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Autore: Sys    16/11/2012    2 recensioni
Vide una chitarra abbandonata sul muretto del ponte. La prese e la osservò: era la stessa della ragazza che prima aveva incontrato, ma di lei non c’era nemmeno l’ombra. Cherry lesse, era la sua.. ne era sicuro. Ma Brook dov’era? Era un ponte, o si trovava davanti o dietro rispetto a lui, ma in entrambe le direzione Niall non riconosceva i suoi capelli biondo platino o la sua felpa nera extra-large.
Fece pochi passi in avanti, sempre con in mano la chitarra.
Poi capì tutto, e gli occhi gli si riempirono di lacrime.
Genere: Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Niall Horan, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«E’ stato un piacere conoscerti, Niall.»

 
«Ma possibile che con tutte quelle che potevano capitarmi, sei piombata qua proprio te?» le urlò furiosamente la donna bionda e minuta che la fissava con le mani conserte e le gambe tese.
«Mi vuoi dare la colpa anche di essere nata, ora?» domandò la sedicenne poco più alta della signora che le stava davanti, altrettanto arrabbiata.
Come per ogni adolescente, questa non era di certo la prima litigata che Brooklyn aveva avuto con sua madre, tuttavia mai avrebbe immaginato che si sarebbero potute spingere così in là. Le due avendo, purtroppo, un carattere simile, sfruttavano ogni momento libero per rinfacciarsi cose l’un l’altra finendo per poi non parlarsi per giorni. Brooklyn il più delle volte non conosceva neppure il perché di queste liti improvvise e finiva chiusa nella sua camera minuscola a piangere per notti intere. Era un ragazza forte, determinata a portare a termine i propri sogni, ma nello stesso tempo insicura; c’è da dire, però, che questa caratteristica veniva sfoderata solo in presenza della quarantacinquenne.
Brooklyn, infatti, era una ragazza popolare, di quelle che tutti conoscono a scuola. Fumava, aveva un piercing all’ombelico e non solo lì, ovviamente fatto senza il consenso della madre. Era una di quelle a cui poco importava della scuola e che tutti i sabato sera era ad una festa diversa dove regnavano alcol e divertimento, ma non inteso come quello che si ferma al ballare insieme a qualcuno, ma quello che continua in una camera da letto o in un qualunque posto non necessariamente appartato. Una di quelle ragazze con gli occhi talmente truccati da farli diventare rossi per lo stress a cui erano sottoposti e fondotinta a volontà sul viso quadrato incorniciato da una chioma biondo platino; una di quelle che indossava jeans attillati e felpe giganti. Completava il look con un paio di converse generalmente nere o più raramente bianche. Aveva avuto pochi ragazzi seri, se si potevano considerale tali, per sua scelta. Sì, avete letto bene, lei aveva deciso di diventare così dopo che seppe di suo padre e di come abbandonò la ragazza che, all’epoca ventinovenne, aveva messo incinta. Non sapeva nulla di lui, e non volle mai sapere niente. Lui l’aveva abbandonata e non meritava nemmeno di attenzioni da parte di una figlia, per come la pensava. Per colpa di ciò Brooklyn, o più semplicemente Brook come tutti la chiamavano eccetto sua madre, non si era mai fidata di nessuno al di fuori di se stessa, tantomeno dei ragazzi. Non aveva mai avuto una migliore amica. E mai l’avrebbe voluta avere, stava bene così. Certo, magari dopo queste sfuriate con l’unico genitore che le era rimasto, una spalla su cui piangere o una persona pronta a consolarla non l’avrebbe di certo disprezzata ma ricacciava lontano nella sua mente questi pensieri e si convinceva che l’unico soggetto che avrebbe potuto capirla fino nel profondo era se stessa, pertanto prendeva Cherry, la sua amata chitarra color ciliegia, da cui prende il nome, e cominciava a strimpellare qualcosa. Non aveva mai seguito un corso di chitarra, e mai la madre gliene aveva comprata una: quella che aveva l’aveva trovata in un vicolo cieco di Londra, una mattina sulla via per la scuola. L’aveva raccolta, e solo dopo averla osservata per bene, decise che quella se la sarebbe portata a casa. Perché? Niente di più semplice. Si rispecchiava in quello strumento, lì abbandonato, solo bensì fosse ancora funzionante, ancora riusciva a fare ciò per cui era stata creata anche se l’avevano lasciata sola in una strada a fondo chiuso. L’aveva nascosta per bene, cosicché nessuno avrebbe potuto scorgerla molto facilmente, quindi si era ripromessa di venirla a riprendere dopo scuola, e così fece.
Forse la musica era l’unica cosa a cui si era donata del tutto, a cui aveva giurato fedeltà eterna. Dovunque sarebbe andata, quella chitarra l’avrebbe seguita perché Cherry era l’unica a cui Brook confidava ogni cosa. Se dopo scuola tornava a casa amareggiata, armonizzava delle note che insieme andavano a formare una melodia triste, se era felice suonava una canzoncina allegra e potevano avvertire le sue emozioni solamente le note e la chitarra da cui esse provenivano, nessun altro. Questa era Brooklyn.
«Rispondimi se hai il coraggio.» ribadì Brook.
La donna, nel contempo aveva abbassato lo sguardo e si era spostata verso i fornelli dove l’acqua all’interno della teiera stava diventando sempre più calda. Brooklyn vide la madre prendere una bustina da tè, scartarla, quindi lasciarla cadere nell’acqua. Infine rivolse lo sguardo verso la figlia senza, però, osare dire una parola. Semplicemente la fissava. Si chiedeva il perché di tutta quella sofferenza, perché era capitata proprio a lei una figlia, quando lei non ne aveva mai desiderata una. Aveva sempre immaginato che se Brook non fosse stata sua figlia, probabilmente si sarebbe ritrovata in condizioni migliori di quelle in cui era, invece, costretta a stare. Costretta a vivere in quella casa così vecchia che a poco, poteva giurarlo, sarebbe caduta a terra, come una donna anziana dopo anni e anni di lavoro. Costretta a vivere senza un padre, costretta a vivere con una madre che non l’amava, nonostante fosse sua figlia, lei non era mai riuscita ad amarla. Mai. Non l’aveva mai voluta, ma quando scoprì di essere incinta non poteva di certo abortire con una famiglia talmente religiosa quale si ritrovava. Era impensata la cosa. Così fu costretta a tenerla, seppur con malavoglia, seppur lei fosse consapevole di come questo avrebbe rovinato la sua vita.
Brook sembrò leggerle nel pensiero perché i suoi occhi diventarono d’un tratto tutti lucidi. Era sul punto di piangere, e mai l’aveva fatto davanti a sua madre, anche se lei se ne accorgeva delle volte in cui la ragazza si chiudeva in camera e si lasciava andare ai singhiozzi e alle lacrime. Lei ne era consapevole, la sentiva, eppure non aveva mai fatto niente per impedire ciò, mai le era passato per la testa di poterla andare a consolare, di dirle cose carine. Mai.
«Mamma, tu mi vuoi bene, non è vero?» chiese Brooklyn con voce strozzata in cui traspariva palesemente un velo di speranza.
La donna, però non rispose. Si girò ancora verso la teiera e controllò la condizione dell’acqua.
Brook lo sapeva, sapeva che sarebbero finite come quelle madri e quelle figlie che sembravano estranee tra loro. Lo aveva sempre saputo ma non credeva che questo distacco sarebbe potuto accadere a poche ore dal suo sedicesimo compleanno. Era ancora troppo piccola per questo, non avrebbe mai potuto sopportare l’assenza di entrambi i genitori, non sarebbe riuscita neppure a mantenersi se anche sua madre, ora, l’avrebbe rinnegata. Brook sentì qualcosa di caldo scorrerle sulla guancia, arrivato alle labbra rosee avvertì quel gusto di salato, tanto conosciuto. Una lacrima.
«Mamma, tu mi ami?» ritentò la ragazza.
Ancora silenzio. Non c’era altro che un triste, amaro silenzio. Brook non riusciva più a sopportarlo.Due lacrime.
«Mamma, dimmi che mi ami.» riprovò. Questa volta nessun velo di speranza, solo rabbia. Tanta rabbia che la costrinse a tirare un calcio al mobile della cucina, già in condizioni pessime di suo. Questo gesto fece voltare la quarantacinquenne che rimase stupita dalla rabbia della figlia, e rimase stupita nel vedere le guancie della giovane che nel frattempo erano diventate bagnate, ma non parlò. Non ne aveva il coraggio.
«Mamma, sono tua figlia, devi amarmi! Devi.» la voce della ragazza echeggiò nella cucina silenziosa. Niente, ancora niente, la donna non accennava ad una parola.
Poi, alzò lo sguardo, incontrò quello della quasi sedicenne bionda di fronte a lei, dall’altra parte del tavolo. In quel momento capì che doveva prendere coraggio.
«Mi dispiace, Brooklyn.» disse solamente.
Non una lacrima solcò il suo viso, era un donna fredda, non aperta ai sentimenti. A differenza di Brook il quale volto era continuamente tormentato da nuove lacrime.
La teiera prese a fischiare ma le due non si mossero. Era un suono lungo, imperterrito e decisamente fastidioso, fu per ciò che forse Brook si destò da quella specie di trance in cui era caduta. Spostò un piede dopo l’altro con impensabile fatica, come se dovesse imparare a camminare in quel momento. Si diresse in camera, senza correre. Prese Cherry, e scese le scale, senza fretta. Aprì la porta, volse un ultimo sguardo verso la donna che fino a quel giorno l’aveva cresciuta che ancora stava fissando il luogo in cui poco prima c’era la ragazza e uscì da quella casa in cui ancora persisteva quell’irritante rumore.
Mai più sarebbe tornata lì, mai più l’avrebbe chiamata mamma.
Scappò, scappò lontano da quella che fino a poco prima chiamava casa. Una goccia le cadde sul naso, la ragazza alzò gli occhi di scatto rabbuiandosi quando vide tutte quelle nuvole nere pronte a scaricare tutta l’acqua che avevano accumulato. Si maledisse per non aver prese l’ombrello, ma no, non sarebbe tornata indietro.
Non sapeva dove andare, da sola, con una chitarra in spalla. Poi capì.
Con passo svelto raggiunse un luogo di Londra, di quelli poco conosciuti se non dai veterani della città, senz’altro era sicura che non sarebbe stata interrotta dai turisti.
Dopo un quarto d’ora di camminata veloce, o meglio corsa, di cui, però, non avvertiva la stanchezza, arrivò. Era un posto semplice. Un luogo che poteva sembrare anche macabro, da un certo punto di vista. C’era un'unica strada da seguire, ai lati si erigevano delle vecchie abitazione il cui colore dominante era il grigio. Brook si portò più avanti, dopo una fila di sei o sette case allineate si spalancava di fronte ai suoi occhi il Tamigi. Si avvicinò al muretto traballante e decise di sedervici sopra. Prese con Cherry, e lasciò la custodia della chitarra a terra. Il suo sguardo era rivolto verso il famoso fiume di Londra.
Iniziò a strimpellare qualcosa, una canzone su cui da tempo lavorava. Pochi secondi dopo prese coraggio e iniziò a cantare. Aveva una voce melodiosa. Di quelle che rimarresti a sentire tutto il giorno, senza interruzioni; una voce di cui nemmeno lei si era resa conto di possedere.
Quando finì la canzone rimase a fissare il Tamigi che scorreva imperterrito sotto di lei. Involontariamente altre lacrime le bagnarono le guancie senza che lei potesse far nulla per fermarle. Nessuno avrebbe detto che era la stessa Brook delle feste o quella di scuola, nessuno.
Da dietro un ragazzo si avvicinò e lasciò cadere delle monetine dentro la custodia della chitarra, tuttavia Brook non si era accorta della sua presenza.
«Io avrei scelto una nota differente in qualche momento..» parlò il ragazzo.
Brook venne spaventata da quella voce inaspettata tanto da perdere l’equilibrio, ciononostante riuscì a riacquistarlo in tempo record e si girò per vedere da dove o meglio da chi provenisse quel commento. Lo sguardo le cadde da subito alla custodia malconcia della sua chitarra dove vide tante monetine scintillanti, l’una accanto all’altra. Alzò, poi lo sguardo verso la figura che si erigeva di fronte a lui.
Un ragazzo biondo, come lei, con un ciuffo rialzato, probabilmente grazie a quintali e quintali di gel, di un colore leggermente più scuro dal resto del cuoio capelluto.
Era alto quasi quanto lei, e aveva due occhi che le ricordavano il cielo di Londra quando non era coperto dalla nuvole. Indossava un paio di jeans neri e una camicia di un colore simile al rosso scuro. Aveva delle scarpe talmente costose che Brook non riuscì nemmeno ad individuarne la marca.
La bionda si abbassò a prendere le monete e gliele porse.
«Non mi serve la tua elemosina, ragazzo sconosciuto.» sbraitò la ragazza. Probabilmente non era sembrata simpatica agli occhi di lui ma non era nemmeno in vena di fare conoscenza.
«Non li voglio, tieniteli.» continuò lei.
Il ragazzo non riprese in mano le monete, si mosse verso destra, poi continuò a parlare.
«Come mai qua tutta sola?»
Brook, nel frattempo lo aveva seguito con gli occhi, sempre con il braccio teso e la mano aperta con all’interno il denaro.
«Non è un posto sicuro, soprattutto a quest’ora, non credi?» domandò il biondo.
«A te non deve interessare.» gli riferì lei. «A nessuno deve interessare di ciò che faccio e di ciò che voglio, a nessuno interessa di me, della mia vita. A nessuno.» mormorò piano, in seguito.
«E come mai a nessuno dovrebbe interessare di te?» chiese lui, altrettanto piano nel suo orecchio. Sì, si era avvicinato a lei. Ora stavano entrambi guardando il Tamigi, o almeno lei lo stava facendo.
«Senti, ragazzo sconosciuto..»
«Niall Horan.» affermò lui.
«Scusa?»
«Mi chiamo Niall, Niall Horan.» ripeté.
Niall Horan, Niall Horan.. dove diavolo aveva già sentito questo nome?
Rimase a riflettere per pochi secondi con lo sguardo sempre rivolto verso lo sporco fiume.
Ma certo! Lui era uno di quei cinque che avevano fatto successo grazie al loro faccino, come poteva non ricordarsi? Li canzonava ogni giorno quei cinque bambini.
Volse lo sguardo al ragazzo che la stava guardando, era pronta ad aprire bocca quando lui la precedette.
«Tranquilla, ti firmerò un autografo.» le fece sapere, Niall.
«Io?! Un autografo da te?! Ma scherzi?! Lo vorrei soltanto se questo fungesse da bambolina voodo.» Brook si voltò verso il biondo che la fissava con un espressione allibita. Come? Non gli era mai capitato di incontrare persone che non stravedessero per lui e i suoi cinque compagnucci di band?
«Sei un hater?» chiese lui, anche se la risposta era ovvia vedendo quella precedente.
«Sono un che?! No, sono solo una delle poche ragazze che se vi vedesse in giro, sicuramente non vi salterebbe addosso, anzi..» specificò lei.
«Allora lo sei. Come mai questa sottospecie di odio verso di noi?» la interrogò lui.
Lei rimase un po’ interdetta quando lui le pose la domanda, perché non gli piacevano? Perché non faceva parte di quelle ochette urlanti che li seguivano ovunque? Troppe domande. Poche risposte.
«Voi.. voi siete seguiti da molte persone, ma siete amati, nel senso vero della parola, da veramente poche ragazze. Queste sono costrette a soffrire ogni singolo giorno perché sanno che non vi vedranno mai, non avranno mai l’occasione di parlarvi apertamente, non potranno mai dirvi i propri sentimenti verso di voi. Non potranno mai essere amate da voi.
A voi cinque, i ragazzi che un paio di anni fa sono arrivati ad un misero terzo posto in un fottuto talent show non importerà mai niente dei loro sentimenti. A voi interessano i soldi, non è vero?» “sputò” lei guardandolo in faccia, per la prima volta. Lui aveva un espressione pensierosa, come se stesse ascoltando attentamente e stesse valutando  ciò che era il vero e ciò che invece non lo era.
«Bè sappi che le vostre vere fan sono da ammirare, continuano ad andare avanti a sperare, anche se in cuor loro sanno che mai realizzeranno il loro sogno perché sono innamorate di ragazzi che sono diventati macchine da soldi. Ma loro non si perdono d’animo, e soprattutto non vi lasciano, anche se impossibilitate a venire ai concerti, ai vari incontri e al di fuori dalle sedi delle radio a cui siete invitati. Loro se ne stanno a casa, a piangere. Poi si ricompongono, e mostrano un sorriso tanto finto quanto il mio ex fidanzato e ricominciano la loro vita.
Loro sono da ammirare, voi siete solo degli stronzi.» concluse lei.
Quindi si alzò, ripose la chitarra dentro la custodia e prese a camminare per tornare verso le strade famose di Londra, lasciando il denaro, ancora custodito nelle sue mani, abbandonato sul muretto.
«Come ti chiami?» sentì urlare. «Posso sapere il tuo nome? Tu il mio lo sai.»
«Brook.» gridò lei, di rimando senza nemmeno voltarsi.
«Brook era una nostra fan, non è vero?» iniziò lui. «Non intendo la Brook che ho conosciuto oggi, ma quella che probabilmente era fino ad un anno fa. Quella che con ogni probabilità non veniva da sola in uno dei quartieri più malfamati di Londra, quella che forse si sfogava ancora con la sua chitarra, quella che non aveva il trucco colato per il troppo piangere.» suppose Niall. «Lei era una di quelle che ci amava più di se stessa, giusto?»
Intanto le guance di Brook si bagnavano ancora di più di quanto lo erano già prima. Niall aveva ragione, lei era cambiata, non era più la ragazza che era un tempo; quella che credeva nei sogni, quella sempre allegra nonostante la sua famiglia non fosse delle migliori, quella che si rifugiava nella loro musica, il solo modo per isolarsi per un po’ da tutto e da tutti.
Dalla madre, dai ragazzi, dai problemi.
«Sì, lei lo era, ma sai, voleva salvarsi dall’ennesima delusione, non sarebbe mai riuscita a sopportarla con tutto quello che già aveva sulle spalle. Non poteva innamorarsi di una cantante, ma ciò era successo, e decise per qualcosa di drastico: dimenticarvi totalmente.» rispose semplicemente lei correndo via senza lasciar tempo a lui di replicare.
«Ma lei non ci ha dimenticati del tutto a quanto pare; la lei che li amava vuole venir fuori, purtroppo tu non glielo permetti, perché ti fai del male da sola, Brook?» domandò lui.
«E’ stato un piacere conoscerti, Niall.» disse lei, senza dare il tempo al ragazzo di ribattere correndo lontano.
Si era rovinata.. cos’era diventata? Doveva far finire tutto questo.
E sapeva come.

~

 
Niall camminava solo, stava tornando in albergo dopo quel colloquio con la ragazza bionda che non era riuscita a bloccare prima che scappasse via.
Passeggiava tranquillamente sul ponte più celebre di Londra, il London Bridge.
Era immerso nei suoi pensieri quando qualcosa lo riportò alla realtà. Vide una chitarra abbandonata sul muretto del ponte. La prese e la osservò: era la stessa della ragazza che prima aveva incontrato, ma di lei non c’era nemmeno l’ombra. Cherry  lesse, era la sua.. ne era sicuro.
Ma Brook dov’era? Era un ponte, o si trovava davanti o dietro rispetto a lui, ma in entrambe le direzione Niall non riconosceva i suoi capelli biondo platino o la sua felpa nera extra-large.
Fece pochi passi sempre con in mano la chitarra.
Poi capì tutto, e gli occhi gli si riempirono di lacrime.


Boh, non chiedetemi da dove esca tutto ciò perchè non lo so neanch'io!
Ma andiamo con ordinee! Buonasera popolo di EFP, come state?
Dunque, dunque.. perchè ho scritto questa -come chiamarla?- cosa?
Bè, forse per il mega litigio avuto con mia madre (ogni riferimento a Brook è puramente casuale, HAHAHAHAH -avevo bisogno di sfogarmi- comunque per fortuna non ci siamo spinte così in là come la bionda e la madre, anche se abbiamo fatto la nostra parte pure noi.), forse per il bisogno di sentirmi quell'attimino più "amata", forse per la storia del concerto ecc. e che non vedrò i cinque per l'ennesima volta.. Idon't know!
Allora, che ne pensate? Se siete arrivate fin qua (se l'avete fatto ditemelo e vi spedisco un Niall a casa -OFFERTONA SIGNOREE!!- HAHAHAHAHAH.) avrete pur un pensiero del tipo "Sì, scrive decentemente." o "No, preferisco dar da mangiare agli elefanti piuttosto che leggere qualcosa di suo (?) (a quest'ora non sono totalemente in me, e sono solo le otto e un quarto..)." e sono sicura che non vedete l'ora di farmelo sapere.. perciiiò (cioè io ho fatto tutta questa tiritera per arrivare a dire..) SE avete voglia, recensite! ♥
Sì, lo so.. è lunghissima. Spero non vi siate annoiate :)
Levo l'ancora, le tende e tutto ciò che volete.
Alla prossima!
Sys. ♥


  
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