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Autore: Bethesda    20/11/2012    1 recensioni
«C’è nessuno?»
È incredibile quanto posso essere fitto il buio di questo luogo. Sono dell’idea che potrei addirittura toccarlo se tendessi le mani, come se fosse un oggetto, e non una condizione che mi circonda interamente, redendomi parte di sé.
Non ho paura. È un posto familiare, dove, nel silenzio, risuonano voci e melodie che conosco.
[617parole]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«C’è nessuno?»
È incredibile quanto posso essere fitto il buio di questo luogo. Sono dell’idea che potrei addirittura toccarlo se tendessi le mani, come se fosse un oggetto, e non una condizione che mi circonda interamente, redendomi parte di sé.
Non ho paura. È un posto familiare, dove, nel silenzio, risuonano voci e melodie che conosco.
Mi muovo sicura, ma è frustrante non capire esattamente dove sto andando. Forse devo seguire la musica, quella canzone sempre più forte che sento provenire da lontano, di fronte a me.
Tanto vale camminare.
 
«Sofia».
 
Sento una voce. Allora non sono sola in questo posto! È fievole, ma presente. Quasi si confonde con le parole della canzone, ma non può essere che di qualcuno. Finalmente capirò il perché sono qui.
Cammino da molto tempo. O forse mi sbaglio, e son trascorsi solo pochi minuti. Il buio mi confonde, eppure la musica continua in modo costante, quasi da diventare ininfluente e risultare silenzio.
 
«Sofia».
 
Non mi sono sbagliata: mi stanno chiamando, ed è come se qualcuno avesse acceso la luce all’improvviso. Per un istante è tutto bianco, fa male, non vedo nulla; ma è un nulla accecante, non confortante come quello di pochi istanti prima. Mi batte il cuore.
Con lentezza apro gli occhi e sono circondata.
Non capisco. Non è possibile che abbia camminato per tutto questo tempo senza scontrarmi con ciò che riempie questa stanza.
Scatoloni con giocattoli, scaffali ricolmi di libri, oggetti inutili ovunque. Quasi tutto è gettato alla rinfusa, tranne che per poche cose che sembrano avere un ordine preciso e riportano sopra date o parole che non riesco a leggere.
 
«Svegliati».
 
Strano. Sono quasi sicura di aver sentito nuovamente qualcuno, ma la musica incalza, e le parole giungono confuse. E finalmente alzo gli occhi verso le pareti.
Fotografie. I muri che mi circondano sono completamente tappezzati di foto, tanto che mi è impossibile capire cosa vi sia sotto di esse.
Sono allibita, mi manca il fiato; quasi ho paura ad avvicinarmi. Piano piano mi decido, tendo una mano verso l’enorme collage.
 
«Non puoi lasciarmi, bambina mia».
 
Questa volta è talmente chiaro che mi volto di scatto, quasi come se ci fosse qualcuno dietro di me. Ma mi sbaglio: sono sola e la musica continua in sottofondo. Ritorno alla parete dopo un profondo respiro.
Alcune foto sono sbiadite, addirittura logore.
Stringo gli occhi, inclino un poco il capo; finalmente vedo.
Vedo mia madre, il giorno in cui mi prese per la prima volta fra le braccia, il suo sorriso provato ma radioso.
Vedo la ferita che mi feci cadendo in giardino all’età di sette anni, giocando con i vicini di casa.
Vedo la gita al lago con i miei nonni e mi sembra di avvertire l’acqua fresca bagnarmi i piedi.
Vedo tutto.
Vedo tutti.
Anche chi non c’è più da tempo.
 
«Ti prego».
 
Vedo l’auto, la radio accesa: sto cantando una canzone, quella canzone. Vedo chi mi sta accanto sorridere.
Vedo il terrore che ho negli occhi quando mi accorgo del camion.
 
Faccio uno, due passi all’indietro.
Il cuore batte all’impazzata; tremo come una foglia perché capisco dove sono e ricordo.
Cerco di scappare, inciampo in uno scatolone che si riversa a terra senza emettere alcun suono perché tutto ciò che riesco a sentire è la musica sempre più forte, assordante; mi circonda, mi opprime.
Non la voglio sentire, mi tappo le orecchie.
La canzone continua, rimbomba, ormai solo parole a caso che mi fanno male.
Mi inginocchio, le braccia a tenere la testa, gli occhi stretti a cercare quell’oscurità familiare.
Non voglio sentire.
Non voglio sentire.
Urlo per sovrastare quello che ormai è un rumore di vetri infranti e lamiere.
Poi tutto tace e ritorna il buio.
 
«Mi dispiace: non può più sentirci».
 
   
 
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