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Autore: WibblyWobbly    20/11/2012    2 recensioni
Sherlock non c'è più e John deve andare avanti. A un certo punto, però, "cose impossibili" iniziano a capitare e il dottore si trova a dover fare i conti con la scomparsa del suo migliore amico e con nemici nascosti nell'ombra.
Ancora una versione di "cosa succederà secondo me"... secondo me, questa volta :3
Genere: Mistero, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ciao a tutti!!! *cerca di non dare a vedere l’imbarazzo*
Non è la prima cosa che scrivo ma è sicuramente la prima che pubblico, siate clementi XD
E’ da parecchio che penso di scrivere qualcosa su Sherlock e questo è il risultato. A meno che non cambi idea in corso d’opera non credo che questa storia sfocerà nel Johnlock puro, non credo di essere pronta :3
Per il resto credo che saranno una decina di capitoli, non molto insomma.
Ah, e i personaggi non mi appartengono, no.

Il titolo “Journal Of Impossible Things” trae la sua ragion d’essere da un episodio della terza stagione di “DoctorWho” (era Tennant) dove il Dottore, per una serie di cose, si ritrova in forma umana e decide di scrivere un diario contenente le descrizioni di alcuni sogni ricorrenti (che poi altro non erano che ricordi della sua vita da Dottore).
Qui succedono delle “cose impossbili”, all’inzio John non se ne accorge ma alla fine farà 2 + 2.
Prima di partire l’unico consiglio che posso darvi è “le coincidenze non esistono, mai sottovalutare le coincidenze” :D

Bene.
Non mi resta che augurarvi buona lettura! :D

A sore, tu sai chi sei.
Grazie.

 
 
Respirava piano nel silenzio, John Watson.
Seduto in quella che con il tempo era diventata la sua poltrona, il gomito sinistro poggiato sul bracciolo e i piedi scalzi contro il tappeto.
Quanto tempo era passato dall’ultima volta che era rimasto, scalzo, a fissare il vuoto?
L’estate era ormai alle porte, la luce dorata del pomeriggio filtrava attraverso i vetri delle finestre, illuminando l’appartamento.
Si passò la mano sinistra sul volto e sospirando vi si appoggiò. Nel silenzio irreale che da una settimana ormai aveva inghiottito l’appartamento, poteva distintamente osservare la polvere nei raggi di luce danzare e posarsi pigra sui fogli, sulla scrivania, sul violino.
Il suo violino.
Istantaneamente i ricordi iniziarono a riaffiorare e, come spesso era successo in quei giorni, John non fu in grado di difendersi.

Questa è stata la cosa più ridicola che abbia mai fatto!
E dire che ha invaso l’Afghanistan!

John concentrati, devi concentrarti!
Sherlock, cosa stai facendo?
Devi concentrarti, chiudi gli occhi.
No. Cosa? Perché? Cosa stai facendo?
Devo massimizzare la tua memoria visiva. Cerca di focalizzare ciò che hai visto. Riesci a focalizzarlo?
Sì, certamente.
Riesci a ricordarlo? Riesci a ricordarti lo schema? Quanto bene?
Senti, non preoccuparti.
Perché in media la memoria visiva degli esseri umani è precisa solo al 62%
Beh, non preoccuparti… ricordo tutto!
Davvero?
O almeno ci riuscirei se potessi mettere le mani in tasca… ho fatto una foto!

No, no, no! E’ ovvio che non è il padre del ragazzo! Basta guardare il risvolto dei jeans!

Tirami un pugno in faccia.
Dovrei colpirti?
Sì, colpirmi in faccia, con un pugno non mi hai sentito?
Mi sembra sempre di sentire ‘dammi un pugno’ quando parli, ma di solito è sottinteso.”

“Quello che ho detto prima, John, era sul serio: io non ho amici. Ne ho solo uno.

Stare da solo è tutto quello che ho. Mi protegge.
No. Gli amici ti proteggono.”[1]

Quando tornò alla realtà, John, aveva gli occhi lucidi e il sole aveva lasciato il posto all’oscurità della sera.
Cambiò posizione, i gomiti poggiati alle ginocchia e la testa tra le mani.
Tirò su col naso cercando di rigettare indietro il groppo che gli era salito in gola. C’era solo una cosa da fare.
Con la schiena dritta, per un attimo guardò la poltrona vuota davanti a se. Trasse un profondo respiro e chiuse gli occhi; poi, lentamente, si alzò.
C’era solo una cosa da fare, lo sapeva.
Con passo incerto si diresse verso la porta e scese le scale, preparando mentalmente il discorso con il quale avrebbe detto a Mrs. Hudson che aveva deciso di lasciare l’appartamento.

Quando la mattina dopo ebbe terminato di racimolare la sua roba, John non si stupì più di tanto nel constatare che il tutto era entrato tranquillamente in due valigie.
Le sistemò all’ingresso e si guardò intorno. Accarezzò con lo sguardo le due poltrone, il cuscino con la Union Jack, Billy[2] il teschio e il coltello a serramanico ancora sulla mensola del caminetto, lo smiley in vernice gialla e proiettili sulla parete sopra al divano, il leggio e gli spartiti, il violino.
Prima che il groppo in gola potesse vincerlo ancora, afferrò le valige e si chiuse la porta alle spalle.
Scese i gradini in fretta, senza mai guardarsi indietro.

Dopo un mese l’angusto monolocale che aveva trovato sembrava ancora non volerlo completamente accogliere. O forse era John a non volersi far accogliere; tutto era stato sistemato in modo approssimativo, tanto che ad un occhio esterno poteva sembrare che non vi si fosse ancora trasferito nessuno.
Il lavoro s’era però stabilizzato. Un medico dell’ambulatorio aveva cambiato improvvisamente città e Sarah gli aveva affidato il suo posto. Sembrava una strana coincidenza, ma John preferì non pensarci.
Tutt’a un tratto la sua vita era diventata monotona e costante. Ufficialmente lavorava sei giorni su sette dalle 8.30 alle 18.00 ma cercava sempre di trattenersi almeno sino alle 20.00 e, per tenersi impegnato, spesso s’offriva di sostituire colleghi nei fine settimana.
Tutte le sere tornava a casa e mangiava qualcosa d’asporto che prendeva rientrando dall’ambulatorio; cinese, italiano, tailandese poco gli importava.
I primi tempi si curò di evitare di guardare la televisione e leggere i giornali. Sembravano voler parlare solo ed esclusivamente di una cosa, almeno fin quando qualcosa di più frivolo e interessante non avesse reclamato l’attenzione mediatica.
E così John consumava le sue cene guardando film in dvd, soprattutto quelli di 007 che gli ricordavano una maratona che lui e Sherlock avevano fatto nemmeno un anno prima. [3]
Ma in quel mese si era instaurata anche un’altra consuetudine, un rituale.
Sotto al letto aveva riposto una scatola di legno intarsiato – regalo di alcuni suoi commilitoni quando aveva lasciato l’Afghanistan – e tutte le sere, prima di andare a dormire, si sedeva sul letto e l’apriva.
Non era grandissima ma nemmeno di piccole dimensioni. Conteneva molte cose: dalle vecchie piastrine al pezzo di stoffa stretch dov’era cucito il suo cognome e fotografie di tempi ormai lontani.
Ma c’era anche un'altra cosa, conservata con cura all’interno di una busta di plastica trasparente.
Seduto a gambe incrociate al centro del letto, ogni volta apriva quella busta di plastica con tutta la delicatezza di cui era capace ed estraeva ciò che conteneva.
Una sciarpa di cashmere blu navy. [4]
Anche quella sera, quindi, John carezzò con delicatezza la stoffa morbida e in un gesto tanto automatico quanto necessario, se la portò al volto e inspirò piano chiudendo gli occhi.
Odorava di buono, di ricordi, di adrenalina e forse anche un po’ di formaldeide. Aveva il profumo familiare dei primi tempi passati a rincorrere criminali per Londra, aveva il profumo di casa. L’aveva trovata per caso un giorno, prima di decidere di lasciare l’appartamento, mentre riordinava per tenersi occupato in qualche modo.
Era stata abbandonata dal suo proprietario in un cassetto, quando proprio John gli aveva regalato quella nuova e lì era rimasta, come se avesse sempre saputo che un giorno il dottore ne avrebbe avuto bisogno.
Per un attimo poteva illudersi di essere ancora a casa e dopo aver riposto la scatola s’addormentava sperando di essere svegliato nel cuore della notte dalle note di un violino.
Non succedeva mai, naturalmente.

Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto affrontare le fasi del dolore, era un medico. Solo preferiva non pensarci, al momento.
Qualche giorno dopo essersi trasferito aveva accompagnato Mrs. Hudson al cimitero. Era arrabbiato e triste e forse anche un po’ spaesato.
E così, messe da parte la scienza, il distacco, la logica aveva chiesto un miracolo. Per aggrapparsi a qualcosa.

Una settimana dopo, però, qualcosa riempì la sua monotonia.
Il tempo iniziava a stabilizzarsi e quella era davvero una bella giornata, non troppo calda e col cielo terso.
Nonostante fosse leggermente in ritardo, a passo spedito, John entrò nella caffetteria poco lontano dall’ambulatorio dove ogni mattina si recava prima di iniziare a lavorare.
Si fermò però sulla soglia. C’era davvero molta gente e guardando sconsolato l’orologio realizzò che, almeno per quella mattina, avrebbe dovuto accontentarsi del caffè della macchinetta in ambulatorio.
Voltatosi di fretta verso la strada, però, urtò un vecchio deforme che si trovava alle sue spalle, facendo cadere dei libri che questi teneva in mano. Raccogliendoli, John, notò il titolo di uno di essi: “Origine e culto degli alberi” e pensò che quel tizio fosse un povero diavolo di bibliofilo che, per lavoro o per hobby, collezionava oscure opere letterarie.
Il dottore cercò di scusarsi per l’incidente ma era ovvio che quei libri, da John purtroppo così maltrattati, erano estremamente preziosi per il loro proprietario. Questi con un ringhio di disprezzo girò sui tacchi e John vide sparire la sua schiena incurvata e i suoi favoriti bianchi sparire fra la folla
. [5]
Era seduto alla scrivania da non più di cinque minuti, osservando con sguardo perplesso l’orribile caffè della macchinetta ancora quasi tutto nella tazza, quando dopo aver bussato, Sarah entrò nel suo ufficio.
“Scusa John, so che il tuo primo appuntamento è tra circa un quarto d’ora… ma c’è questo signore che insiste per farsi visitare da te… che faccio?”
“Tranquilla, lascialo passare… vedrò quel che si può fare” le rispose sorridendo.
Quando alzò lo sguardo sul suo nuovo paziente, John si bloccò meravigliato. Era lo strano collezionista di libri, col suo viso rugoso e scarno incorniciato dai capelli bianchi e i suoi preziosi volumi, almeno una dozzina, stretti sotto il braccio destro. [5]
Aveva chiuso la porta alle sue spalle e si era accomodato su una delle due sedie davanti alla scrivania del dottore.
“Lei è sorpreso di vedermi, signore…” gracchiò con una strana voce chioccia.
John annuì: “Posso fare qualcosa per lei?”
Beh, sono un uomo di coscienza, signore, e quando per caso l’ho vista entrare in quest’edificio, mentre la seguivo zoppicando, mi sono detto: ‘entrerò un attimo per vedere quel cortese signore e dirgli che, se i miei modi sono stati un po’ bruschi, non intendevo offenderlo, e che gli sono molto grato per aver raccolto i miei libri.’” [5]
Per un attimo John si sentì a disagio sotto lo sguardo condiscendente dell’anziano signore.
Lei si sta preoccupando troppo per una sciocchezza, mi creda…
Il suo nuovo paziente si sistemò sulla sedia e per un attimo cambiò espressione. Strinse a se i suoi libri e rispose: “Sono un suo vicino… il mio negozietto è all’angolo di Church Street. Potrebbe passarci qualche volta, ne sarei contento. Forse anche lei è un collezionista… ecco, vede? “Uccelli della Gran Bretagna” e “Catullo” e “La Guerra Santa”, tutte occasioni d’oro…” [5]
John sorrise divertito dai modi del signore davanti a sé e stava per rispondere che sì, avrebbe pensato a fare un salto qualche volta, quando l’anziano riprese a parlare.
“Sa è da qualche tempo che la mattina la vedo entrare e uscire dalla caffetteria dove ci siamo scontrati prima… e se lo lasci dire: ha proprio una brutta cera, ragazzo…”
Ancora una volta a disagio, John abbassò gli occhi. Sapeva perfettamente di non avere una bella cera, era stanco, stanco come non era mai stato in vita sua.
“E triste…” aggiunse l’anziano come se gli avesse letto nel pensiero “E’ nel fiore degli anni… cosa mai può averle fatto la vita per farla soffrire così?”
A disagio, John guardò l’uomo davanti a se: “Non credo sia il caso, io non-”
“Sciocchezze!” lo interruppe il bibliofilo “Parlare con uno sconosciuto aiuta… sono un povero vecchio a cui piace ascoltare le persone… lo diceva anche la mia amatissima moglie. Suvvia, è il minimo che posso fare per essere stato così scortese prima…”
John si passò una mano tra i capelli, cosa avrebbe dovuto fare? Le parole gli uscirono prima che potesse controllarle.
“Ho perso una persona cara, ultimamente.”
Il bibliofilo si strinse ancora ai suoi libri, tutto quello che disse fu “Ah”.
E sono arrabbiato” continuò John “E stanco… mi sento come se stessi spingendo una roccia su per una montagna…” [6]
L’anziano si carezzò la barba in un gesto pensieroso, poi disse: “Le darò il consiglio che non mi ha chiesto, ragazzo. Anche io ultimamente ho perso una persona cara, carissima. Faccia come me: decida di stare bene entro il fine settimana. Si costringa a sorridere perché lei è vivo, ed è quello che deve fare. E lo faccia di nuovo la settimana successiva. Non è fingere. E’ essere professionali: lo faccia col sorriso o non lo faccia affatto.” [6]
John fissò il suo ospite con curiosità, avrebbe voluto rispondere ma fu interrotto dal suono dell’interfono: era Sarah, il suo appuntamento era arrivato.
I due uomini si alzarono nello stesso momento. John tese la mano al bibliofilo che stringendogliela prontamente, disse: “Caro ragazzo… John, davvero crede che le persone scomparse che abbiamo amato ci lasciano del tutto?” sottolineando l’ultima parola con un sorriso e un occhiolino.
John biascicò perplesso qualche ringraziamento a quello strano signore e lo fermò prima che potesse varcare la soglia dello studio: “Mi perdoni, non le ho chiesto nemmeno come si chiama…”
Il bibliofilo sorrise e per un attimo a John sembrò che gli si fossero inumiditi gli occhi. Piano l’anziano rispose: “Timothy, mi chiamo Timothy Carlton.” [8]
E detto questo scomparve nei corridoi dell’ambulatorio, mentre John accoglieva, ancora un po’ destabilizzato, il primo paziente della sua giornata.

Non dimenticò il discorso dello strano bibliofilo, John.
In effetti, seguì il consiglio. S’impose di sorridere, almeno fin quando non era solo e iniziò ad andare avanti. Riallacciò i rapporti con Mrs. Hudson, con la quale andava a cimitero almeno una volta al mese. Si davano appuntamento fuori al 221 di Baker Street, prendevano un taxi e senza dire una parola si ritrovavano l’una sotto al braccio dell’altro davanti alla lapide nera e lucida di Sherlock.
Al ritorno si fermavano da Speedy’s per una fetta di torta e una chiacchierata. Era diventata ben presto un’abitudine: ordinavano e Mrs. Hudson chiedeva “Allora, John… come stai?” e lui allora, troppo addolorato per mentirle guardandola negli occhi, abbassava lo sguardo sul dolce e rispondeva sempre “Bene, grazie” e si affrettava poi a cambiare discorso.
Non le aveva mai detto che nonostante le loro visite mensili, continuava a recarsi al cimitero una volta a settimana, da solo.
Riallacciò i rapporti anche con Lestrade. Per poter dare la sua deposizione aveva letto rapporti su rapporti e aveva riflettuto molto. Greg non avrebbe potuto comportarsi in maniera differente in quella situazione e non poteva fargliene una colpa.
Si vedevano due tre sere al mese per una birra e per parlare del più e del meno. Era un brav’uomo e dopotutto anche a lui mancava Sherlock più di quanto volesse ammettere a voce alta.
Qualche volta aveva provato anche a chiamare Molly, proprio non ce la faceva a tornare al Bart’s, nemmeno per una breve visita. Si videro un paio di volte per un the ma probabilmente, pensò John, l’uno ricordava all’altra l’unico motivo che giustificava la loro conoscenza e tutto il dolore che quella verità gli provocava e quando questo fu chiaro ad entrambi smisero semplicemente di vedersi.

Il tempo passò, il tempo passa sempre, completamente inconsapevole del nostro dolore.
Mr. Carlton non tornò più a trovare John, ne gli capitò d’incontrarlo sulla strada per l’ambulatorio o fuori la caffetteria. John aveva provato allora a cercare il negozietto a Church Street, di cui l’anziano signore gli aveva parlato, ma non riuscì a trovarlo.
Tuttavia tra le prenotazioni dei suoi pazienti, una volta a settimana trovava sempre una prenotazione a nome di un certo Timothy Carlton che però non si presentava mai.
In breve tempo l’identità di questo paziente divenne un piccolo mistero irrisolto dell’ambulatorio, con tutti gli addetti ai lavori che cercavano di capire chi fosse e come riuscisse, nonostante i loro controlli, a prenotare sempre una visita e sempre tra i pazienti del dottor Watson.
Da parte sua, John non ammise mai effettivamente di conoscere un Timothy Carlton; il perché nemmeno lui lo sapeva. Era stato un comportamento automatico, come se inconsciamente avesse voluto proteggere quell’anziano così strano e originale. Semplicemente aveva lasciato correre.
L’unico con cui non ricostruì un rapporto, se mai l’avevano avuto davvero, fu Mycroft.
Il solo responsabile, secondo John, di tutto quello che era accaduto. Di tutto quel dolore.
Il maggiore degli Holmes aveva tentato i primi tempi di entrare in contatto con il dottore ma da parte di quest’ultimo non c’era stato verso. Una volta addirittura se l’era trovato sotto casa in completo impeccabile e ombrello anche a fine agosto.
“John, dobbiamo parlare. Almeno ascolta!” gli aveva detto; ma John, fedele fino alla fine a se stesso, non collaborò, chiudendosi in casa fin quando non vide l’altro risalire in macchina e andarsene.
Natale arrivò freddo e improvviso, almeno per John. Mrs. Hudson aveva insistito affinché trascorresse i giorni di festa principali con lei, a casa sua.
Ma questo avrebbe significato rimettere piede al 221 di Baker Street e la mente di John – forse in realtà più il cuore – si rifiutò categoricamente di accettare questa possibilità.
Alla fine cedette alle richieste insistenti di sua sorella Harriet. Aveva programmato di andarla a trovare già il Natale precedente ma tutti gli imprevisti causati dalla Donna avevano stravolto i suoi piani.
Dopotutto, pensò, cambiare aria non poteva che fargli bene.
Arrivò a Cardiff di buon ora, il giorno prima della vigilia di Natale. Come da accordo si diresse direttamente a casa della sorella, stanco e leggermente in ansia.
Doveva ammettere che Harry gli era stata molto vicina in quel periodo ma non la vedeva da un anno e questo gli metteva una leggera ansia.
Tuttavia, nulla avrebbe potuto preparare John a quello che vide quando, dopo aver bussato alla porta della sorella, venne aperta la porta.
Era lì, davanti a lui e lo fissava con un aria tra l’imbarazzato e il divertito. Con la stessa espressione di un bambino sorpreso con le mani nel bicchiere di nutella.
Non parlava, si limitava a sorridergli. John poteva leggere l’eccitazione e la gioia nei suoi occhi, come quando facciamo una sorpresa e non resistiamo nell’attesa di guardare la reazione della persona a cui l’abbiamo fatta.
“Clara!” esclamò John con non poco stupore.
Lei ed Harriet avevano divorziato da più di due anni. Era decisamente l’ultima persona che si aspettava di trovare a casa della sorella.
“Oh John, che bello vederti!” rispose la donna abbracciandolo e lui ricambiò con affetto, gli era sempre stata simpatica.
A quanto risultò poi, Harriet aveva preso l’abitudine di andare a correre tutte le mattine e sarebbe tornata di lì a pochi minuti.
Passarono quel tempo nella camera degli ospiti chiacchierando, mentre Clara era seduta sul letto e John sistemava le sue cose.
La ragazza gli spiegò che aveva incontrato Harry a una festa di amici che non sapevano di avere in comune e avevano cercato entrambe di gestire la cosa con tatto e diplomazia. Avevano finito per occupare tutta la sera a parlare tra di loro come mai era successo negli ultimi mesi del loro matrimonio.
Qualche mese prima Harriet era entrata in un altro cammino che sembrava dare i suoi frutti e decisero che sarebbero rimaste in contatto.
E così avevano fatto. Avevano riscoperto prima l’amicizia profonda che le legava e da lì a tornare insieme il passo era stato breve.
“Volevamo dirtelo di persona, questo Natale. Sappiamo cosa hai dovuto affrontare, che quest’anno non è stato facile ma, John… vedrai… passerà e noi ti staremo accanto, se lo vorrai…”
John si andò a sedere accanto alla cognata e le prese una mano tra le sue.
“Grazie, Clara. Sono davvero felice che si siano aggiustate le cose per voi…” le disse poi sorridendo.
“Ovviamente la strada è ancora lunga e in salita per Harry ma… possiamo farcela questa volta, John.”
Il dottore abbracciò la cognata e sospirò sperando con tutto il cuore che avesse ragione.

Harry li raggiunse poco dopo. Era sinceramente contenta di rivedere il fratello dopo tanto tempo. John la trovò bene, in ordine, sorridente, a tratti felice; pensò che il ritorno di Clara le avesse decisamente giovato.
Passarono tutto il resto della mattinata a parlare, o meglio: Harry a fare domande e John a rispondere, mentre Clara li osservava con condiscendenza.
“E dove lavori ora?”, “Quanti pazienti al giorno ricevi?”, “John ti vedo dimagrito, mangi?”, “E quindi ti sei trasferito a Paddington… com’è?” , “Quando ti deciderai a rimodernare il tuo guardaroba, John? Questo maglione è orrendo!”
Fu poi Clara ad interrompere quell’interrogatorio. Propose al cognato una passeggiata al parco poco distante, mentre lei e Harriet avrebbero pensato a preparare il pranzo.
John accettò entusiasta, riservando a Clara uno sguardo pieno di gratitudine. Erano passate solo poche ore dal suo arrivo e già non sopportava più l’esuberanza della sorella.
Ma quello, tuttavia, poteva anche essere un buon segno.
Il parco poco distante non era esteso quanto i quelli di Londra a cui era abituato, ma era ben tenuto e molto frequentato.
Si accomodò su una panchina e respirò profondamente, cercando qualcosa di non ben definito nella sua anima a cui aggrapparsi per poter sopravvivere a quelle feste.
Tutto era in perfetto stile natalizio: i bambini scorazzavano allegramente sperando che nevicasse, gli adulti passeggiavano chiacchierando.
C’erano anche i musicisti di strada e il loro repertorio di canzoni natalizie.
Fu allora, in mezzo a tutti quei suoni che si accavallavano, che lo sentì.
Senza rendersene conto John si alzò. Era come se il suo corpo si muovesse in forza di una volontà tutta sua, ammaliato da quel suono che non aveva più sentito da mesi.
Per uno scherzo del destino il suonatore era un violinista e le note di “We Wish You A Marry Christmas” che stava eseguendo in modo impeccabile, per John risuonavano nell’aria come un richiamo.
Un richiamo dal passato.
Con pochi passi raggiunse il ristretto gruppo di persone che si era formato per assistere a quel piccolo concerto, cercando di combattere l’ondata di ricordi che gli affollavano la testa.
Guardò l’esecutore: era un ragazzo alto e robusto con i capelli rossi e una folta barba del medesimo colore. Gli occhi scuri sembravano guardare una realtà diversa, totalmente rapiti dalla musica.
John si diede dello stupido e si allontanò. Un senso di delusione, non bene identificato, si andò a confondere con la nostalgia che quella melodia gli aveva provocato, evocandogli immagini di un passato recentissimo (solo un anno prima) che sembrava però appartenere a una vita passata: un’altra città, un’altra casa, altre persone, risate, imbarazzi, un teschio con il cappello di Babbo Natale.
Ma sempre quella melodia, quello strumento, quella canzone.
Questi pensieri furono scossi dalla vibrazione del cellulare. In lontananza il violinista continuava a suonare.
Un messaggio.

Buon Natale, John. MH

Si fermò un istante a fissare il messaggio e in quel momento, per chissà quale ragione, il violinista interruppe bruscamente “We Wish You A Marry Christmas” e nell’aria iniziarono a risuonare le note di “God Save The Queen”. [8]
John ebbe un sussulto, c’era qualcosa che non quadrava. La melodia cessò proprio mentre decideva di tornare indietro. Si avviò quanto più velocemente potesse, cercando di ignorare il dolore alla gamba che iniziava subdolo a riaffacciarsi. Una volta arrivato, però, il piccolo gruppo di persone che aveva assistito all’esecuzione si era diradato e del violinista non c’era più traccia.
 
 
 
Cioè, stai davvero leggendo le ♪ ♫ n o t e ♫ ♪ ?! Pazzesco!!!
[1] Sono tutte scene famose della serie, una per ogni episodio.
[2] Ebbene sì, il teschio ha un nome ufficiale. E’ scritto nel CaseBook, un libro autorizzato della serie. Le 8 sterline meglio spese X3
[3] Anche questa è una notizia “autorizzata”. E’ scritto chiaro tra i commenti al blog ufficiale di John (www.johnwatsonblog.co.uk/) e se cercate bene qualche riferimento alla serata 007 può essere trovato anche tra i post del sito di Sherlock (www.thescienceofdeduction.co.uk)
[4] Mi riferisco alla sciarpa blu indossata da Sherlock nella prima stagione. Essendoci solo una versione (tanto da far terrorizzare gli addetti ai lavori nel caso si fosse rovinata durante le riprese) è stata sostiuita con un’altra per la seconda serie. Nella mia testa è stato John a regalare a Sherlock la nuova sciarpa. XD
[5] Le parti in corsivo vengono tutte (modificate solo dalla prima persona singolare alla terza) dal racconto “L’avventura della casa vuota” prima storia della raccolta “Il Ritorno Di Sherlock Holmes” di Sir. Arthur Conan Doyle. Racconto in cui Sherlock torna dopo tre anni dagli accadimenti alle cascate di Reichenbach.
[6] Citazione presa da un episodio di Supernatural. Esattamente l’ 11x07.
[7] Benedict Timothy Carlton Cumberbatch. Devo aggiungere altro? Penso abbiate capito XD
[8] In “A Scandal In Belgravia” Sherlock suona il violino varie volte. Per suonare il bellissimo “Irene Theme”, “We Wish You A Marry Christmas” la sera di Natale e “God Save The Queen” per infastidire Mycroft.
BeneBeneBene *tira un sospiro di sollievo* questo primo capitolo è andato. E se siete arrivati fin qui, avete tutti la mia stima! :D
   
 
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