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Autore: dilpa93    19/11/2012    7 recensioni
"Il video durava un paio di minuti, non era certo un film da oscar, ma poteva andare.
Non era sicuro di essere autorizzato a farlo, ma ‘occhio non vede, cuore non duole’ e dubitava che Kate lo avrebbe mostrato a medici ed infermiere."
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Quasi tutti, Rick Castle | Coppie: Kate Beckett/Richard Castel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
- Questa storia fa parte della serie 'Everything can change'
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Allungò le braccia e si stiracchiò leggermente, si passò una mano tra i capelli arruffati e poi sotto gli occhi, sentendo la presenza di quelle occhiaie che da tre mesi le solcavano il viso.
 
Il piccolo era terribilmente vivace, si muoveva in continuazione, specialmente quando Castle non c’era, quasi come se ne sentisse l’assenza.
 
Respirò poi quel profumo che ormai le era terribilmente familiare, un profumo che mischiato a quello così dolce e rilassante del suo uomo sul cuscino, creava una fragranza che sapeva di passeggiate romantiche al chiaro di luna sulla spiaggia, di lotte con i cuscini la domenica appena svegli, di baci rubati, di lunghi abbracci sul divano. Il profumo di una rosa rossa… Una rosa che le lasciava ogni mattina sul comodino prima di uscire insieme ad un carezza e un bacio sulla fronte che la facevano sorridere nel sonno.
Si voltò sul fianco e la vide lì, al solito posto, quasi la stesse fissando nello stesso modo in cui di notte lui la guardava dormire. Era ancora chiusa a bocciolo; sul lungo gambo verde spuntavano quattro piccole foglioline. Accarezzò dolcemente con un dito i petali vellutati mordendosi il labbro mentre ripensava alla tenerezza che riusciva a vedere in ogni gesto di Rick.
Scostò le lenzuola e si mise in piedi sistemandosi la maglietta, un tempo grande ed informe, ma che ora le calzava a pennello tirandole di poco sul ventre, che usava come pigiama.
Raggiunse la cucina notando sul bancone un piatto con un paio di croissant, si sentiva ancora il loro aroma sparso per la stanza. Si avvicinò e ne strappò un pezzo, poi si voltò in cerca del caffè con cui accompagnare il resto della brioche. Sulla caffettiera notò un piccolo post-it giallo e la sua scrittura inconfondibile.
“ti ho già preparato il tuo decaffeinato” storse il naso “e non fare quella faccia, è per il vostro bene” scosse lievemente il capo, e il sorriso che lui definiva sempre ‘da romanzetto rosa’ comparve sul suo volto e le tenne compagnia mentre leggeva le ultime parole sul foglietto “vi amo”.
 
Versò nella tazza quella bevanda fasulla, ma quando fece per afferrarla un forte dolore la colse alla sprovvista. Si piegò su se stessa portandosi le mani sul pancione facendola cadere.
Serrò la mascella e inspirò a fondo; quando riaprì gli occhi vide la ceramica colorata in pezzi sul pavimento e il liquido nero disperdersi tra le fughe delle mattonelle.
 
Per un istante pensò di anticipare la visita di controllo fissata tra un paio di giorni, ma poi le tornò alla mente che il dottore le aveva detto che falsi allarmi, ‘finte contrazioni’ potevano capitare.
Doveva solo fermarsi, non fare sforzi, e sicuramente tutto sarebbe passato in un attimo.
Ma, arrivata alle spalle del divano, fu scossa da un’altra fitta, più forte, più dolorosa; non voleva cedere, non voleva chiamare Rick. Lei era sempre stata una donna orgogliosa ed indipendente, e non sarebbe certo stata una gravidanza a farla apparire debole.
Questo pensiero si dissolse con l’arrivo di una terza contrazione, e quando si sentì bagnata, notando un rivolo di sangue scorrerle lungo la coscia, spostò l’attenzione sul parquet ora bagnato da un liquido trasparente e uno vermiglio. Fu allora che si convinse ad afferrare il cordless.
 
L’uomo rispose dopo un paio di squilli.
‘Detective, non riesce a stare senza di me neanche un paio d’ore…?’ Commentò ironico ‘Sono in ascensore, fra poco-’
‘Zitto e ascoltami’ lo interruppe bruscamente conoscendo la sua abilità nel blaterare ‘C’è qualcosa che non va, c’è qualcosa che non va col bambino, dobbiamo andare subito in ospedale. Probabilmente ha deciso che è arrivato il momento.’
‘C-come? Q-quando? È ancora presto, manca ancora un mese, sei alla trentaquattresima settimana, lui…”
“Lo so, ma non posso dirgli di restare dov’è!”
“Dieci secondi e arrivo.”
Appena l’ascensore raggiunse il piano si catapultò nel loft, trovando Kate, pallida, sudata, semi-sdraiata accanto al divano e la chiazza rossa sempre più grande.
L’aiutò attentamente ad alzarsi e poi, presa la macchina raggiunsero l’ospedale.
 
Quando le porte scorrevoli si aprirono lo scrittore entrò con in braccio Kate.
“Qualcuno… per favore, mi serve aiuto!” Urlò affannato; le infermiere del piano la soccorsero prontamente facendola stendere su di una barella.
 
Faceva male, terribilmente male; lo sapeva, se lo aspettava, ma non così. E quella perdita di sangue… era troppa, decisamente troppa.
 
Le venne posata sul ventre la sonda, ed in pochi secondi il motivo di tanto dolore venne rivelato: distacco precoce della placenta.
 
Era già debole, e la stretta attorno la mano dello scrittore si allentava sempre di più; immediatamente le venne praticata una trasfusione per cercare di limitare i danni dell’emorragia.
Il prossimo passo sarebbe stato quello di un cesareo di emergenza, non c’erano altre soluzioni, il bambino sarebbe dovuto nascere… adesso.
 
E così anche lei sparì, dentro una sala operatoria, lasciandolo solo.
 
Si accasciò su di una sedia; teneva la testa stretta tra le mani, ascoltava le sue scarpe in cuoio nero scricchiolare mentre tamburellava con i piedi sul pavimento in linoleum grigio. Era talmente assorto da non accorgersi del suo cellulare che squillava, almeno fino a che una signora, seduta appena dietro di lui, non si schiarì la voce interrompendo i suoi pensieri.
“Signore, signore.”
“Mh?”
“Il cellulare.”
“Come?”
“Il suo cellulare, sta suonando.” Disse alquanto seccata.
“Certo, mi scusi.” Ancora scosso si allontanò avvicinandosi alla finestra che dava sul parcheggio delle ambulanze.
Fece scorrere l’indice sul display accettando la chiamata.
 
 
Strano che la porta fosse aperta, anche quando scendeva per andare a ritirare la posta che gentilmente il portiere gli aveva messo da parte, Richard la chiudeva sempre. Era così da quando era nata Alexis.
 
Dio quanto le mancava…
 
La aprì cautamente.
“Richard sono a casa!” nessuna riposta “Richard, Kate!” Ancora niente.
Si abbassò poggiando i sacchetti, che le occupavano le mani, accanto all’attaccapanni lì all’ingresso; adorava andare nei negozi per neonati e mettere mano tra ciucci, biberon, tutine e mini salopette.
Solo quando fece per avvicinarsi al tavolino assicurandosi che non avessero lasciato alcun un biglietto, notò la macchia sul tappeto bianco.
A passo sempre più svelto si mosse per il loft chiamando a squarcia gola; non erano in casa, non c’era nessuno. Il cuore cominciò a batterle forte, e con mani tremanti recuperò il telefono e compose, in un gesto automatico, il numero del figlio.
Stava per mettere giù quando sentì la sua voce dall’altra parte.
‘Pronto…’
‘Grazie a dio stai bene, cos’è accaduto? Caro perché la porta di casa era aperta, dov’è Kate? E cos’è quel sangue sul tappeto?’
Si stropicciò il volto prima di risponderle, si era scordato di avvisarla e questo non glielo avrebbe perdonato facilmente.
‘Le si sono rotte le acque, siamo in ospedale. Lei… Kate ha avuto un’emorragia, le stano facendo un cesareo adesso.’
‘oh Darling… Dove siete?’
‘Al Saint Joseph.’
‘Vi raggiungo immediatamente. Vuoi che avvisi qualcuno al distretto?” Ma lui aveva già riattaccato.
 
 
Giornata piatta, sembrava che gli assassini di New York avessero deciso di prendersi le ferie tutti insieme. Di Castle, che aveva promesso di passare almeno per poter portane aggiornamenti a Kate, neanche l’ombra. La Gates era chiusa nel suo ufficio con aria abbattuta; forse era successo qualcosa a casa, ma Ryan non aveva abbastanza coraggio per andare a chiederle se ci fossero problemi.
 
Meno domande le si facevano sulla sua vita privata , meglio era.
Era questa la prima cosa che avevano imparato al suo arrivo.
Ma quella mattina… quella regola sarebbe valsa anche quella mattina? La risposta era semplice, no, perché quella mattina forse parlare era l’unica cosa di cui aveva veramente bisogno. Orgogliosa aspettava che qualcuno, troppo curioso per farsi gli affari suoi, si facesse avanti con qualche impudente domanda, ma in cuor suo sapeva bene che questo non sarebbe accaduto, perché ciascuno dei presenti era intimidito dal suo fare autoritario, duro, in una parola da ‘capo’.
 
Così l'irlandese se ne stava lì, a dondolarsi sulla sedia giochicchiando con la cravatta, mentre fissava la scrivania del suo compare vuota -anche Esposito lo aveva abbandonato, andato al piano di sotto per passare un po’ di tempo con Lanie- sperando che il telefono squillasse, quando ciò avvenne.
 
‘Se bastava pensarlo lo avrei fatto anche prima’ disse tra sé.
 Se solo avesse saputo cosa avrebbe comportato quella chiamata, probabilmente avrebbe preferito starsene senza far nulla ancora per un bel po’.
Quando rimise giù il ricevitore percorse rapidamente le scale per raggiungere il laboratorio, pregando di non trovare i suoi colleghi in atteggiamenti equivoci.
“Ehm ehm…” Tossì appena per richiamarli.
Si staccarono imbarazzati “Ryan ti sembra questo il modo!” Esclamò Javier prima di passarsi la mano sulle labbra arrossate.
“Scusate, ma si tratta di Kate.” Non fu necessario dire altro.
 
Aprirono la porta con prepotenza e il capitano sembrò risvegliarsi da quella sorta di coma in cui era piombata quella mattina.
“Detective, non si usa più bussare?” Li ammonì arcigna.
“Ci spiace signore. Volevamo chiederle se poteva darci il resto della giornata libero?”
“Le buone maniere vengono messa da parte per poco. E sentiamo, perché mai dovrei farlo, avete programmato una vacanza di gruppo?” Li schernì con aria pungente.
“Si tratta della detective Beckett. Abbiamo saputo che è in ospedale, vorremmo raggiungerla.”
“Non è la prima donna a partorire. Potrete andare quando avrete finito il vostro turno. Credo che resisterà senza di voi. C’è altro?”
“Veramente si. Ha avuto delle complicanze, e visto il momento che sta attraversando Castle in questo periodo vorremmo essergli accanto.”
“Che genere di complicanze?” Chiese e, se non fosse perché la conoscevano bene, a tutti e tre parve di vedere nei suoi occhi una luce simile alla... preoccupazione?
“Noi n-non lo sappiamo." Rispose titubante l’ispanico.
La Gates si voltò fissando fuori dalla finestra, e rimase così, immobile, mentre un piccolo pettirosso la guardava con gli occhietti neri poggiato sul davanzale cinguettando.
“Signore…?” Tentò di richiamare la sua attenzione la patologa.
“Come? Certo certo, andate, e mi raccomando, portate il mio sostegno al signor Castle e fatemi sapere.”
“Grazie capitano.”
Richiusero la porta alle loro spalle e poi si guardarono sorpresi.
“È stato strano, non trovate?”
“Molto, ma ci penseremo dopo, ora è meglio andare prima che cambi idea.”
 
 
Le dita picchiettavano nervosamente sul banco dell'accettazione, nessuno voleva darle retta, nessuno sembrava volerla aiutare.
Spazientita sbatté violentemente la mano sul bancone, e si mise da sola a girare per i corridoi, finché non lo riconobbe. Sempre lì, impietrito, sulla sedia, a ripetersi nella testa ‘breath, just breath’ come cantava una canzone.
“Oh caro!” Esclamò andandogli incontro; gli si mise vicina e gli circondò le spalle in un abbraccio.
Gli occhi della rossa incontrarono quelli azzurri dello scrittore; limpidi, quasi trasparenti. Lucidi, stracolmi di acqua salata, di paura, ma anche di speranza.
Non ebbe tempo di reagire, di confortarlo come solo una madre sa fare, perché dei passi alle loro spalle fecero sollevare il capo ad entrambi e sorridere, anche se solo per una frazione di secondo.
 
Era bello vederli lì; lì per lui, ma soprattutto per lei. Per quella ragazza che al 12th aveva trovato una seconda casa dopo che la sua era stata devastata da un perdita quando era ancora ‘Katie’ e non ‘detective Beckett’.
 
Quando alla fine a loro si aggiunse anche Jim, sembrò di essere tornati al giorno di 3 anni prima; solo che adesso le vite in gioco erano due, e, cosa più importante, la parte del drago era giocata non da una persona, ma dal destino; perfido, insolente… Imprevedibile.
 
A vederli dall’esterno potevano sembrare buffi. Tutti con le gambe tremolanti, che rimbalzavano non appena i piedi toccavano suolo, con una sincronia che si sarebbe potuta definire perfetta.
Ognuno aveva i suoi pensieri; chi preoccupato di perdere la sua migliore amica, chi una partner fedele, chi una figlia nonché ancora di salvezza, chi una nuora speciale. E chi temeva di perdere tutto questo, perché per Rick, lei era in primo luogo un’amica, un rifugio, la sua amante, la roccia a cui aggrapparsi nei momenti di fragilità; partner nella vita e nel lavoro, la donna di cui prendersi cura da qui all’eternità.
 
E dopo neanche un’ora gli sembrava di impazzire; per anni era rimasto a guardare Kate distruggere la sua vita, passo dopo passo, senza poter far nulla, perché qualsiasi cosa l’avrebbe ferita; era talmente vulnerabile allora, anche se lei era convinta dell’esatto opposto. E ora, ora che finalmente tutto sembrava passato, che la vita sembrava volergli dare una mano, ecco che invece gli aveva giocato solo un brutto scherzo e gli aveva voltato di nuovo le spalle. Prima con la sparizione di Alexis, e adesso con la gravidanza; e il fatto di non poter far nulla per aiutarla, di non sapere come stessero andando le cose, lo rendeva pazzo.
 
Il leggero fruscio prodotto dalla porta scorrevole attirò la sua attenzione, così come quella della donna che gli sedeva accanto stringendogli la mano e dei 'colleghi' al suo fianco.
“Come sta? Come stanno?” Corresse immediatamente la domanda posta al medico ancora prima che avesse il tempo di slegare la mascherina.
“Stanno terminando i controlli necessari, il piccolo è nato prematuro e il distacco placentare avrebbe potuto causare dei danni a livello cerebrale, ma dagli esami effettuati sembra tutto a posto. È leggermente sottopeso, ma di questo non si deve preoccupare.”
“E mia moglie, come sta mia moglie?”
“Fortunatamente l’emorragia non è stata particolarmente violenta…” Lo scrittore trattenne il fiato mentre gli occhi si muovevano rapidi seguendo il movimento delle labbra dell’uomo davanti a lui. “Si riprenderà.”
Tutti tirarono un profondo sospiro di sollievo “Posso andare da lei?”
“Sarebbe meglio lasciarla riposare… se mi segue la porto a vedere suo figlio, cosa ne dice?”
 Si voltò cercando una conferma che trovò in tre semplici parole dell'uomo che da quando era arrivato, era rimasto in silenzio, pregando, per la seconda volta, che la sua nemica giurata, la morte, non si portasse via con sé anche la figlia “Restiamo noi qui.”
“D’accordo.” Sospirò con il visto tirato in un sorriso alquanto forzato.
 
Lo vide lì, oltre il vetro, ed un’aria interrogativa gli rabbuiò il volto.
“Perché…? Co-cos’ha? Perché è lì? Mi aveva detto che stava bene! Lei mi aveva,detto-”
“Si tranquillizzi signor Castle, è solo una precauzione.” Rispose calmo, forse abituato a quel tipo di reazione “È la prassi per i nati prematuri. Dovrà restare così almeno per le prossime quarantottore, ma se vuole può entrare. La manderò a chiamare da un’infermiera non appena sua moglie si sarà svegliata.”
“Si, si.” Prima di sparire nella stanza si arrestò “Mi scusi per come ho reagito e… grazie di tutto.” Il medico gli sorrise e, voltandosi, lo lasciò.
 
La sua mano poggiava sull’incubatrice.
Quanto avrebbe voluto poterlo prendere in braccio e stringere; sorrise nel pensare a quanto si sarebbe infuriata Kate quando avrebbe saputo che non avrebbe potuto vederlo, né toccarlo.
 
Tornò a guardarlo.
Gli occhietti chiusi, le manine aperte appena, la pelle di poco arrossata.
 
Avrebbe voluto dirgli molto, parlargli della famiglia, vantarsi un po’ di sé, cosa che faceva sempre alzare gli occhi al cielo alla detective, raccontargli una favola, come aveva fatto ogni sera prima che nascesse e come avrebbe continuato a fare per tutte quelle avvenire, ma in quel momento non una parola usciva dalle sue labbra.
L’unica cosa che la sua mente riusciva ad elaborare era quanto quel bambino fosse perfetto; era il loro ‘bambino perfetto’. Ancora non riusciva a crederci, non riusciva a credere di aver creato una famiglia con lei, con la donna che era entrata nella sua vita grazie ad un assassino psicopatico, la donna tanto forte fuori e così fragile dentro; con la donna che aveva sempre odiato averlo fra i piedi, che più di una volta l’aveva definito un bambino fastidioso ed egocentrico. La donna che era capace di farlo impazzire solo sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, o mordendosi il labbro imbarazzata. La donna che aveva dato un senso ad ogni canzone, che aveva dimostrato quanto vera fosse la frase ‘l’importante non è la destinazione ma il viaggio’, perché conquistarla era stato il viaggio più difficile, appagante, stressante, a volte terrificante, meraviglioso, frustrante, sorprendente che avesse mai fatto.
La donna di cui si era innamorato lentamente, fino a perdere il fiato.
 
 
“Signore… signor Castle…” La voce, inizialmente debole, si fece sempre più forte.
Sbatté le palpebre più volte; doveva essersi addormentato.
 
 
Appoggiato allo stipite la guardava; pallida, non aveva ancora ripreso il suo bel colorito, le palpebre che accennavano leggeri movimenti.
“Non stare lì a fissarmi, sai che non lo sopporto.”
Lui rise appena “Scusa, ma è inevitabile.” Si lasciò sfuggire entrando.
Avvicinò la sedia al letto, le si mise accanto prendendole la mano, quella stessa mano che aveva sentito scivolare via dalla sua qualche ora prima.
“Come ti senti?”
“Stanca… Ho avuto paura, davvero paura. E se Ethan-“ si bloccò di colpo cominciando a guardarsi intorno “Etahn sta bene, non è vero?”
“Si amore.”
“E dov’è, come sta?”
“Shh, ehi, non ti preoccupare, sta bene. È forte, modestamente ha preso da me.”
Una gomitata in pieno petto gli spezzò il fiato per qualche secondo “Ahio!”
“Richard Castle, sgonfia il tuo ego e dimmi dov’è mio figlio!”
“Ascoltami e non agitarti. Lui sta bene, lo hanno dovuto mettere nell’incubatrice. È questione di un paio di giorni, ma sta bene, capito?” Terminò portando le labbra a contatto col palmo della sua mano.
“Posso vederlo, mi ci porti?” Tentò con quello sguardo da cucciolo che lui sfoderava sempre quando voleva ottenere qualcosa, ma ne aveva ancora di strada da fare per arrivare ai suoi livelli.
“Non puoi muoverti, ordini del medico.”
“E da quando tu esegui gli ordini?” Chiese con pungente ironia.
“Io? D-da ora, ma se mi lasci prendere il telefono…”
Con prepotenza glielo strappò dalle mani; normalmente lui avrebbe sbuffato, ma era contento di vederla reagire in quel modo, significava che stava bene.
 
Il video durava un paio di minuti, non era certo un film da oscar, ma poteva andare.
Non era sicuro di essere autorizzato a farlo, ma ‘occhio non vede, cuore non duole’ e dubitava che Kate lo avrebbe mostrato a medici ed infermiere. No, lei lo avrebbe custodito gelosamente, allo stesso modo in cui aveva tentato di reprimere le lacrime che però erano sfuggite al suo controllo.
Richard lo trovava estremamente dolce, così ‘non da lei’, così da ‘una nuova Kate’.
Non resistette e la baciò sulle labbra, con foga, con passione, con amore.
“E questo a cosa lo devo?”
“Al fatto che ti amo.”
Anche se non lo diede a vedere, la dura Beckett si sciolse a quelle parole.
“Vieni qui.” Sussurrò.
Lo fece alzare e sdraiare al suo fianco, ed insieme tornarono a guardare il loro bambino respirare finché un vociare non li interruppe.
 
I loro amici, la loro famiglia faceva capolino sulla porta.
“Possiamo?”
“Papà! Certo che potete.” Esclamò felice.
Castle, alzatosi, andò a stringere calorosamente la mano di Jim, impaziente di poter lasciare un bacio sulla fronte alla figlia.
Un paio di pacche sulla spalla con Ryan ed Esposito, un leggero abbraccio a Lanie, e poi andò a stringere sua madre più forte che poteva.
La sentì ricambiare con la stessa forza.
“Mamma…”
“Lo so caro, lo so, manca anche a me.” Bisbigliò con il viso ancora poggiato sulla sua spalla.
Si allontanarono lentamente, e Martha tentò di sistemarsi il più accuratamente possibile i capelli e il trucco leggermente sfatto. Del resto voleva essere presentabile per andare a salutare quella meravigliosa ragazza che aveva rubato il cuore dell'intera famiglia Castle, e che aveva finalmente occupato quel posto troppe volte ceduto a donne sbagliate.
 
 
 
Chiuse la porta e vi ci si poggiò contro; chiudendo gli occhi respirò a fondo… aria di casa.
 
Era il primo giorno di ritorno al distretto dopo tre settimane di riposo forzato, e la Gates l’aveva comunque rilegata alla scrivania in compagnia di un mucchio di scartoffie da compilare, così non aveva avuto neanche un caso su cui concentrarsi per non pensare a quanto le mancasse suo figlio.
Alzava spesso lo sguardo nella speranza di vedere l’orologio segnare le cinque, ma, ogni volta che lo faceva, sembrava che non si fossero mosse di un millimetro.
Quando mise il tappo sulla penna raccolse tutti i fascicoli andando a riporli sulla scrivania del capitano.
Si strinse bene la sciarpa attorno al collo e si infilò il cappotto allacciando i bottoni mentre correva verso l’ascensore. Davanti alla macchina mise la mano in tasca per prendere le chiavi, ma le capitò altro tra le dita.
 
Una scarpina…
 
Come c’era finita lì? Doveva per forza avergliela messa Castle, non c’erano altre spiegazioni.
La sfiorò per qualche secondo e poi salì in auto dirigendosi, più in fretta che poteva, verso il loft.
 
Abbandonò tutto sull’attaccapanni e andò alla ricerca dei suoi uomini. Uomini… forse sarebbe stato più giusto dire bambini visto le marachelle che ancora le combinava Rick ogni tanto.
Vide la luce soffusa provenire dalla cameretta socchiusa di Ethan.
Fortunatamente l’avevano preparata con un paio di mesi di anticipo; Castle aveva insistito tanto per iniziare a lavorarci. Non si ricordava di averlo mai visto così determinato, ma forse voleva solamente tenersi occupato il più possibile per non pensare ad Alexis.
 
Riuscì solo a vedere le nuvole candide dipinte sulla parete sul fondo che parvero darle il benvenuto, poi spostò di poco lo sguardo.
 
Il lettino era vuoto…
 
Diede un colpetto leggero alla porta, ed i suoi occhi incrociarono immediatamente la sedia a dondolo su cui anche lei si era seduta spesso durante la gravidanza. Adorava dondolarcisi mentre la sua mano passava delicatamente sul pancione e canticchiava la melodia di qualche canzone di cui, però, non riusciva a ricordare né titolo, né parole.
Dormivano entrambi, era dolce l’aria beata che vedeva sui loro volti. Quanto le sarebbe piaciuto entrare e andargli alle spalle; avrebbe passato una mano tra i capelli soffici del marito e, dopo avergli sfiorato la guancia con le dita, si sarebbe chinata lasciandogli un bacio sulle labbra. Lui si sarebbe svegliato rispondendo al bacio, e allora anche il piccolo avrebbe aperto gli occhi; Kate lo avrebbe preso tra le braccia e stretto forte forte a sé.
Ma rimase ferma dov’era, a fissarli, con quell’identico sguardo che vedeva negli occhi di Rick quando lo sorprendeva ad osservarla di nascosto. Quell’identico sguardo che diceva darle sui nervi, ma che in realtà adorava, perché quello di un uomo innamorato, del suo uomo innamorato.
E così il suo cuore si scaldò di quel calore che solo la famiglia può dare; una famiglia che però non era ancora al completo.
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE:

Ed eccomi con un’altra shot di questa serie!
È nato il piccolo Ethan, non con poche difficoltà, ma adesso c’è anche lui :)
Buona notte e, per chi la vedrà, buona 5x08!
  
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