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Autore: Rico da Fe    17/11/2012    2 recensioni
Durante una battuta di caccia sulle Murge, in Puglia, Federico II di Svevia si imbatte nei resti di un'antica e misteriosa città, un cumulo di rovine dall'oscuro passato, cinte da mura immense...
Come nacque una delle perle della mia amata Puglia.
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Medioevo
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Era quasi mezzogiorno.
Il sole era alto nel cielo, e con i suoi raggi infuocati arroventava la campagna apula; si spandeva sulle Murge, invadeva il Tavoliere infuocando le bianche città di Foggia e Lucera, correva sulla piana già bruciata dal calore di luglio, insinuandosi sul Gargano e gettandosi poi nell’Adriatico, che da Venezia portava le sue acque fino a quelle roventi lande, ristorando Barletta, Trani, Molfetta e Bari con le sue onde cristalline, che a Otranto sposavano le calde e mitiche acque bizantine dello Ionio; esse incorniciavano la limpida scogliera del Salento fino a Taranto, dove cedevano il passo alle colline e alle foreste che nell’interno si inasprivano a tal punto da prendere il nome di Aspromonte, per poi addolcirsi lievemente e prendere il nome di Murge.
In una di queste innumerevoli foreste, l’imperatore Federico  stava cacciando con la sua corte. I falchi si levavano in volo sulle cime degli alberi talmente radi da permettere ai cavalli di passarci in mezzo comodamente.
Federico, in sella al suo cavallo nero, sudava copiosamente. Il suo falcone era partito da un bel pezzo, ma non era ancora tornato; forse, penso’ l’Imperatore, era precipitato, arrostito dal sole o da qualche cacciatore affamato. Nonostante si fosse liberato del pesante mantello con cui era uscito la mattina, Federico era piu’ che mai accaldato; la corazza di cuoio impediva al torso di respirare, stringendogli l’ampio torace in una morsa umida e rovente. La camicia di lino, madida di sudore, gli si era ormai appiccicata al corpo; le brache, anch’esse umide, gli tenevano le gambe saldamente appiccicate ai fianchi sel cavallo, anche lui sudato. Le gambe non se la passavano di certo meglio, infilate in lunghi stivali di cuoio alla guascone, alti fino al ginocchio. Le mani, infilate in pesanti guanti, stavano praticamente cuocendo. Guardo’ un po’ gli altri cacciatori: anche loro non se la stavano passando meglio di lui, con quel caldo. Le guardie erano quelle messe peggio: infagottate nelle loro cotte di maglia e nelle loro corazze di ferro, in pratica bollivano a fuoco lento.
Il destriero imperiale si agito’ un po’, schizzando sudore da tutte le parti, e se non fosse stato un bravo cavaliere, Federico sarebbe scivolato di sella.
Stanco di aspettare, Federico parti’ al galoppo, alla ricerca del pennuto scomparso. Zigzago’ un po’ nella foresta, mentre il vento gli scompigliava i capelli dandogli un po’ di ristoro e frescura, ma ben presto gli alberi della Murgia lasciarono il posto a sconfinate distese di campi coltivati, punteggiati qua e la da argentei alberi di ulivo schierati sulle colline come soldati in attesa di un ordine.
 Fra loro, come funghi dall’aspetto bizzarro, si ergevano bianche casupole dalla forma cilindrica, coronate da un tetto a cono marrone. Il sole inondava questo paesaggio, illuminando le spighe di grano dorato e le foglie simili a punte di freccia degli ulivi, e colorando il cielo di un radioso blu cobalto. Le colline si susseguivano intorno a lui, tutte uguali eppure tutte diverse: incantato da questo paesaggio  meraviglioso e ormai dimentico del volatile ritardatario, Federico noto’ una brusca interruzione, uno sfregio, una macchia di colore che su quel magnifico dipinto non doveva esserci. Si fermo’, e il sole ne approfitto’ per tornare alla carica, arroventandogli la nuca e facendolo tornare a sudare. In cima a una collina, proprio davanti a lui, si ergevano alte mura diroccate, grigie e ricoperte dall’edera.
Come attratto da una forza misteriosa, l’Imperatore scese da cavallo e si arrampico’ sulla collina. Arrivato in cima, si fermo’: le mura erano davvero rovinate, eppure avevano una certa imponenza, una sorta di antico splendore che dimostrava che un tempo quelle mura avevano cinto una gloriosa città; sull’arco dell’immensa porta c’era scritto: “ALTILIA, L’ALTRA ILIO”.
Federico chiuse gli occhi. Qualcosa, una specie di antico richiamo, quasi un sussurro, rimasto fino ad allora sepolto sotto quelle pietre si era improvvisamente risvegliato, e serpeggiando tra l’erba alta e le pietre scolorite, lo chiamava, lo invitava ad entrare con una voce dolce e suadente, e accarezzandogli dolcemente il capo, lo spingeva ad entrare.
E Federico entro’.
All’interno, trovo’ solo rovine. Poche pietre sparse qua e la, qualche colonna ionica, il tutto costellato da insidiose erbacce che si inerpicavano minacciando il biancore assoluto dei marmi e dei tufi. Eppure quel posto lo affascinava. Una calma misteriosa, un silenzio secolare, una pace profonda lo pervasero. Immagino’ la vita che ci sarebbe stata se la città fosse esistita ancora: case, strade, botteghe, gente affaccendata, massaie che spettegolavano, bambini che si rincorrevano… e una grande cattedrale, bianca e imponente, a guardia della grande piazza del mercato… tutto questo racchiuso in quel possente recinto di pietra, un oasi di pace protetta da quelle grandi, maestose, ALTE mura… a un tratto, udi’ un verso stridente; si volto’ e scorse il suo falcone, quel rapace che forse senza neanche volerlo lo aveva portato fin li’.
- E cosi’ è colpa tua se sono finito qui’, eh? Beh, sai che ti dico? Hai fatto un ottimo lavoro! Ti meriti una doppia razione di cibo!
Il falco lo guardo’ senza capire, ma poiché il padrone si dimostrava cosi’ generoso, convenne che forse non era il caso di replicare, e svolazzo’ con aria idifferente sul guanto di cuoio del padrone.
Federico e il falcone uscirono, e trovarono il cavallo imperiale in piacevole compagnia: erano le guardie e gli altri cacciatori, che, preoccupati, lo avevano cercato ovunque e infine lo avevano trovato.
-Maestà, perché ti sei allontanato? Abbiamo temuto il peggio!
-Mi dispiace, mammina- rispose la Maestà in questione- vorrà dire che la prossima volta IO, l’Imperatore, chiedero’ il permesso di allontanarmi a TE, una guardia!
Quello si fece paonazzo, e chiese perdono biascicando qualche parola di scusa.
-Non importa- lo rassicuro’ Federico –Deve ancora nascere quello che metterà in pericolo il tuo Imperatore! Adesso, signori, avrei una certa fame; mangerei volentieri qualcosa… possibilmente al fresco, visto che il sole non sembra particolarmente pietoso oggi!
Si fermarono in una di quelle casette bizzarre, che la gente del posto chiamava “trulli”.
I contadini li accolsero volentieri, e appena saputo che uno di quei nobili signori era nientepopodimeno che l’Imperatore Federico in persona, si fecero in quattro per saziare il suo regale appetito e per deliziare il suo raffinato e vorace palato, ma poiché avevano poco cibo in casa, dovettero chiamare i vicini, e insieme ad essi imbandirono una grande tavolata all’ombra di un grosso ulivo contorto, dall’aria piuttosto attempata.
Quando le donne ebbero finito di preparare, si sedettero tutti a tavola, e mangiarono di gusto.
Federico, da buon gentiluomo qual era, fece i complimenti alle cuoche, le quali arrossirono per l’imbarazzo ( a quel tempo non capitava tutti i giorni di avere l’imperatore a casa per pranzo e sentirsi persino fare i complimenti da lui sul cibo).
Pane, olio, cime di rapa, grano cotto, olive… il sovrano gradi’ particolarmente il pane, saporito e morbido come non ne aveva mai assaggiati. Chiese ai commensali informazioni sulle rovine in cima alla collina: i contadini risposero che quelle erano le rovine di un’antica città romana, distrutta da chissà quale catastrofe naturale: un’epidemia, una siccità, uno sciame di locuste, un’invasione…
Loro non ci erano mai andati, perché si diceva che portasse sfortuna varcare l’arco che portava all’interno.
-Ma voi sareste disposti a vivere in una città? E’ molto piu’ confortevole che in campagna!
-Beh, vedi maestà, noi dobbiamo curare i raccolti… le città sono per i mercanti, e noi siamo contadini, non sappiamo commerciare…
-Ma si impara! Tutte le cose si imparano! Credete forse che io non abbia imparato a fare l’imperatore? O che queste guardie non abbiano imparato a fare le guardie? Cosi’ come avete imparato a fare i contadini, potete imparare a fare i mercanti, gli artigiani, et cetera!
-E chi si occuperà dei campi?
-Beh, potreste venderli, e con i soldi aprire una bottega, o una locanda, o una taverna, dipende da cosa volete fare…
-Non sapremmo… comunque grazie lo stesso, ci penseremo!
E fecero intendere che la conversazione era finita. Finito di mangiare, Federico e il suo seguito si alzarono, ringraziarono i contadini e si congedarono.
 
Arrivarono a Gioia del Colle a notte fonda.
L’Imperatore saluto’ le guardie e i suoi cortigiani, e chiese ai servi dove fosse Bianca, la regina.
Gli risposero che stava già dormendo, ma che lo aveva aspettato fino a una mezz’oretta prima, ma, stanca di attendere, si era messa a letto.
Federico si ritiro’ allora nella sua stanza. Si tolse la corazza, i guanti e si sfilo’ gli stivali, tolse la camicia e le brache; dopo essersi infilato un paio di brache da notte, si sciacquo’ un po’ il viso, e si guardo’ allo specchio: cio’ che vide fu un uomo dall’aspetto piacevole, dal portamento fiero e dal fisico robusto e imponente, ne troppo alto ne troppo basso; i capelli e la barba erano castani tendenti al rosso, gli occhi svegli, anch’essi castani ma con qualche venatura rossastra, la fronte alta e il naso diritto. Nell’insieme, si poteva dire che fosse di bell’aspetto, nonostante la delicatezza dei tratti giovanili fosse ormai svanita. Aveva trentasei anni, ma tutti gli dicevano che sembrava piu’ giovane, ed era vero: neanche un’accenno di ruga deturpava quel volto scurito dal sole del sud.
L’Imperatore si mise a letto, pensando a quelle mura cosi’ imponenti, cosi’ affascinanti, cosi’ ALTE… non riusciva a scacciare quel pensiero dalla mente.
- Davvero delle alte mura- continuo’ a ripetersi- alte mura, alte… mura…
Dopo un po’, cullato da questo pensiero, da questa specie di litania, si assopi’.
 
Si sveglio’ la mattina dopo con quel nome in bocca, e temendo di dimenticarlo, lo scrisse su un foglio: “ALTAMURA”. Poi ricordo’ il sogno che aveva fatto quella stessa notte: una cattedrale, bianca, snella e slanciata come a volersi tuffare nel cielo splendente che la incoronava, fiancheggiata da due torri…
La disegno’ sul foglio con il nome della città. Poi si vesti’ e usci’.
Dopo la colazione, decise di portare anche Bianca alle rovine di Altilia.
-Credimi, ti piacerà!!!- le disse per convincerla.
-Non ho dubbi!– rispose lei, felice della gita che le stava proponendo il marito.
Durante il viaggio, Federico la guardo’ spesso di sottecchi, quando lei ammirava il paesaggio dalla sella del suo palafreno bianco.
Era stupenda, soprattutto quando il sole le inondava il volto illuminando gli occhi verdi come le gelide foreste di pino della Germania, i capelli ondulati dolcemente accarezzati dal vento, bruni come il legno di ciliegio, che ricadevano dolcemente sulle spalle del vestito color malva, incorniciando i seni sodi e delicatamente coperti da una scollatura né da prostituta, né da suora.
Ne era follemente innamorato, e temeva di darle figli solo per non rovinare la perfezione del suo fisico e la purezza della sua età.
Arrivati, Federico aiuto’ Bianca a scendere, e insieme si inerpicarono lungo la stretta stradina romana che portava all’antico arco di pietra di Altilia.
-Ecco, questo é…
- Il posto piu’ affascinante e suggestivo che io abbia mai visto!!!
La ragazza si guardo’ intorno estasiata.
-sono felice che ti piaccia!
-oh, si’ è cosi’… tranquillo…
Si sedette su un blocco di marmo, chiuse gli occhi e porse il viso alla brezza che inizio’ ad accarezzarla. I raggi del sole si adagiarono lenti sulle sue labbra, sul suo naso perfetto, sulle sue gote delicatamente arrossate…
Federico non resistette alla tentazione, mando’ al diavolo il papa e la sua stupida religione, e la bacio’. I loro corpi, come le loro labbra, si unirono, lui le tolse il corsetto, lei gli strappo’ la camicia, e poi…
Si ritrovarono distesi sul suolo erboso, tra pietre, brandelli di muri e capitelli corinzi, coperti solo dal manto regale di lui e dall’abito di lei. Bianca si era accoccolata contro il petto di Federico, e fissava distrattamente una colonna ancora in piedi, mentre lui fissava un vecchio altare coperto di edera poco distante. Si alzo’, rovisto’ nei vestiti finché trovo’ in una tasca dei pantaloni la pergamena su cui aveva disegnato la cattedrale. La sovrappose con lo sguardo sul punto in cui sorgeva il vecchio altare diroccato. Si’, l’avrebbe costruita li’.
-Che cos’è quello?- chiese Bianca.
-Questa è la cattedrale di Altilia… o meglio… di ALTAMURA!!!
-E dov’è Altamura?
-Ci siamo noi ora!
-Non capisco…
-Ho intenzione di fondare una città proprio qui, su queste rovine!
Bianca lo guardo’ dapprima senza capire, poi gli sorrise, gli cinse i fianchi con le braccia e gli disse:
-A quanto pare…- guardo’ i vestiti ammucchiati per terra e i segni della loro “unione” sul blocco di marmo- l’abbiamo appena inaugurata!
 
 
 
I mesi che seguirono furono molto impegnativi.
Federico torno’ a Palermo, la capitale, e per un bel po’ si diede da fare per raccogliere il maggior numero possibile di architetti, cartografi e ingegneri per la costruzione della città. Li fece arrivare da tutte le province dell’Impero, da Francoforte, da Brema, da Genova, da Firenze, ma anche da Parigi, Marsiglia, addirittura Damasco, Aleppo, Bassora e Alessandria.
Collaboro’ con loro nel disegno degli edifici principali, perfeziono’ il progetto della cattedrale e consulto’ i migliori architetti militari d’Europa, per la ristrutturazione delle mura.
Pian piano, Altamura prendeva forma davanti ai suoi occhi; spesso si aggirava per le strade di Palermo cercando di cogliere tutti gli aspetti piu’ nascosti della città. Annotava tutto su un foglio di pergamena, che poi consegnava alla sua squadra di architetti affinché ne ricavassero spunti e idee per Altamura. Nulla sfuggiva agli occhi avidi dell’imperatore, dall’interno botteghe alla loro disposizione sulle vie, dalla posizione delle bancarelle nella piazza del mercato ai punti in cui sorgevano le fontane, senza trascurare le misure strategiche da prendere in caso di assedio, penso’ persino alla collocazione di eventuali parchi o chiostri.
Non dimentico’ neppure gli aspetti piu’ caratteristici di una città, come le specialità gastronomiche, le feste, le ricorrenze,… penso’ persino a un sistema di lanterne e lampade per illuminare le strade di notte in modo da evitare ai futuri “altamurani” brutti incontri.
Voleva una città che fosse viva, che rappresentasse degnamente il suo passato, voleva cancellare il periodo delle rovine e fare in modo che quella desolazione, quella calma, svanissero per sempre sostituite dal clamore, dall’allegria e dalla vitalità di una città viva…
Quello che sarebbe stata Altilia se non fosse giunta quella misteriosa calamità che l’aveva stroncata in un’epoca lontana. Dalle ceneri della defunta Altilia sarebbe sorta Altamura, come una fenice sorge dalle ceneri di sua madre per poi levarsi in volo verso il futuro infinito.  
 
 
 
 
 
 
  
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