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Autore: _Marika_    20/11/2012    3 recensioni
Bicchieri rossi, lampadari distrutti, giocatori di football, champagne scadente, danze esotiche, vestitini leopardati, baci, risate, lacrime.
Nuovi incontri.
Cos'altro potrebbe accadere questo venerdì sera?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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I want you to be mine

 

 

 

 

Di nuovo, di nuovo, di nuovo.

Inciampai, accecata dalle lacrime. Mi sentivo soffocare in mezzo a tutte quelle persone, all'odore di alcol e di sudore. Il petto mi faceva un male d'inferno; continuavo a premerlo con una mano nella speranza di placare il dolore. Volevo solo uscire da quella casa.

Flash di Brian con quella ragazza mi graffiavano le palpebre ogni volta che chiudevo gli occhi.

Donna. Dovevo trovare Donna.

Riuscii a tornare all'affollato ingresso, ma non vidi nessuna faccia conosciuta. Un senso di abbandono mi assalì, facendomi girare la testa.

Non fregava a nessuno. A nessuno importava di me.

Singhiozzai senza ritegno, in piedi, da sola, torturandomi la maglietta all'altezza del cuore. Piangevo di tutti i fallimenti della mia vita, tutti in una volta. Volevo solo nascondermi in un buco e consumarmi di autocommiserazione.

Emma!” .

Perché tutte le disgrazie del mondo cominciavano sempre con il mio nome?

Justin, apparso in modo quasi miracoloso, si inginocchiò accanto a me. Ero caduta a terra senza nemmeno accorgermene. “Cosa c'è? Perché piangi?” gridò, visibilmente preoccupato.

Esisteva forse una domanda più difficile a cui rispondere? Avrei voluto dirgli che mi sentivo tradita, offesa, banale, inetta. Che non riuscivo a combinare niente nella mia vita. Che non ero mai riuscita in qualcosa. Che non avevo nessuno che mi amasse, che mi stimasse, che mi capisse veramente. Ma non riuscii a dire nulla di tutto ciò. Quando piangevo le parole mi si incastravano in gola, e tirarle fuori era doloroso a livello fisico.

Justin fu gentile. Mi portò fuori, in un posto tranquillo, un angolo di giardino in cui non c'era nessuno. Ascoltò i miei singhiozzi, i miei vani tentativi di dare una spiegazione; asciugò le lacrime e il moccio dal naso come si fa con i bambini.

Questo non fece altro che farmi stare ancora peggio. Lui non avrebbe dovuto stare lì a consolare una cretina come me. Avrebbe dovuto divertirsi, godersi la serata, stare con Donna. Se stavo così male era solo colpa mia. Brian viveva la sua vita, niente di più. Ero stata io a illudermi, a travisare i segnali, a costruire una relazione immaginaria con l'idea che avevo di lui.

Non potevo avere la presunzione di sentirmi tradita. Lui non aveva tradito proprio nessuno. Al massimo, io avevo tradito me stessa. Avevo rotto una promessa che mi ero fatta molto tempo prima.

Emma, su. Calmati”.

Quando Justin mi sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, io sentii il desiderio di scostarmi. Non volevo che mi toccasse. Ma rimasi ferma, sapendo che quel gesto l'avrebbe ferito.

Certo che era proprio un'ingrata. Lui mi stava aiutando, e io pensavo solo a me stessa.

Presi due profondi respiri e ringraziai Justin, ma gli dissi che avrei voluto rimanere sola per un po'. Lui non voleva andarsene, ma io insistetti. Gli ripetei almeno otto volte che adesso stavo bene.

Lui mi guardò preoccupato, e infine se ne andò.

Appena lo vidi scomparire in lontananza, tirai fuori un fazzoletto e mi pulii il viso con rabbia. Le lacrime mi avevano svuotato. Non sentivo più niente. C'era solo una sorta di nervosismo che mi non mi faceva stare tranquilla. Una rabbia inconscia contro qualcosa di altrettanto vago e indefinito.

Non pensavo a Brian, non più.

Brian era solo l'ennesima persona che mi aveva ferito, forse anche senza volerlo. Dovevo smetterla di mettere la mia felicità nelle mani degli altri.

La mia felicità ero io.

Mi alzai con furia e mi avviai verso la casa di John Mitchell.

 

•••

 

Ma nonostante quella rivelazione, quel vuoto dentro di me non accennava a sparire.

E quale modo migliore per riempire un vuoto, se non imbottirlo di alcol?

Afferrai un red cup e lo riempii con la prima bottiglia che mi capitò sotto mano. Il sapore terribile della tequila mi lasciò una scia bruciante dalla gola allo stomaco.

Feci una smorfia di disgusto e lo riempii di nuovo, febbricitante. Non capivo il motivo di quello che stavo facendo, agivo e basta. Non volevo più pensare.

Una sensazione di appagamento mi fece dimenticare il vuoto all'altezza della pancia, ma non mi rese più tranquilla. C'era una sorta di agitazione ancestrale che mi scuoteva tutta. Non sapevo. Non capivo.

Bevvi d'un fiato anche quel secondo bicchiere, stavolta di gin lemon. La testa mi girò, ma fu un attimo. Quando il mondo smise di girare, la musica mi sembrò più forte, la sala più affollata, i ragazzi più carini.

Strinsi il bicchiere fino a romperlo. Lo osservai e mi stupii di me stessa. Poi lo lasciai cadere a terra.

E mi buttai nella mischia.

Mi misi a ballare senza pensare più a niente, guidata dal ritmo altissimo, dall'euforia, dalla tequila. Ero arrivata ad uno stato di incoscienza in cui il dolore non poteva toccarmi.

Un ragazzo mi si avvicinò da dietro, afferrandomi per i fianchi. Un calore mi salì in tutto il corpo, accendendomi. Mi chiesi perché no. Non ne avevo forse il diritto, io?

Mi girai. Era un ragazzo di colore, con un cappello da hip hop. Era sexy. Lo baciai.

E da lì persi il controllo di me stessa. Non pensavo, non volevo pensare.

Tutto ciò che esisteva erano la musica e le sue labbra sulle mie.

Era da tanto che non baciavo qualcuno con quella furia. La sua lingua si scontrava con irruenza con la mia, violando la mia bocca. Il piercing che aveva sulla lingua mi stuzzicava. Il calore saliva, saliva, senza tregua. Avevo un caldo d'inferno.

Le sue mani trovarono presto la strada verso il mio reggiseno, e io le lasciai fare. Poi lui cercò di slacciarmelo, e io mi staccai fingendomi offesa. Lui mi guardò strano, ma io risi e me ne andai. Cercai un'altra preda.

Mi ritrovai tra le braccia di un ragazzo carino, ma troppo alto. Anche se aveva un buonissimo sapore, baciarlo era scomodo. Lo scaricai per un biondino poco più basso di me, che infilò senza troppi riguardi le mani nei miei pantaloni. Mi scostai ridendo, e andai a prendermi un altro bicchiere. Buttai giù altra tequila. Il vuoto dentro di me sembrò sorridermi, sazio.

Mi feci un tizio che pareva spagnolo, poi una lesbica, poi un ragazzo orrendo che però baciava come un dio.

Lo scaricai per un figo pazzesco che mi sbatté contro un muro. Quando lui si staccò per baciarmi il collo, sorrisi. Ecco la mia felicità.

Gli presi con violenza il viso tra le mani, anche lui mi sorrise. Aveva le fossette. Lo baciai con passione, allacciando le braccia dietro il suo collo.

Ci ritrovammo in una camera da letto, sdraiati l'uno sull'altro. Prima che potessi accorgermene, lui mi aveva sfilato i pantaloni. Io non lo fermai. Lo desideravo. Lo volevo dentro di me, in un istinto ancestrale e animalesco, senza sentimenti, senza preoccupazioni, senza conseguenze.

Senza smettere di baciarmi il collo, lui mi sfiorò da sopra gli slip. Ansimai, inarcando la schiena.

Di più, pensavo. Di più. Adesso.

Mi morse il collo. Gemetti, pendendo il controllo. La sua mano vagava rude tra le mie cosce, sfiorandomi veloce e accorto, ma senza mai arrivare nel punto in cui si concentrava tutto il mio desiderio. O non sapeva cosa stava facendo, o era bravo davvero. Mi stava facendo impazzire.

Ormai non controllavo più i miei ansiti.

Il tizio fece scorrere le dita sull'orlo dei miei slip, sollevandolo un poco.

Oh mio Dio, sì.

Proprio in quel momento, qualcuno aprì la porta.

 

•••

 

What the fuck...?”.

Con uno scatto dell'interruttore, la luce si accese. Sussultai.

Hei, non hai capito. Abbiamo da fare qui” disse scocciato il tizio con le fossette, girandosi verso il motivo dell'interruzione.

Tu non hai capito. Levati da lei. Immediatamente”.

Mi sentii morire quando riconobbi quella voce.

Il mio amante si sollevò sulle ginocchia per affrontare il nuovo arrivato, lasciandomi scoperta e indifesa. Mi tirai giù la maglietta, arrossendo, cercando di nascondere, insieme alla pancia, quello che era successo. Ma niente avrebbe mai potuto farmi dimenticare il modo in cui Matt Dawson mi guardò in quel momento. Il suo sguardo rovente mi percorse da cima a fondo, sfiorando le mie gambe nude, il mio intimo bianco, la maglietta stropicciata, il viso congestionato.

Quello sguardo mi fece stare male. Riuscì a farmi vergognare di me stessa.

Che problema hai?” si scaldò il tizio con le fossette.

Tu sei il mio problema. Levati da lì”.

L'altro si alzò dal letto, incazzato. “Scusa?” ringhiò.

Matt tremava, come era solito fare quando era presa di una violenza emozione. Stringeva i pugni in modo spasmodico, fissando l'avversario con quel suo sguardo fisso e furioso.

Matt era più alto, ma l'altro aveva il fisico piazzato di un giocatore di rugby e avrebbe sicuramente avuto la meglio. Sweetheart non aveva l'aria di uno che aveva fatto a botte tante volte in vita sua. Mi alzai precipitosamente, mettendomi in mezzo. Ero in mutande, ubriaca e egoista, ma non avrei permesso che qualcuno si facesse male a causa mia.

FERMI, tutti e due. Lui è... mio fratello. E' venuto a prendermi”.

Il tizio con le fossette sembrò ridimensionare la sua rabbia. Probabilmente anche lui aveva una sorella minore da difendere dai brutti ceffi, e sembrò comprendere. In questo modo il suo orgoglio maschile non ne avrebbe risentito e noi avremmo potuto filarcela senza problemi.

Mi infilai in fretta i miei pantaloni e presi Matt per un braccio. Lui si lasciò trascinare fuori senza dire una parola.

Percorremmo tutto il corridoio e la sala d'ingresso, guadagnando infine l'uscita. Solo allora, nella calma del giardino, Matt esplose.

CHE CAZZO STAVI FACENDO?”.

Me lo aspettavo, ma quella furia così gratuita mi lasciò spiazzata lo stesso.

Matt, io...”.

Non eri persa per tale Brian Hustings? E ti scopi chiunque ti capiti?!”

Questo mi ferì. “Io non scopo nessuno!” ribattei offesa. Come diavolo faceva a sapere di Brian?!

Ah no? E quello chi era?!”.

Non sono comunque affari tuoi!”.

Se fino ad un attimo prima era riuscito a farmi sentire in colpa, ora volevo solo litigare a morte. Era lui ad essere nel torto. Non aveva niente a che fare con me e con la mia vita. Le mie relazioni non lo riguardavano.

Sì, invece! Quel tizio voleva solo approfittare di te!”.

Era vero. Ma non gliel'avrei data vinta. “E se fossi stata io ad approfittare di lui? Che ne sai tu?”.

Lui scosse la testa. “Non è vero, e lo sai. Smettila di dire cose che non pensi. Hai bevuto”.

E allora? Tu sei perennemente ubriaco marcio!!”.

Fu come se l'avessi schiaffeggiato. Prese un respiro e mi guardò intensamente. “Calmati adesso. Hai bevuto” ripeté.

Avanzò di un passo verso di me, e io indietreggiai.

Smettila!” gridai. “Smettila di perseguitarmi, smettila di preoccuparti, smettila di intervenire nella mia vita!!”.

Lui mi guardò. Il suo sguardo diceva tutto, e io mi sentii morire.

Quasi scoppiai a piangere.

Smettila di amarmi!, avrei voluto urlare. Io non ti merito.

Lui si avvicinò ancora, e io mi misi definitivamente a piangere. Mi avvolse in un abbraccio, e io soffocai i singhiozzi sulla sua spalla.

Brian si stava facendo un'altra” confessai tra le lacrime. Mi stupii di me stessa, e diedi la colpa all'alcol. Da sobria non avrei mai e poi mai confessato qualcosa di così privato.

Matt non disse niente e mi strinse più forte tra le braccia. Io singhiozzai ancora di più. “Non mi vuole! Non mi vuole!”.

Sssshh” mi cullò lui. Ma io ormai avevo rotto gli argini. “Credevo che lui fosse quello giusto! Era perfetto! Perfetto!”. “Nessuno è perfetto” mormorò Matt contro i miei capelli.

Lui lo era. Nella mia testa lo era”.

Rimasi in silenzio per un po', dando sfogo alle lacrime.

Lui mi accarezzava i capelli, io torturavo con le dita il bordo della sua T-shirt.

Scusami” sussurrai contro la sua spalla. “Non so perché ti sto dicendo queste cose. Non sono in me”.

Non ti devi preoccupare con me”.

Un'altra pugnalata al cuore. Mi staccai dal suo abbraccio. “Non voglio approfittare di te, Matt. Tu sei gentile, sei carino con me, ma... sei strano. Io non ti capisco”.

Lui non rispose. Rimase lì a guardarmi, così solo e freddo senza me tra le braccia.

Io...” cominciò. Poi si bloccò, si innervosì, si infilò le mani in tasca. Io lo guardai confusa, aspettando che continuasse. “Io voglio il meglio per te” disse infine.

Io feci un sorriso amaro. “E pensi di essere tu il meglio per me?”.

Mi guardò dritto negli occhi. Mi avrebbe fatto sentire a disagio, se non avessi avuto mezzo litro di tequila in corpo.“Sì” rispose, cristallino.

Quella risposta così convinta uccise il mio sarcasmo. Non potevo permettere che lui continuasse a farsi illusioni su di me, su di noi; una persona non può, da un giorno all'altro, entrare nella vita di qualcuno ed esigere di farne parte.

Presi fiato. “Tu... noi... noi non siamo niente, Matt. Tu non mi piaci”.

Sapevo che l'avrei ferito, ma lo dissi lo stesso.

Credi che non lo sappia?” replicò rude lui. “Credi che non sappia di essere un folle senza speranza? Eppure non riesco a smettere di pensare a te, Emma. Voglio proteggerti. Voglio che tu sia mia”.

Rimasi senza parole.

Non mi aspettavo una dichiarazione tanto diretta, né tanto risoluta.

Come faceva una persona a trovare una determinazione tanto potente da scavalcare il senso comune, il pensiero della gente, la realtà stessa? Come poteva essere tanto innamorato di me, dopo che gli avevo detto quelle cose, dopo che mi aveva visto nei miei momenti peggiori?

Non sapeva niente di me, niente.

Ma cosa sapevo, io, di Brian?

Mi venne da ridere e da piangere allo stesso tempo. Mi strofinai la fronte con una mano. “Non so cosa dire” ammisi.

Non dire niente” mormorò lui, senza guardarmi. Poi si voltò verso di me e mi allungò una mano. Non sapevo cosa aspettarmi.

Lui fece una smorfia. “Ti porto a casa”.

 

•••

 

Mi svegliai la mattina successiva con un mal di testa da Guinnes dei primati. In casa regnava un silenzio sovrannaturale; nessuno stava cucinando uova e toast in cucina, nessuno stava russando in modo molesto, nessuno abbaiava, gemeva o rideva. C'era una pace che non ricordavo da tempo, in effetti.

Brian.

Quella apparente serenità si disintegrò in mille pezzi. Richiusi gli occhi, desiderando fuggire dalla mia vita. La sera precedente si sarebbe potuta catalogare, imballare e etichettare come una delle serate peggiori della mia intera esistenza. Non solo mi ero sfinita a forza di piangere per uno stronzo insensibile, no! Avevo vomitato tequila e cibo cinese per almeno un'ora, obbligando Matt non solo a riportarmi a casa, ma a spogliarmi, lavarmi e mettermi a letto; Donna e Justin non erano stati irraggiungibili al telefono per tutta la notte, così che Matt, per non avermi sulla coscienza in caso fossi entrata in coma etilico o tentato il suicidio durante la notte, era stato costretto a rimanere con me fino all'alba.

Avevo sempre odiato il senso di colpa. Mi faceva sentire così impotente, e sbagliata, e inadeguata. Il punto era che io non volevo sentirmi in colpa. Avrei preferito che nessuno mi aiutasse, piuttosto. Mi ero messa in quel casino da sola, e da sola dovevo uscirne.

Mi alzai, ma una violenta vertigine mi fece ricadere sul letto. Dovetti aspettare che il mio cuore impazzito si calmasse, prima di riprovare. Al secondo tentativo, riuscii ad alzarmi. Mi guardai triste allo specchio.

I capelli erano tutti appiccicati al cranio, pregni di sudore e di odore di alcol. Matt mi aveva ficcato sotto la doccia solo per lavarmi via il vomito, tralasciando l'uso di shampoo e balsamo. Forse il fatto che io mi stessi abbandonando ad un'appassionata interpretazione di Hit me with your best shot non gli aveva facilitato il compito.

Indossavo il mio pigiamone con i pinguini e avevo due occhiaie scure che avrebbero fatto invidia all'intera famiglia Cullen. Decisamente, non ero in forma smagliante.

Andai in bagno e mi concessi una lunga doccia calda. Rubai perfino un po' dei sali di Donna con cui mi sfregai gambe e spalle, giusto per sentirmi un po' meno scialba.

Uscii dalla doccia e mi accorsi dell'iguana. Mi stava fissando orribilmente. Presi il phon e glielo puntai contro, accendendolo alla massima potenza. Lei non si mosse, annoiata.

Presi ad asciugarmi i capelli, sospirando.

Il mal di testa non accennava ad andarsene. Sistemati i capelli alla meno peggio, andai giù in cucina a farmi un caffè.

Ma dov'erano tutti? Quel silenzio innaturale cominciava a preoccuparmi.

Adesso chiamo Donna.

Ma proprio in quel momento il citofono suonò.

Lasciai la moka sul fornello e mi avvicinai all'ingresso. Aprendo la porta, sorrisi nel modo più convincente possibile. Ero certa di trovarmi davanti Donna, Justin e probabilmente Jeremy, appesi l'uno all'altro che ridevano come pazzi con la faccia stravolta quanto la mia.

Ma non fu così.

Davanti a me si stagliava il ragazzo della posta, con quel suo sorriso finto e i capelli troppo ricci e lunghi. In mano stringeva un grosso mazzo di fiori, che aveva tutta l'aria di essere per me.

Emma Villoresi?”.

Per l'appunto.

Sono io”.

Il ragazzo mi consegnò il mazzo, poi si chinò e mi ficcò tra le braccia anche un grosso pacco marrone. Fin troppo contento di essersi disfatto di quel carico, il ragazzo se ne andò senza nemmeno rivolgermi un “arrivederci” di cortesia.

Corrugai la fronte e chiusi la porta con un piede. Tornai in cucina e appoggiai quelle novità sul tavolo.

Il mazzo era bello, ma aveva un che di familiare che fece scattare un campanello di allarme nella mia testa. Quelle rose gialle le avevo già viste...

Strappai via il biglietto pinzato sulla carta trasparente e lo lessi. Lacrime di rabbia mi pizzicarono gli occhi, improvvise e odiose come quelle poche parole incise sulla carta con inchiostro blu.

Ridussi il biglietto in mille pezzi prima ancora di rendermene conto. Mi tremavano le mani. Afferrai lo scatolone e lottai contro il nastro adesivo. Alla seconda unghia rotta presi un coltello. Trafissi il pacco e lo aprii come faceva la nonna di Donna con il tacchino del giorno del ringraziamento: brutalmente e con una certa dose di sadismo. Buttai a terra le formine di polistirolo e liberai l'oggetto di tanta devozione. Una cornice di peluche, rossa, a forma di cuore. Riconobbi la foto racchiusa nel vetro. Era una vecchia foto scattata anni prima, il giorno del mio diploma. Dio, com'ero piccola. E decisamente orribile con quella frangia. Ma pur essendo in primo piano, non ero io il soggetto principale di quella piccola putrida immagine. Era lui.

Lui mi abbracciava da dietro, intrecciando le sue dita con le mie, e mi posava un bacio sulla tempia. Un gesto che una volta mi sembrava così naturale...

Fui tentata di scaraventare tutto a terra, fiori compresi.

Ma ero come paralizzata. Mi rigirai la cornice tra le mani. Un oggetto talmente pacchiano e ridicolo che solo a lui sarebbe potuto sembrare romantico. Trovai un'altra scritta, che si vedeva appena, sul retro della cornice.

Possiamo ancora essere così”.

Possiamo ancora essere così” ripetei, stringendo i bordi della foto. “Possiamo ancora... essere così”. Le nocche mi stavano diventando bianche.

Possiamo...”

Presi il mazzo di fiori, respirando forte.

...ancora...”

Andai verso la porta.

...ESSERE COSI'!!”.

Scaraventai la cornice a terra, che rimbalzò nel suo tessuto di peluche. Questo mi fece uscire dai gangheri. La raccolsi da terra e la sbattei con forza contro il corrimano delle scale. Il vetro si incrinò. Una riga correva in diagonale, deturpando la faccia della vecchia me. Lui invece era ancora intatto, sospeso in quel bacio senza tempo. Lo scagliai a terra, mentre le lacrime minacciavano di nuovo di fare capolino. Afferrai i fiori e li strappai uno ad uno, ferendomi le dita con le spine. Distrussi perfino il pacco, riducendo in briciole il polistirolo e il cartone della scatola.

Fu proprio mentre ero a terra, esangue, che lottavo disperatamente contro due pezzi di cartone troppo ostinati, che il campanello suonò di nuovo.

Ero troppo arrabbiata e ferita per pensare di guardarmi allo specchio, e aprii così com'ero.

Con mia enorme sorpresa, furono gli occhi paludosi di Matt Dawson a incrociare i miei.

Che chi fai qui?” pigolai, la voce improvvisamente incastrata in gola come un osso di pollo. La consapevolezza di indossare un accappatoio rosa che mi arrivava parecchio sopra il ginocchio mi aggredì all'istante.

Lui sembrò soppesare la situazione con perizia clinica. Notò i fiori sparpagliati sulla moquette, le migliaia di palline di polistirolo, i due squarci di cartone che ancora tenevo in mano; poi guardò me.

Quello che vide gli intristì lo sguardo.

Ero venuto ad assicurarmi che stessi bene”.

Avrebbe quasi potuto sembrare una battuta, per quanto surreale fosse quella situazione.

Sto benissimo, non vedi?” replicai, sull'orlo di nuove lacrime.

Vedo, sì”.

Rimanemmo lì a fissarci, entrambi a disagio. Ero psicologicamente distrutta e praticamente svestita, ma sapevo che non avrei potuto cacciarlo via, non stavolta. Non dopo che mi aveva rimboccato le coperte. Non dopo che aveva dovuto sopportare una mia esibizione canora mentre mi lavava via il vomito dai vestiti.

Feci un profondo respiro e mi scostai di lato.

Ti va un caffè?”.

 

•••

 

Fu stranissimo avere Matt in casa.

C'era già stato, sì, ma adesso era diverso. Era mio ospite. In casa c'eravamo solo io e lui.

Gli offrii il caffè, che miracolosamente non aveva ancora strabordato dalla moka. I miei deliri di sterminio di materiale domestico non dovevano essere durati molto, dunque.

Quindi, ehm” cominciai, non potendo più sopportare quel silenzio. “Bè, prima di tutto, credo di dovermi scusare per ieri. Sono stata... patetica”.

Sì, patetica era proprio la parola giusta.

Lui sollevò lo sguardo dalla sua tazzina. Era seduto sulla sedia in modo innaturalmente rigido, e pareva, se possibile, ancora più scorbutico del solito.

Non importa”.

Uhm. Non importa. Grande frase, d'effetto. Utilissima per mandare avanti una conversazione.

Mi guardai attorno, come se sulle figurine magnetiche attaccate al frigo potessi trovare un brillante argomento con cui portare avanti quel tentativo di socializzazione. Sweetheart certamente non contribuiva allo scopo.

E... non fare caso alla confusione. Ho avuto una... crisi di nervi”. Facevo pause molto lunghe per obbligarmi a respirare.

Lui prese un sorso di caffè, non curandosi di rispondere.

Non riuscivo a capire, davvero. Perché venuto fino a lì, se non sembrava intenzionato nemmeno a rivolgermi la parola? Solo la sera prima aveva confessato di (amarmi?) volermi, e adesso appariva scocciato di dover star lì ad ascoltare le mie scuse. Beveva il suo caffè in silenzio, guardando fuori dalla finestra. Che cavolo vuole da me questo pazzo?

Sospirai, e mi alzai per lavare la tazzina, quando anche Matt si alzò di scatto. “Lui non ti merita”.

Rimasi lì a fissarlo come se fosse pazzo, con la tazza stretta in due mani.

Lui non ti merita” continuò, accorciando la distanza tra noi. “Ed è un idiota se ti lascia andare via”.

Cosa?” mormorai, cadendo dalle nuvole. “Chi è un idiota?”.

Quel Brian! O... chiunque ti abbia mandato questi fiori per scusarsi con te”. Allungò una mano per togliermi un petalo giallo impigliatosi nei miei capelli.

Era carino a dirmelo, ma...

Forse l'idiota sono io” ammisi sorridendo, mentre lottavo per ricacciare indietro le lacrime. Basta piangere, Emma.

Matt scosse la testa con enfasi. “Impossibile”.

Era improvvisamente diventato nervoso e loquace. Che fosse bipolare?

Quel pensiero mi fece ridere, mentre la prima lacrima mi scivolava giù dalla guancia. “Ho rotto una promessa che mi ero fatta. E' mia la colpa”.

Lui mi guardò come se fossi impazzita. I suoi occhi liquidi parevano infiammati, come benzina che brucia sull'asfalto.

Strinsi la tazzina e respirai forte. “Mi ero ripromessa di non innamorarmi mai più di uno stronzo. Di stare attenta, di non bruciare le tappe, di conoscere a fondo una persona prima di mettere tutta la mia vita nelle mani di qualcun altro”.

Lui rimase zitto, pensoso.

E invece ho fallito” continuai, posando finalmente la tazza nel lavandino. “Ho tradito me stessa. E adesso ne pago le conseguenze”.

Seguì un silenzio davvero opprimente. Lui si infilò le mani nelle tasche dei jeans.

Una saggia promessa, davvero. Non poteva che fallire”.

Lo guardai con cattiveria, non capendo cosa intendesse dire.

Scusa?”.

Lui addolcì il tono e tornò a guardarmi negli occhi. “Nel momento stesso in cui diciamo “Io giuro” inconsciamente sappiamo che non riusciremo a mantenere fede a quella promessa. Se sentiamo il bisogno di giurare, è perché non ci sentiamo sicuri. Se fossimo sicuri non giureremmo, non lo faremmo, non ci verrebbe nemmeno in mente”.

Perché tutte le persone che incontravo si improvvisavano poeti e filosofi? Prima Justin, poi Matt. E perché tutti avevano da dire cose così fottutamente intelligenti da farmi sembrare un'oca scema?

E' facile giudicare, da fuori” ribattei alzando il mento.

Matt mi guardò. I suoi occhi erano tornati foschi, pieni di ombre misteriose. “Sì” confermò. “E' facile giudicare da fuori”.

Capì che era un'accusa. Lo capii da quel modo triste di guardami, dalle spalle contratte, dalle mani ostinatamente infilate nelle tasche.

Improvvisamente mi sentii male per lui. L'avevo giudicato, deriso e offeso senza nemmeno conoscerlo. Non sapevo una singola cosa di lui. Solo voci, chiacchiere, maldicenze. E lui non mi aveva mai rifiutato niente, quando gliel'avevo chiesto. E anche quando non gliel'avevo chiesto. Era stato lui, immemore tempo prima, a issarmi su un muro di cinta quando un poliziotto isterico mi inseguiva. Era stato lui a salvarmi da Ian prima che... prima che...

Scoppiai a piangere.

Piansi per la mia incapacità, per il mio orgoglio, per gli innumerevoli fallimenti che sembravo decisa a voler conseguire nella mia vita.

Mi ritrovai avvinghiata a Sweetheart singhiozzando come una bambina. Lui mi accarezzò la schiena con gesti brevi e nervosi, probabilmente a disagio.

Da quando sono diventata così lagnosa? pensai dispiacendomi per Matt, costretto ancora una volta a sopportare le mie paturnie.

Piansi per un bel po', mugolando sulle sfighe cosmiche della mia vita, sulla mia inettitudine, sul mio ex ragazzo che mi aveva tradita. Ebbene sì. Roberto Torre, dopo un fidanzamento di ben sette anni, si era fatto beccare dalla sottoscritta a fornicare con la cugina di secondo grado. Ok, la cugina faceva la modella. Ok, lui era ubriaco. Ma sono forse scusanti per un tradimento in piena regola davanti agli occhi innocenti del mio gatto? Direi di no.

Adesso basta piangere”.

Fu Matt a dirlo, scostandomi da sé. Mi asciugò rudemente le lacrime con i pollici e mi ravviò una ciocca di capelli finita fuori posto. Aveva ascoltato la storia delle disgrazie della mia vita senza proferire sillaba.

Tu sei perfetta, Emma. Non devi soffrire per nessuno”.

Era arrabbiato. E, in modo assurdamente spontaneo, capii che quello era il suo strano modo per dimostrare l'affetto che provava per me.

Nessuno è perfetto” lo canzonai, accennando un sorriso tra le lacrime.

Tu sì”.

E mi baciò.

 

•••

 

Fu un bacio arrogante, che mi svuotò il cervello in un secondo. Mai, mai mi sarei aspettata un gesto così irruento. Una vocina nella testa mi disse che avrei dovuto prevederlo, considerate le premesse. Ma era riuscito lo stesso a cogliermi impreparata, e il suo bacio sortì su di me l'effetto di una bomba atomica: mi sentii alla deriva, sperduta; pensai di svenire, ma le sue braccia mi tenevano ancorata al suolo.

Ed era una prigione così dolce...

Ricambiai il bacio.

Disperatamente.

Mi aggrappai a lui come se fosse un dannato pezzo di legno nel mare in tempesta che era la mia esistenza. Lui si staccò.

Quello che vidi nei suoi occhi mi capovolse lo stomaco.

Un fuoco liquido, una lava lenta e ribollente. Con quello sguardo mi avrebbe spogliata e presa lì, all'istante. Quello sguardo prometteva notti intere di lussuria, di passione, di... amore.

Ma avrebbe aspettato. Avrebbe aspettato perché Matt mi rispettava e mi voleva; voleva me, non il mio corpo.

Sapevo riconoscere l'amore quando lo vedevo.

L'avevo visto per anni, riflesso negli occhi di Roberto. Ricordavo il suo sguardo languido dopo una notte passata a fare l'amore. Il suo respiro spezzato quando ci perdevamo l'uno nell'altra. Il modo in cui la sua espressione si scioglieva in un sorriso quando dicevo di amarlo.

Sì. Lui mi aveva amato davvero. Dopo di lui non c'era stato nessuno.

Solo lì, negli occhi di Matt, ritrovai quell'amore.

Come biasimarmi se vi cedetti all'istante?

Riaffondai in quel bacio, annegandoci. Non volevo pensare più a niente.

Ti prego. Fammi dimenticare. Ti prego.

Lui mi amava. Mi amava. E io avevo un disperato bisogno di amore. Chi l'ha provato una volta sa quanto è difficile accontentarsi di meno, accontentarsi del sesso senza sentimenti. E' impossibile. E' distruttivo.

Ma io non l'avevo forse cercato, desiderato, quell'oblio dei sensi, senza preoccuparmi delle conseguenze?

Poi Matt afferrò il nodo che stringeva l'accappatoio e io persi la facoltà di pensare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ciao a tutti! Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, e mi scuso per il perenne ritardo. Ma il prossimo capitolo è già in progettazione e prometto che non tarderà ad arrivare, con tutti i succosi avvenimenti che esso comporta ;)

Lasciate una recensione per farmi contenta! A presto!

   
 
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