dire niente di buono.

«Sì, sono io. –si schiarì la voce con un colpo di tosse soffocato– È successo qualcosa?»

«Qui è il General Hospital. Sua madre è morta.»

Le parole che seguirono caddero indistinte in un angolo della sua mente, offuscate dalle vertigini che si impossessarono di lei. Non era sicura che l’interlocutore avesse finito di parlare, quando aveva attaccato la chiamata. Non le interessava molto. Tutto ciò che riuscì a fare fu evitare di cadere a terra come un sacco di patate, sforzandosi di tendere i muscoli giusti per accasciarcisi senza aprirsi il cranio contro il pavimento.

Poi ancora un ultimo piccolo sforzo, per portare le mani davanti agli occhi, tirare a sé i ginocchi e ritrovarsi in posizione fetale.

Non ebbe neanche modo di avvertire il tocco di Kurt, che con tutta la delicatezza di questo e di altri mondi posò la mano sulla sua testa, intrigando impercettibile le sue dita tra i capelli morbidi e spettinati.

 

Non seppe dire quanto tempo era rimasta immobile, arrotolata sul pavimento, gli occhi spalancati che neanche si erano degnati di versare una lacrima, quando scorse il primo filo d’alba attraversare la stanza e puntarle il viso.

Quando provò ad issarsi a sedere si accorse del dolore che le arrivò dall’anca e dalla spalla sui quali si era appoggiata. Un verso di dolore le sfuggì dalla gola.

«Unice.» una voce dolce sussurrò, ma lei non rispose. Si mise a sedere, portò le gambe al petto e le circondò con le braccia, poggiando il mento sui ginocchi. Si prese qualche minuto per convincersi che il tempo non si fosse fermato, che un mondo pieno di persone stesse ancora rivoluzionando su sé stesso, che lei ne facesse ancora parte.

«La vedi?» Fu la domanda che istintivamente rivolse al ragazzo, vicino a lei da qualche parte.

«N-no.» Esitò lui.

«Mh.» Rispose lei, con un alzata di spalle accennata, prima di tirarsi in piedi.

«Cosa hai intenzione di fare?» fece lui con voce cauta.

«Mh, non posso rimanermene qui. Dovrò andare a… firmare qualcosa, immagino.»

Non ricevette risposte, così continuò, mentre infilava il primo paio di jeans che incontrò «Faccio un salto all’ospedale.»

«Vuoi… che venga con te?»

«Come vuoi.» fu la fredda risposta. Indossò una delle felpe che pendevano dall’attaccapanni e una volta infilate le chiavi in tasca uscì di casa.

 

L’ospedale non le era mai sembrato così silenzioso. Erano le sette ed il sole era appena sorto. Buttò uno sguardo alle poltroncine colorate dove usava sedersi, anni addietro, aspettando che sua madre finisse il turno pomeridiano per andare a mangiare qualcosa fuori casa. Una ragazza da dietro il bancone agitò la mano con un’espressione compassionevole dipinta in faccia nella sua direzione, e lei ricambiò con un cenno della testa.

In quel reparto, dove lavorava sua madre, la conoscevano quasi tutti. Tenne lo sguardo basso, per non ritrovarsi intrappolata in discorsi poco sensati da parte di persone delle quali neanche conosceva il nome, su di una cosa di cui non voleva parlare. Si appoggiò su un bancone, selezionando tra le tre ragazze dietro di esso la faccia più sconosciuta che poté, così da chiederle «Mia madre è morta stanotte… dove devo…» ma si rese conto che non aveva idea di cosa avrebbe dovuto fare, cosa doveva chiedere, perché avesse deciso di andare lì.

«Mi dispiace, tesoro.» rispose la donna di colore con aria spiacente «Vieni con me.»

 

Il corpo di sua madre era steso sul piano d’acciaio di un cassetto dell’obitorio. La faccia era coperta di graffi, e tagli, alcuni molto profondi. Strinse le palpebre solo qualche secondo dopo aver messo a fuoco quell’immagine tremenda, facendo cenno al ragazzo in camice che poteva richiudere il cassetto.

«Posso chiederle che cos’è successo?» fece, sorprendendosi da sola della propria voce atona «Devono avermelo spiegato stanotte al telefono, ma non sono riuscita a capire niente.»

«Un incidente d’auto.» disse il ragazzo, prendendosi la mano nella mano e raddrizzando la schiena «Un pazzo ubriaco le è andato addosso a tutta velocità mentre usciva dal turno serale.» si schiarì la voce, aggiungendo poi esitante «È morta sul colpo.»

Lei annuì abbassando gli occhi. Solo un secondo dopo gli voltò le spalle, spingendo la porta dell’obitorio e lasciandolo solo.

 

Le poche volte che ritornava coi piedi per terra, aveva l’impressione di non aver battuto le ciglia per tutto il tempo. Aveva raggiunto l’accademia in orario, dato che le lezioni erano iniziate alle nove. Si era accaparrata l’ultimo posto in fondo all’aula, al riparo dagli sguardi di chiunque, una barricata di schiene davanti a lei mentre il professore farfugliava di qualcosa che non le interessava.

Si era rigirata una matita tra le mani per l’intera lezione, gli occhi spalancati verso un punto indefinito, mentre più avanti, con la coda dell’occhio scorgeva Sam voltarsi verso di lei una volta ogni tanto, per poi tornare ai suoi appunti subito dopo. Teneva d’occhio la figlia di Mefistofele, pensò.

La storia si ripeté per un’altra lezione, fino ad arrivare alla pausa pranzo, quando senza ripensamenti andò a rintanarsi nell’atelier formalmente inagibile. Ma una volta varcata la soglia chiese a sé stessa cosa diavolo ci fosse andata a fare. Cosa diavolo fosse venuta all’accademia a fare.

Sul tavolo riposava ancora la piccola composizione di legno e fili metallici dell’ultima volta. Una piccola gabbietta di cavi intrecciati intorno a un piccolo uccellino di legno impressionista. Molto impressionista, convenne riguardando la sua piccola opera. Si guardò intorno, non c’era niente per lei, lì. Si era ripromessa di distrarsi, e non avrebbe potuto fallire in modo più clamoroso. Infilò la piccola scultura nella tracolla, prima di uscire dall’atelier polveroso.

Non poteva andare a casa, non poteva rimanere in quella dannata scuola.

 

Camminava a piedi nudi nella neve. Stavolta però non era un sogno, e il freddo che le invase le vene glielo ricordò. Ma le andava bene, era quello che aveva sperato, quando se le era tolte e messe in borsa.

Aveva raggiunto il parco cittadino, un surrogato di orto botanico che nessuno visitava mai, senza che lei ne capisse il motivo. A lei e a tutti gli spacciatori della città piaceva molto, invece. Ma sotto tutta quella neve era anche più bello del solito. Uscì dal sentiero per salire sul manto erboso, cosa che dedusse da un paio di ciuffi d’erba che spuntavano dal bianco e nient’altro, per avvicinarsi alla riva del laghetto, completamente ghiacciato. Si sedette sul manto gelido, i piedi posati sul ghiaccio immacolato della superficie.

«Tu lo sapevi, vero?»

“Non potevo saperlo.”

«Lo sapevi.» insistette lei, mettendo un piccolo broncio al niente intorno a lei.

“No.” sussurrò l’uomo, abbracciandole le spalle. “Devi essere forte, adesso.”

«Nah, non devo.» sbottò lei con un alzata di spalle.

“Crollerai tutto insieme, se non cominci a sfogarti.”

«A chi importa, Kurt?»

“A me. A tua madre.”

Avrebbe voluto rispondergli che a sua madre non importava più di niente, ormai, ma si accorse in tempo del paradosso di dirlo ad un fantasma.

«A meno che non si presenti pure lei nei miei sogni…» fece lei, lasciando la frase in sospeso speranzosa.

Kurt rispose in ritardo e frettolosamente “No, non credo proprio.”

«Allora niente.»

Kurt sembrò sospirare, prima di proporre “Ehi, senti. Andiamo fuori città. Vai a casa, prendi un po’ di soldi, andiamo alla stazione e prendiamo un treno, il primo treno. Ti piace come idea?”

«No.» ribatté lei, istantaneamente e senza traccia di emozione. Si morse la lingua subito dopo, e lasciando cadere la testa indietro affrettò un «Scusami. Davvero, scusami.»

Lui non rispose, ma neanche lasciò la presa sulle sue spalle.

«Sei tutto ciò che mi rimane, Kurt.» confessò lei.

“Sono felice di essere con te.”

«Kurt. Io voglio stare con te sempre.» dichiarò lei, la voce appena incrinata.

“Se lo vuoi sarà così.”

«Intendo… del tutto insieme. Per sempre.»

Lui rimase qualche secondo in silenzio, poi la realizzazione lo raggiunse come un pugno in faccia “Non pensarci neanche.”

«Kurt…» cercò di argomentare lei in modo calmo e diplomatico, ma lui sovrastò la sua voce.

“No, no e poi no. Unice, no.” sentenziò lui appena dispotico, irremovibile e severo.

Lei ritornò lo sguardo alla superficie del lago, che le rifletteva il bianco accecante del cielo negli occhi.

“Tu sei forte! Sei una guerriera!” sentì il bisogno di precisare lui “Sarebbe una scelta da codardi. Sei meglio di così.”

«Ok, basta, Kurt, ho capito.»

“No, continuò, perché quel che hai detto è una cosa stupida.”

«Ancora ti sanguina la tempia e vuoi darmi lezioni di morale, Kurt?!» strillò allora lei, sull’orlo di una crisi di nervi.

In tutta risposta, lui prese il suo viso tra le mani, lasciandole un bacio sulle labbra fredde “Non vorrai fare a gara di stupidità, spero. Non hai speranze contro di me.”

«Mia madre se n’è andata.» riuscì a borbottare lei, una realizzazione improvvisa e lancinante, ed ancora non le era uscita neanche una lacrima.

Chiuse gli occhi, e si lasciò chiudere in un abbraccio. 

“Rimettiti le scarpe, hai i piedi blu.”

 

I giorni che seguirono furono un piatto altalenarsi di lezioni che non ascoltava, pranzi mordicchiati o saltati del tutto, commissioni in uffici municipali e agenzie funebri e cene a base di pizza surgelata. I soldi che sua madre teneva da parte, tutti quanti, sarebbero bastati sì e no per la cremazione.

Dopodiché avrebbe dovuto trovarsi un lavoro, per pagarsi da mangiare, senza contare il fatto che la loro casa era in affitto.

Andò all’obitorio, per assistere alla cremazione e ritirare le ceneri due giorni dopo, e il becchino le aveva fatto pagare solo quello che aveva, che formalmente non sarebbe bastato.

Lei e sua madre erano sole. I suoi nonni materni erano morti qualche anno addietro, ed erano stati seppelliti nel cimitero della chiesa dove si erano sposati, due stati più in là. Di certo non avrebbe potuto permettersi di pagare una zolla al camposanto accanto alla loro.

Optò per una soluzione più semplice, che sapeva sarebbe piaciuta a sua madre.

Raggiunse a piedi il vivaio ai bordi del paese, e comprò un piccolo vaso con una talea di quercia appena piantumata.

Aspettò ancora una settimana, come consigliato dalla commessa, per andare a piantarla, per darle modo di mettere radici in un terreno soffice.

Prese l’autobus appena uscita dall’accademia, raggiungendo un bosco dove da piccola lei e sua madre andavano a fare i barbeque qualche saltuaria domenica d’estate, e camminò fino a raggiungere un ampio spiazzo libero da alberi, dove il prato si riempiva di fiori colorati ed il sole ne illuminava il centro, sbiadendo ad ombra con l’avvicinarsi alle fronde.

Individuò il centro esatto, e con un piccolo trapiantatore scavò una piccola buca.

Vi svuotò all’interno l’urna, ricoprendo poi con uno strato sottile di terra. Dalla tracolla tirò fuori la piccola catenella che sua madre portava sempre al collo, uno degli effetti che le avevano restituito all’obitorio qualche giorno prima, e una bottiglia di vetro di coca cola, con al suo interno un foglio arrotolato. Niente di elaborato o altisonante, solo un foglio A4 con scritto a penna il testo di “Simple Twist of Fate”, la sua canzone preferita. Adagiò entrambi gli oggetti sul fondo della buca, per poi estrarre dal vaso di plastica la piccola quercia, ed insieme alla terra rimasta, andare a riempire del tutto la buca, aggiustando con attenzione il terriccio attorno al fragile stelo.

Approfittò del fatto che il sole sulle spalle rendesse sopportabile la temperatura, e rimase a sedere di fronte alla piccola pianta per qualche minuto.

«“They sat together in the park /as the evening sky grew dark, /she looked at him and he felt a spark tingle to his bones. /'twas then he felt alone and wished that he'd gone straight /and watched out for a simple twist of fate.”» cantò a mezza voce. Una carezza discreta si fece strada tra i suoi capelli.

“Hai avuto un pensiero bellissimo”

Annuì. Ne era abbastanza soddisfatta, sì. Si alzò in piedi, infilandosi la tracolla sulle spalle. Un ultimo sguardo alla piccola pianta verde, la speranza che potesse crescere indisturbata fino ad essere un bell’albero secolare, prima di riaddentrarsi nel bosco, reso surreale dal canto degli uccellini sulle fronde.

 

***

 

Comunicazione di servizio. In occasione di questo penultimo capitolo prima del gran finale, invito chi ha avuto la voglia e la passione di seguirmi in questa piccola avventura chiamata 'Night Time Daydream' a leggere un'altra delle mie FF, sempre nella sezione 'Nirvana'.
'And What If You...?', link: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=914259&i=1

Grazie delle letture, delle recensioni e delle dolci parole, come anche a chi ha deciso di leggere questa storia in silenzio.
Grazie a tutti.

~melie

  
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