CAPPUCCETTO ROSSO
Era
bella, Rosetta, bella come lei non era stata mai neanche a quell’età, pensava
Fortunata mentre osservava la figlia riempire il paniere e accomodarsi il
fazzolettone rosso sui ricci dorati. Rassomigliava precisa a suo padre, gli stessi
capelli come grano, gli stessi occhi chiari come il mare di fronte alla Piana
di Metaponto. A Rocco piaceva ascoltare le storie, gli piaceva leggere, per
questo sapeva tante cose che lei ignorava. Aveva letto I Miserabili e la Gerusalemme Liberata, sarebbe
diventato qualcuno se non fosse stato così povero. E le raccontava che i
cavalieri calati dal Nord i quali, secoli prima, erano stati i signori di
quelle terre, avevano gli stessi capelli biondi e gli stessi occhi azzurri suoi
e di Rosetta.
Ma quelli non erano i tempi dei castelli
abbarbicati in cima alle colline, della magia e delle fiabe. Rocco se n’era dovuto andare a faticare da manovale a
Reggio, c’era parecchio da fare, dacché un anno prima il terremoto aveva
distrutto quasi tutta la città , e l’aveva lasciata con tre figli piccoli, la
promessa di tornare presto e la sua gelosia.
Uno
come Rocco non era per lei, se l’era detto da subito: alto, bello, biondo e di
dieci anni più giovane. Forse non sarebbe stato per lei, se solo fosse stato un
pochino meno povero: originario di Ferrandina, aveva appena terminato il
militare, non aveva più né padre né madre
né un soldo in tasca, ma era sano, forte, e la voglia di lavorare,
quella non gli faceva difetto. Era stato un sensale di matrimoni a metterlo
sulla sua strada quando ormai, a trentatré anni quasi fatti, Fortunata si era
rassegnata a morire zitella. Rocco, orfano e solo, cercava una brava ragazza
che lo accudisse e lei lunga, e secca, e nera, e così vecchia che già i capelli
crespi come quelli di un’africana le si brizzolavano sulle tempie,si era
ritrovata moglie di quel bel giovane sempre allegro, che suonava la
fisarmonica, non andava a sbronzarsi alla bettola, non bestemmiava, non batteva
la sua donna come facevano in tanti e che tutte le amiche le invidiavano. Era
stata fortunata, sì. Fortunata di nome e di fatto: unica figlia di genitori
ormai vecchi, avrebbe ereditato la casa, l’orto e quei quattro soldi cuciti nel
materasso, che erano pochi e sarebbero finiti presto, ma Rocco non aveva neanche
quelli,altrimenti non l’avrebbe voluta,
brutta e vecchia, e non ci avrebbe fatto assieme tre bei figli che gli
somigliavano precisi, biondi come lui, e con le fossette alle guance.
Un
uomo come Rocco non le doveva niente
più che il rispetto, ma per Fortunata guardarlo e innamorarsene era stato un
tutt’uno. Forse non era giusto, ma era bello, e mattina e sera ringraziava il
Signore per quello che le aveva dato. Anche adesso che non c’era, che stava in
città a guadagnarsi il pane e lei al paese, a rodersi di tristezza e di
gelosia. Le donne di città, povere e ricche, belle e brutte, giovani e vecchie,
tutte malefemmine scostumate erano.
“Appena
mi riesce di mettere via un po’ di soldi, ce ne andiamo in America. Cambiamo
vita”. Glielo diceva sin dai primi tempi, ma come potesse cambiare vita
faticando a giornata sulle terre degli altri Dio solo lo sapeva. E anche lei,
sferruzzando calzerotti di lana e aiutando nei mestieri di casa certe signore
del paese non è che potesse contribuire più di tanto a ingrassarlo, il bilancio
familiare. D’inverno, Rocco pigliava il suo fucile e se ne andava per i boschi
a sparare ai lupi. Ogni pelle, un tanto, ed era sempre poco. Per sperare in
qualche cosa di più, se n’era dovuto andare a stare tutto solo in quella
maledetta città, e rientrava a vedere la famiglia un paio di giorni all’anno
soltanto: quand’era per Natale, non era per il Patrono. “Coraggio, ancora per
poco…”
“I
lupi sono straordinari: nel branco, sono il maschio più forte e la femmina più
bella a comandare la caccia e a mettere
al mondo i cuccioli; non sono cattivi
come la gente crede, Rusinè…E’ che il mondo è troppo piccolo per starci bene i
pastori e anche le bestie selvatiche”. Rosetta era come suo padre, non aveva
paura quando sentiva i lupi gridare alla luna, nelle notti d’inverno. Le
piacevano gli animali, e il bosco era un bel posto, pieno di fiori, funghi e
more selvatiche da raccogliere. Un giorno, erano passati due anni da allora, il
padre le aveva portato un cucciolo: un batuffolo che aveva il pelo colore della
buccia di castagna, due occhi chiari e sfacciati, un orecchio su e l’altro giù.
Fortunata aveva brontolato, in casa manca il pane per i figli e tu mi porti un
cane. Non potevo lasciarlo guardare la
madre che moriva , con una zampa presa nelle ganasce di una tagliola e tutto il
sangue a inzuppare la terra lì intorno. Le ho sparato, non posso vedere gli
animali soffrire. Il cucciolo l’ho preso e messo dentro la bisaccia. E’ un bel
maschio, se lo conosco bene non ci resterà a lungo, dentro questa casa, a
sfamarsi con gli avanzi del nostro pane.
Così
era stato, e aveva pianto, Rusinella. Scappato, fuggito via. Nessuno gli ha
fatto del male, è lui che ha scelto la sua vita. Ma lei aveva pianto, come
quando suo padre era andato a lavorare in città. Come piangeva ogni volta che
nonna Rita, vecchia arpia, la sgridava se non era abbastanza solerte nel
disbrigo delle faccende. Nonna Rita. Perché diavolo la chiamassero così nessuno
lo sapeva: non era poi così vecchia, e nipoti non ne aveva. Se per quello, neppure si era mai sposata, ma
la rispettavano tutti quanti perché aveva una bella casa, un fratello prete e
un orologio d’argento appeso a una lunga catena che le ballonzolava sul petto
florido.
“Sbrigati, Rose’. Quella ti
aspetta. E statti alla larga dal bosco”.
Era
nel bosco che, quasi venti anni prima, Maria di mastro Cataldo, a dodici anni
neppure fatti, ci aveva perso l’onore, quando un forestiero le era saltato
addosso. Maria gridava, e quello l’aveva picchiata a sangue per farla star
zitta. Alla fine, le ferite si erano rimarginate, ma l’onore era andato per
sempre, e nessuno l’aveva voluta, bella com’era. Perché la bellezza non vale
niente se a uno sposo non hai più da offrire la tua innocenza.
Di
Maria, Rosetta era più bella, anche se aveva due anni in meno di quelli che
aveva lei, al tempo della disgrazia. E, crescendo, lo sarebbe diventata ancora
di più. “Finisco le scuole e ti sposo”, le diceva per scherzo Mimì, il figlio
di don Tano, quello che teneva la bottega in paese e prestava soldi a strozzo.
A dodici anni, l’avevano mandato a studiare dai preti a Potenza. Sicuramente
scherzava. O forse no. Qualche anno ancora, pensava Fortunata accarezzando i
suoi sogni, qualche anno ancora e avrebbe fatto sul serio. Mimì era ricco e
quello che aveva non l’avrebbe dovuto dividere con nessuno, perché era l’unico
figlio partorito da donna Carmela che l’avesse schivata dalla maledizione di
campare giusto in tempo per prendere il battesimo e morire da cristiano,
com’era capitato ai suoi fratelli. Rosetta avrebbe avuto un marito ricco
che l’avrebbe rispettata, ricoperta
d’oro, e non l’avrebbe abbandonata per guadagnarsi il pane lontano da casa.
Rosetta sarebbe stata felice.
“Statti alla larga dal
bosco, Rose’!”
*
Perché
mai doveva restare alla larga dal bosco? Era un posto così bello, pieno di
fiori e di uccelli che cantavano. E le more erano buone e dolci, anche se, a
mangiarle, ti venivano certe labbra nere e, prima, dovevi scorticarti le mani
per raccoglierle in mezzo alle spine. La mamma non gliel’aveva mai detto: ma
forse le seccava soltanto che arrivasse in ritardo da nonna Rita e si facesse
sgridare. Prima o poi, la vecchia le avrebbe preferito qualche altra ragazza di
paese, qualcuna meno scervellata, e i quattro soldi che guadagnava aiutandola a
riassettare la casa e a stirare i panni, sarebbero sfumati. Anche quattro soldi
soltanto fanno comodo, in una casa dove non ce ne sono abbastanza.
Il
sole di fine settembre era tiepido, i fiori ricami colorati sopra un tappeto
morbido come in chiesa. La terra profumava di muschio e di foglie cadute e una
brezza leggera faceva frusciare i cespugli. Rosetta avrebbe desiderato che
occhi pungenti color del miele spiassero i suoi passi e che, alla biforcazione
del sentiero, il vecchio amico le comparisse ancora davanti, saltellandole
intorno per invitarla al gioco, leccandole le mani con la lingua rosea e
morbida. Lo aveva chiamato Ciccio ed erano quasi due anni che non lo vedeva.
“Quello
non era un cane”. Era un lupo. Un figlio del diavolo e del vento, malgrado il
suo aspetto tenero e paffuto di allora potesse trarre in inganno. In due anni
chissà quanto doveva essere cambiato.
“Che ci fai tutta sola nel
bosco, Rosetta?”
Il fruscio tra i
cespugli non era il passo felpato del lupo. Era don Tano, con un cesto di
funghi infilato nel braccio, la faccia rossa e sudata, la pancia grossa sotto
la giacca di fustagno marrone. Era così brutto, e suo padre tanto bello. Mimì,
il figlio che studiava dai preti, scherzando le diceva che l’avrebbe sposata,
ma lei non l’avrebbe voluto per tutto l’oro del mondo, perché di lì a pochi
anni sarebbe diventato tale e quale a don Tano, brutto e grasso e sudato
proprio come lui.
“Tu lo sai dove sono i
funghi, bella Rosetta… Se me lo dici, ti porto dove ci stanno ancora le more…”
Mamma
le aveva detto di non dar retta agli sconosciuti, ma don Tano lo conosceva
bene: ci andava tutti i giorni o quasi a comprare la pasta e la conserva nella
sua bottega, e lui le regalava le mentine. Lo accompagnò dove crescevano i
funghi e lui l’afferrò per un braccio, stringendo da farla
piangere. Era rosso e sudato, la patta dei calzoni aperta come se dovesse
mettersi a pisciare. Non doveva guardarlo, o sarebbe finita all’inferno, perché
certe cose al confessore non le avrebbe dette mai, si vergognava troppo. E lui,
con la mano grassa e sudata, prese a brancicarla sotto le gonne.
“Devi
solo essere gentile con me…Io con te lo sono sempre stato…E mamma tua non ne
deve sapere niente, di questo segreto: né lei, né nessuno…”
Urlò
e l’uomo la zittì con uno schiaffo. Il sangue che le colava dal naso sapeva del
sale delle sue lacrime. Don Tano era diverso da quello che ricordava, gentile e
cortese dietro il bancone della bottega dove si vendevano la pasta, la
conserva, lo stoccafisso e perfino la
stoffa per i vestiti. Era un mostro e l’avrebbe ammazzata. La mamma doveva
saperlo, ed era per quello che le diceva di starsene alla larga dal bosco.
Lo
vide, attraverso il velo delle lacrime, armeggiare con la patta dei calzoni.
Avrebbe voluto urlare, vomitare, sputargli in faccia, ammazzarlo: ma era solo
una bambina di dieci anni, e lui un mostro, l’orco delle favole. Il prete, a
dottrina, le aveva detto dell’angelo custode, e forse…
“Angelo di Dio…che sei…”
I
suoi occhi non erano cambiati. Chiari, acuti, pungenti. E il pelo ispido sui
fianchi magri aveva il colore delle castagne mature. Gli orecchi, tesi
all’indietro, erano uno su e uno giù, come quando l’aveva visto per la prima
volta e se l’era stretto, povero cucciolo senza mamma che le solleticava le
dita con la linguetta umida. Ma don Tano doveva aver visto solo il ghigno delle
zanne scoperte, la forza dei suoi cinquanta chili lanciati come un proiettile
in direzione della sua gola. Boccheggiò, si artigliò il petto per rallentare i
battiti del suo cuore impazzito e infine crollò, ammazzato dalla sua stessa
paura. Il lupo. Il figlio del diavolo e del vento.
“Ciccio…”
“Non è successo niente,
Rusinè. Niente”.
La
voce di suo padre, a riportarla tra i vivi, il suo odore caldo e familiare, le
sue braccia a proteggerla da tutto il male del mondo.
“Ciccio…Stai con me sempre…”
“Ha scelto la sua vita,
Rusinè. Nel folto, deve avere una compagna e dei cuccioli da proteggere…ha
scelto la sua vita.”
“Non ci tornate più, a
Reggio, non è vero?”
“Adesso resto con voi per
sempre. Ho i biglietti, una settimana ancora e si va in America”.
FINE