Vernice blu e miele
Ad E.
Perchè la grafomania
è uno stile di vita.
“Imre ma che hai? Ho sonno porca miseria!”
“Io esco.”
“Scusa?”
“Non riesco a dormire, ho bisogno di uscire, di prendere un
po’ d’aria!”
“Ma se sono le tre di notte, dove vorresti andare?”
“Non lo so.”
“Imre, so che se ne avessi avuto bisogno già me ne avresti
parlato ma..sei sicuro di non voler compagnia?”
Vorrebbe guardarlo negli occhi ma le sue iridi nere si
confondono con l’oscurità che avvolge le quattro pareti della stanza di Emike.
“Si Em, ne sono sicuro. Grazie.”
Si avvicina e le posa un leggerissimo bacio sulle labbra, le
sorride e poi sparisce nel buio della notte.
Al piano di sotto Aàron ha il sonno leggero e il bracciolo
del divano gli sta spezzando il collo. Ha sempre trovato irritante il fatto che
Imre possa dormire su con Emike, sul materasso morbido e con addosso le milioni
di coperte colorate che l’amica cambia praticamente ogni settimana a seconda
del colore con cui viene dipinta la parete di fronte al letto. Ha una dannata
fissazione per quella parete, la mattina si sveglia e se vede che quel colore
non le va bene, lo cambia con un altro; passa ore a guardare il muro,
impassibile, con le gambe incrociate e i gomiti poggiati sulle ginocchia. Dice
che se una mattina si sveglia con il giallo in testa non può assolutamente
accettare il fatto che la parete sia verde, dice che è una questione di umore.
Dei passi sulle scale lo destano del tutto, così, irritato e
rassegnato, si mette a sedere e nasconde la faccia sotto le coperte. Qualcuno
gli passa accanto e prende una giacca dall’attaccapanni. Tira fuori un occhio
dal lenzuolo e osserva Imre spingere la maniglia in basso e chiudersi la porta
alle spalle.
Il suo sguardo allora va alle sue spalle, ai pochi gradini
che lo distanziano dalla camera da letto, dal materasso morbido, dalle coperte
colorare; da Emike. Ogni mattina, quando Imre è già uscito da un po’, Aàron
sale silenzioso quei dieci gradini di legno colorato, spinge la maniglia e
senza fare il minimo rumore s’inginocchia e si siede sui talloni ad un soffio
dal volto di Emike. La osserva dormire e ascolta il suo respiro. Quello è uno
dei momenti che più gli piacciono, con il cuore in gola allunga un dito nella
sua direzione e ogni dannata volta si ferma a pochi millimetri dalla sua
guancia, ha paura di svegliarla, ha paura di non poterla più guardare. Ogni
mattina la trova sempre lì per lui, con le ciglia lunghe a nascondere i suoi
occhioni azzurri, con le labbra rosse leggermente dischiuse e rilassate e con
la coperta che le scende sui fianchi e le lascia scoperto il busto.
Non c’è mattina in cui non spera che lei si svegli e lo trovi
lì alla distanza di un respiro, il respiro di Emike, dalle sue labbra.
Si toglie le coperte di dosso e si alza puntando un piede
nudo sul primo gradino. Ricorda ancora lo sguardo di Emike quando le aveva
chiesto se poteva starsene sul divano per quella notte e per quelle a venire.
Aàron viveva in casa con sua sorella, la sorella che non c’è, che è partita per
inseguire i suoi sogni, o almeno è questo che dice lei, per Aàron la verità è
che è partita per inseguire i soldi di mamma e papà e un biondino dalle chiappe
flosce che aveva conosciuto in uno stage a Boston. Per lui quella casa è troppo
grande, con le sue pareti bianche e i mobili anonimi, spogli. Non è tipo da
dormire su un divano a fiori o in una casa delle bambole ma l’aria che si
respira in quelle quattro mura è diversa, sa di occasioni e indipendenza. Aveva
frequentato l’università per un paio di anni e prima di mandare all’aria i suoi
piani di studio o quelli dei suoi genitori, la differenza all’epoca gli
risultava inesistente, aveva vissuto in una camera con un imbecille epico; a
prima vista lo aveva trovato un tipo a posto ma dopo la prima settimana già non
sopportava la sua totale incapacità di rapportarsi con le persone. Era uno di
quei tipi dalle ossessioni maniacali, uno di quelli che lucida i propri trofei,
un perfetto figlio di papà con la puzza sotto il naso e senza palle. Si era
rotto il naso durante il tentativo di difenderlo da un gruppo di bulletti da
superiori che volevano fare la pelle all’imbecille, non lo aveva nemmeno
ringraziato.
Con quell’episodio aveva detto addio a qualsiasi futuro
coinquilino, ciò che contava era farcela da solo, fanculo i suoi e fanculo gli
altri. Aveva perso due anni dietro dei sogni che non gli appartenevano, la
verità è che lui era nato per qualcosa e doveva trovare quel qualcosa con tutte
le sue forze. Si era trasferito nella casa vuota dei suoi e aveva vagato a
lungo da solo per quel paese fino a quando non si era scontrato con Imre in
quel pub in centro.
La stessa notte in cui Imre lo aveva portato davanti alla
porta rossa di una sconosciuta, aveva dormito sul suo divano e si era svegliato
con l’odore dei piedi del suo nuovo amico a un palmo dal naso. Cercava il bagno
per svuotarsi la vescica di tutto l’alcool che si erano scolati la sera prima
perciò era salito al piano di sopra e aveva aperto la porta scoprendo Emike
addormentata nel suo letto. E la parete blu, tutto era cominciato con la parete
blu.
Imre lo aveva trovato in camera di Emike che fissava quella
parete. Lo aveva affiancato e, con una mano sulla sua spalla, gli aveva
spiegato la storia del colore che cambia ogni settimana, a volte anche due
volte a settimana a seconda dell’umore della mora. Allora lo aveva guardato in
quei suoi occhi neri e con il cuore in gola gli aveva detto che avrebbe voluto
vedere quella parete cambiare ogni settimana, avrebbe voluto essere lì solo per
guardare Emike prendere un pennello e dipingere il muro dei colori dei suoi
ricordi. Si era detto che era qualcosa per cui valeva la pena vivere e perdere
tempo, un fatto talmente strano da non poter essere nemmeno raccontato.
La mattina dopo era di nuovo sul divano destinato a dormire
lì fino a quando non lo avrebbero cacciato via e, con gli occhi ancora mezzi
chiusi dal sonno, aveva fatto le scale guidato da qualche nota strimpellata a
caso e l’aveva trovata seduta sul letto con il viso sporco di giallo e le dita
incollate alle corde arrugginite di una chitarra color miele.
Poggia il palmo della mano sulla maniglia, respira appena.
Ricorda ancora gli occhi di Emike gonfi di lacrime, le
guance arrossate e le gambe nude ricoperte di parole. Lui, in piedi, con una
spalla poggiata sulla cornice di legno verde della porta, l’aveva guardata a
lungo incapace di trovare il coraggio di rompere quella dannata parete di vetro
sempre in mezzo a dividerli. Sarebbe bastato un battito di ciglia o un respiro.
Avrebbe potuto semplicemente riempire i polmoni d’aria e respirare. Invece era
rimasto sulla soglia a guardarla piangere, con gli occhi di lei puntati nei
suoi e il suo dannato sorriso sulle sue labbra rosse. Aveva sentito la sua
musica rotta dai singhiozzi. Dio santo era come se il cielo si fosse sciolto
nei suoi occhi riversandosi in quel mare azzurro di cui non si vedeva
l’orizzonte e rivoli di acqua salata straripassero dalle palpebre scivolandole
sulle guance e inumidendole le labbra. Era bella, bellissima, distrutta dalle
emozioni, sopraffatta da un colore, un banalissimo colore giallo pulcino. Aàron
l’aveva guardata negli occhi e aveva tremato sotto la forza delle centinaia di
ricordi che le riempivano lo sguardo, ricordi senza fine di uno sguardo senza
fondo. Lei era viva, viva davanti a lui, con gli occhi bagnati, la sua musica
tra le mani ricoperte di giallo e le gambe totalmente scritte. Viva e
sopraffatta da quella troppa vita che le scorreva nelle vene, come un grosso
paradosso, come le sue lacrime e il suo sorriso.
Quel giorno Aàron era stato spettatore immobile del big bang
di ricordi scoppiato negli occhi di Emike. Stanotte Aàron vuole rompere il
vetro e diventare parte di quell’enorme ammasso di energia, per esplodere con
lei e vivere, vivere per davvero anche se solo per una notte sola.
Emike prova a richiudere gli occhi e a cullarsi nelle
coperte soffici ma il vuoto lasciato da Imre sembra pesarle più del solito. Fa
freddo, la pioggia scende ancora copiosa, quelle coperte dovrebbero tenerla
calda eppure è coperta di brividi. Accende la lampada a forma di fungo di
fianco al letto e lunghe ombre si stendono sulle pareti completamente bianche,
fatta eccezione per quella macchia di colore di fronte al letto, il muro oggi è
blu. Di nuovo, come quella notte.
Emike scende dal letto, i piedi scalzi avanzano lenti sul
pavimento ricoperto di tappeti, da quello rosso a quello verde e da quello
verde a quello blu di fronte alla SUA parete. La sfiora con l’indice.
Quella parete è sempre stata il collegamento diretto tra i
ricordi di Emike e il mondo reale, come una specie di porta temporale tra
presente e passato, qualcosa che la riuscisse a mantenere più di qua che di là
dove i ricordi l’avrebbero divorata, riportandola indietro come un corpo vuoto
e privo di vita. Vita intesa come ricordi, ricordi di volti, ricordi di
sensazioni, ricordi di qualsiasi cosa si possa ricordare, immagazzinare,
mettere in un cassetto fino a quando non si riempie. La mente di Emike è una
specie di infinita biblioteca custodita gelosamente da un paio di iridi senza
orizzonte capaci di avvicinarti come il canto di una sirena e di non riportarti mai più indietro, per sempre
perso in un mare che è cielo e in un cielo che è mare.
Ogni volta che un cassetto si riempie la confusione di
colori e sensazioni diventa insormontabile; ogni volta che un cassetto si
riempie Emike smette di respirare, sopraffatta dall’enorme quantità di vita che
le scorre nelle vene e che ha passato a raccogliere durante ogni dannato
secondo, giorno o anno. E così nella sua mente tutto diventa blu; il blu della
notte, quello senza fine, quello dove le stelle sono solo puntini lontani come
macchioline indistinte che spingono il suo sguardo sempre più giù fino a quando
non si rende conto di essersi persa. Quel blu così profondo, senza limiti,
senza orizzonte.
Ogni volta che un cassetto si riempie Emike è incapace di
contenerlo, prova a chiudere gli occhi e smettere d’immagazzinare ricordi ma
non ci riesce, smettere di cercare la vita nella vita non è facile, è come
cercare di smettere di fumare con l’unica differenza che chi prova a
disintossicarsi dalla vita finisce per cadere riverso a terra senza un’anima
con cui alimentare il corpo. Così lei si lascia esplodere.
Piange per ore nella sua stanza fino a quando, continuando a
piangere, non sente l’enorme bisogno di cambiare il colore di quella parete e
allora prende la vernice e la dipinge del colore del nuovo cassetto. E
scompaiono le stelle, scompare quell’infinita distesa blu notte e le lacrime si
riversano all’interno del vecchio cassetto. Come ricordi distrutti, ricomposti
e riordinati in modo da poter chiudere il cassetto e aggiungerlo agli altri. E
lei sorride, sorride per il sollievo, sorride mentre le ultime lacrime le
rigano ancora copiose il volto.
Aàron.
Aàron l’aveva vista, macchiata di giallo, sconvolta dalle
lacrime e con il sorriso sulle labbra. Poteva fare di tutto ma non si era
mosso, era rimasto fermo a guardarla. Sembrava che avesse capito cosa le stesse
accadendo, sembrava che fosse sopraffatto dalla stessa forza che le cresceva
dentro e le divorava il respiro. Non aveva mai staccato gli occhi dai suoi e si
era stupita quando era stata costretta ad ammettere che ne aveva bisogno.
Si avvicina alla porta e posa la mano sulla maniglia.
Adesso, quando spinge in basso la maniglia, non si stupisce
del bisogno di scontrarsi con il suo sguardo; adesso, quando tira la porta
verso di se, non si stupisce del desiderio delle sue braccia attorno al suo
corpo e delle sue mani sulle sue guance; adesso, quando davanti a lei c’è
Aàron, non si stupisce della voglia indicibile delle sue labbra, che immagina
morbide e calde e sulle sue.
Aàron si scontra con lo sguardo azzurro di Emike, ha gli
occhi lucidi e la canottiera con gli elefanti calata su una spalla, le gambe
nude e snelle si muovono nel buio della camera, la sua pelle perla è liscia e
calda. Sulla soglia il vetro freddo e invisibile li separa ancora, i loro
respiri arrivano smorzati alle orecchie dell’altro come disturbati da
un’interferenza; quella del fottuto vuoto che li divide.
Un suono assordante rimbomba nella stanza, apre un varco nel
vuoto e arriva alle orecchie di Aàron, quando Emike si avvicina e posa le mani
sul suo petto. Il suono di qualcosa che infrange le proprie barriere, un suono
che diventa silenzio, silenzio che rompe i timpani, silenzio che ti strappa il
respiro.
La stringe fra le braccia incapace di lasciarla
allontanarsi, ormai è li, per una dannata notte è li fra le sue braccia, per
una, una sola notte, può stringerla, sfiorarla, prenderle il volto fra le mani
e guardare oltre quel sorriso che non abbandona mai il suo viso.
Per quella notte, questa notte, Aàron bacia quel sorriso. Le
labbra di Emike sono morbide e calde e buone e le vuole con tutto se stesso. Le
vuole adesso come non le ha mai volute in quelle mattine in cui la osservava
dormire e le ha adesso come non le ha mai potute avere: sul materasso comodo;
con le coperte colorate di Emike; con la parete blu che incombe su di loro come
quella notte. Adesso però Aàron non è sulla porta a guardarla, è con lei, è in lei, è lì per lei e per quella
dannata voglia di vivere che devasta i loro sensi portandoli in fin di vita, in
quell’istante dove entrambi smettono di respirare e prendono per il culo il
diavolo.
La pioggia cade lenta dal cielo ungherese. Lacrime salate sgorgano silenziose dalle palpebre di Emike. Un sorriso si disegna nitido sul suo volto. Questa volta non è sola.
***
Torno a pubblicare dopo, beh dopo un bel pò. C'è stato un piccolo momento di demoralizzazione, non riuscivo nemmeno più a scrivere, non so voi ma di solito mi capita quando ho la mente continuamente operativa, quando ho continui cambiamenti, giornate piene e insomma, non riesco mai a mettermi seduta e trovare la voglia di sfogarmi, perchè non ne ho bisogno. E quando scrivo mi sfogo, tanto, mi sfogo e mi svuoto, ieri sera ho riaperto word e ho scritto per due ore senza sosta e quello che ho tirato fuori è qualcosa di diverso che mi mancava.
Loro invece sono fluff, fluff in tutto, Emike lo è anche nella mente e neglio occhi e nelle labbra, io adoro questa ragazza come sono perdutamente innamorata di Aàron, credo che se esistesse nella realtà così come io lo immagino nelle mia mente sarebbe il mio ragazzo ideale, cioè quello che mi farebbe perdere la testa, uno più curioso di me vorrei davvero trovarlo e vedere che ci esce fuori. Non so, è come se passassi il mio tempo ad interessarmi di ogni piccolo dettaglio di una persona e al contempo sperassi che quella persona si dimostri interessata a me anche solo un briciolo di quanto io faccia con lei. Poi io sono curiosa, dannatamente curiosa e so che morirò di questo.
Va beh, bando alle ciance, io ringrazio come sempre chi legge silenzioso, seguendo, preferendo e ricordando. E ringrazio La beta che agita i pon pon e urla il mio nome per incitarmi a scrivere, le mando i capitoli di notte fonda, porella non vorrei mai essere al suo posto...comunque lei scrive una roba pazzesca, so che siete pochi ma confido su di voi, sapete quanto sono ossessionata dalla musica quindi vi consiglio di andare di volata a leggervi questa roba qui.
Giuro che non ve ne pentirete, cioè io la amo come poche storie e vi confido che è la prima volta che la Giuls mette così tanto cuore in qualcosa che scrive e lo dico perchè è una roba caustica che fa impressione, quindi uno parte prevenuto. Eh beh nulla.
Se volete passare e delirare un pò con me, il gruppo è questo: Dream on: Wish you were here.
Tante coccole. Lis.