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Autore: Darkmarty    08/06/2007    1 recensioni
la mia prima originale!!! ci ho lavorato su per 5 mesi e in parte è ispirato a fatti della mia esperienza. Dove può arrivare un cuore spezzato, distrutto e alienato...Una storia drammatica e anche un po' forte... La canzone "Heart shaped scars" è (C) dei Lullacry, ed è la mia preferita in assoluto.
Genere: Drammatico, Song-fic, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Heart shaped scars

 

Il soffitto qui ha sempre lo stesso, identico, doloroso colore...

Come le pareti...

L’aria ha sempre lo stesso soffocante odore di chiuso...

E’ opprimente, talmente opprimente che spesso vorrei uscire di qui e urlare, solo per respirare a pieni polmoni l’aria della vita “fuori”.

 

Potrei farlo. In teoria.

Ma non ne sono capace.

Ormai non ne ho più le forze, non ho la forza né la voglia necessarie a fare qualunque cosa.

Qualunque cosa tranne starmene seduta su questa dura sedia, di fianco a questo freddo letto, di fianco a questa macchina che, instancabilmente, da più di due mesi, emette a ritmi apatici e regolari dei piccoli “bip”...

 

Due mesi...

 

Non posso dormire, non ci riesco...

 

A volte mi sveglio, di soprassalto, perché il sonno mi ha vinta...

e guardo in direzione di quel letto...sento il debole “bip-bip”, seguo le eteree punte che troppo raramente si sollevano da quella linea continua e verde...

Fisso le mie pupille in quella linea, seguendola in ogni sua inflessione...anche quando sento le pupille dilatarsi, la visuale farsi offuscata e la testa girarmi vorticosamente...

Non posso distaccare gli occhi da quello schermo, non posso permettermelo...i miei occhi ci stanno incollati come api sul miele, come magneti sul ferro...

 

Due mesi...

 

Shane...

Shane...Shane...Shane...Shane...SHANE...SHANE...

 

Due mesi...

 

Solo il catturare il battito del tuo cuore

Mi aiuta a dimenticare il dolore

Amore, tu mi fai sentire completa

Tu sei l’unico...

 

Non posso, non posso continuare...

 

La porta si apre lentamente, cigolando sempre con la stessa, identica monotonia; la donna dai capelli scuri raccolti in uno chignon si passa una mano sulla gonna dell’uniforme immacolata e mi guarda sospirando.

Poi, mi pone le stesse, identiche domande che mi pone da due mesi:

- Ma sei ancora qui? Pensi di tornare a casa, un giorno?

 

A volte quelle dieci parole mi sembrano avere un suono quasi sarcastico.

Ad ogni modo la mia risposta è anch’essa sempre identica.

Scuoto la testa, un movimento lento da sinistra a destra, per due volte, senza alzare gli occhi da quella mano posata inerte sul mio ginocchio.

Sono io che ho appoggiato lì quella mano, sono io che ne accarezzo debolmente le nocche da due mesi.

 

Una mano attaccata a un braccio...attaccato al braccio, un tubicino sottile che inietta un liquido azzurrino nelle sue vene scure...

il braccio è il suo...il suo corpo...è sul quel letto...

Shane...Shane...

 

Cosa sei tu, Shane? Cosa sei diventato?

Cosa è rimasto di te?

 

Un corpo semi-deceduto disteso su un letto, in un ospedale freddo come una ghiacciaia, con i soffitti sempre uguali, i muri sempre uguali, odori sempre uguali, rumori sempre uguali, un’infermiera sempre uguale...

Ma soprattutto, sempre la stessa identica persona che sta seduta accanto al tuo letto...

 

Va bene per te, Shane?

Posso restare ancora qui...ancora...oltre questi due mesi?

Mi vuoi ancora?

 

Anche se ti ponessi queste domande avvicinandomi al tuo orecchio, non mi risponderesti...

 

Nel mio cervello non sono rimasti che pochissimi ricordi del perché non posso più sentire la tua voce...del perché non posso più vedere il colore delle tue iridi scure...

 

Una notte buia...pioggia come se diluviasse...

gocce che battevano contro il parabrezza, che correvano in diagonale lungo il vetro dei finestrini...

le risate di due persone...

una ragazza...un ragazzo...

Lei si chiama Haven...lui si chiama Shane...

 

La mano di lei si sposta sulla sinistra fino a sfiorare la sua, poggiata sulla leva del cambio...

 

Troppo veloce...

Avrebbero dovuto rallentare...

Forse avrebbero visto prima quel Tir provenire dalla direzione opposta...

Forse l’avrebbero evitato...


Il gioco dei “forse”...

poteva andare avanti in eterno...

 

Nessun elemento di quel gioco fu soddisfatto...

Lei urla.

Lui stringe il volante tra le mani, lo spinge a destra.

 

Le luci accecanti dei fanali investono i loro occhi, lasciavi scie iridescenti, lacerando le loro pupille...

Un rumore disordinato di ferraglia, il parabrezza squarciato da una crepa che somiglia a una ragnatela...

Lei chiude gli occhi, si stringe le braccia intorno al petto...

Sente il suo corpo sollevarsi, in un attimo tutto si tinge di nero.

Una botta violentissima alla nuca.

 

Lei riapre gli occhi quando sente un rumore di sirene.

La visuale le viene obnubilata da un rivolo di sangue scuro, che le scorre lungo la linea delle ciglia, fino a colarle all’interno della palpebra.

I capelli lunghi sparsi sul catrame...

I capelli lunghi sparsi in una pozza scarlatta...

 

Rumore di sirene...

Ambulanze...
AMBULANZE?

 

Cos’è successo??

 

La testa è un vortice nauseante di pensieri e ricordi...

L’ultima immagine prima di quella è la luce del fanale sinistro del Tir che le si insinuava nella retina.

 

Cos’è successo??

 

Facendo forza sugli avambracci, Haven si solleva da terra, per quanto le è possibile.

Si guarda intorno...

 

Shane...Shane...

 

Cerca di chiamare il suo nome, ma dalla gola le esce solo un flebile gemito, coperto dalle urla delle sirene...

I suoi occhi vengono invasi dalla luce blu che ruota su se stessa, sul soffitto dell’automezzo.

Alle sue orecchie giunge vago e indistinto un marasma di voci.

Voci che urlano.

Voci che strepitano.

Voci che chiamano.

Voci che gridano, che strillano.

 

Cos’è successo??

 

Poi perde di nuovo i sensi.


I ricordi sono icone confuse in una foschia traboccante orrore, emicrania, sangue...


Quella ragazza distesa sull’asfalto, in un lago di sangue vermiglio...quella ragazza di nome Haven...

Sono io.

 

Sono io che guardo il trauma cranico che ho subito e la conseguente amnesia svanire di giorno in giorno.

Sono io che noto le fasciature sulle mie gambe e sulle braccia diminuire sempre più di numero.

Sono io che sto seduta qui da due mesi.

Sono io che non ricordo più come si fa quel movimento delle labbra chiamato “sorriso”.

Sono io che rispondo laconicamente di no, ogni volta che quell’infermiera mi chiede “Sei proprio sicura di non avere bisogno di uno psicologo?”

 

No, che non ne ho bisogno.

Mi sembra più che normale la situazione in cui mi trovo.


Cazzo, il mio ragazzo, la persona che amo di più sulla faccia di questa insulsa Terra è in coma di terzo grado da due mesi...

Che diavolo dovrei fare?

Andare avanti nel percorso della mia vita?


E che razza di percorso sarebbe, poi?

 

Sì, alla fine ammetto di stare da schifo.

Schifo, schifo, schifo, schifo schifoso.

 

Ma non posso andarmene da qui.

I miei genitori hanno rinunciato a tirarmi fuori.

 

Ricordo quando, verso la metà del primo mese, mio padre mi aveva afferrata per le braccia, cercando di trascinarmi fuori.

E io avevo iniziato a urlare, a tirare calci. Mi ero aggrappata alla coperta, tirando fuori il lenzuolo da sotto il materasso e strappandone una parte.

Mia madre, si era messa a gridare e a piangere pure lei.

Lei urlava e io urlavo. E piangevo, frignavo, mi lagnavo.

 

Come una bambina, come una bambina.

Come una bambina a cui stanno portando via la bambola preferita.

Ma Shane non è la mia bambola preferita.

Anche se non si muove, anche se guardando il suo corpo non pare nulla di più che un manichino inerte.

Shane è la mia vita.

Shane è la mia morte.

E se questo ospedale sarà la sua morte, allora dovrà essere anche la mia.

 

Io ti amo per quel che vale

Tu sei l’unico

E al tuo fianco io strappo il mio orgoglio

Tu sei l’unico...

 

Sono ancora qui, davanti allo specchio.

L’infermiera mi fa sempre uscire, quando cambia le bende a Shane.

E io allora mi dirigo verso il bagno.

E’ come un rituale lucido e allo stesso tempo inconscio.

Mi chiudo la porta alle spalle, faccio scattare la chiave nella serratura.

Percorro i pochi metri che separano l’uscio dai lavandini.

Mi guardo nel riflesso.

Ho un taglio non ancora cicatrizzato sulla fronte, vicino all’occhio destro. Due graffi sul labbro. Un solco di cui mi resterà il segno per diversi anni, se non per sempre, sotto l’occhio sinistro. E’ lì che mi hanno colpita i vetri del finestrino, quando sono volata fuori dall’auto.

I capelli sono ricresciuti quasi completamente, anche dove, per curarmi l’ematoma alla testa, avevano dovuto tagliarmeli quasi tutti.

Sono lunghi, piuttosto mossi, con la tinta sbiadita. E’ da tanto che non me la rifaccio...

Le unghie sono spezzate, con residui di smalto e macchiette scure di sangue raggrumato ai bordi, gli occhi circondati da circoletti neri, lividi, quasi violacei.

Traggo un gran respiro.

Socchiudo gli occhi, anche se già potrei tranquillamente crollare a terra...non so neppure quante ore ho dormito nelle ultime settimane...

Mi appoggio una mano sul polso e tiro la manica della camicia verso l’alto.

Uno, due, tre, quattro, cinque...

Dieci, quindici, venti...

Venticinque, trenta, trentacinque...

 

Linee, rette, tratteggi, curve...

Verticali, orizzontali, diagonali, oblique...

Incrociate, parallele, quasi circolari...

 

E, sulla parte interna del polso, dove le vene si vedono di più attraverso la mia pelle di latte...

Un cuore.

E una S al centro, disegnata come meglio mi riusciva attraverso il velo delle lacrime.

 

Dal polso al gomito, quella pelle nivea che ho sempre adorato diventa sempre più simile ad una mappa di vie che si incontrano, si allontanano, si ri-incrociano, si deviano, si inclinano e si declinano, in un rivoletto rosso opaco, ogni volta che, dopo aver sfilato quel pezzetto di ferro arrugginito dalla tasca, ripasso su quelle linee, come a ripercorrere ogni mio errore, ogni istante che scorre senza sapere quando potrò risentire il suono della sua voce, o rendere realtà costante i miei ricordi su quanto fossero belle le sue iridi color cacao.

 

Non mi importa se fa male

Cicatrici a forma di cuore

Tu sei tutto ciò che voglio

Tu sei l’unico...

 

Non importa quante bende, fasciature e cerotti potranno sparire dal mio corpo, quella sera non si cancellerà mai, mai, mai, mai, mai...

 

La lametta arrugginita cade a terra tintinnando.

Mi piace quel suono, è quasi cristallino, forse l’unico suono diverso dal “Bip-bip” della macchina a cui è legato Shane che sento da due mesi a questa parte.

Abbasso lo sguardo e la fisso.

La vedo sdoppiata, a volte anche divisa in più di quattro parti.

A volte cambia anche colore, come quelle immagini che si vedono attraverso i caleidoscopi.

Da quanto non mangio?

Da quanto non dormo?

 

Il tempo non è più una dimensione esistente.

Il tempo è ciò che gli altri vivono fuori.

E’ ciò che vivono i miei genitori, che vive quell’infermiera, che vive la gente che vedo a volte dalla finestra. E’ ciò che vivono tutti, tranne me.

Io non mi schiodo da quella sera.

Dalla sua risata.

Dalle luci di quei fanali.

Dai rumori delle sirene, delle voci urlanti, dalla luce accecante blu del faretto sulle mie pupille.

 

Mi chino fino a sedermi per terra, sulle fredde piastrelle del bagno, accanto alla mia lametta e alle piccole chiazzette color rubino che occhieggiano a terra.

Lacrime, lacrime di sangue salato.

 

Non è giusto, non è giusto tutto questo...

 

...Non mi importa se fa male

Non mi importa se fa male

Non mi importa se fa male

Non mi importa se fa male

Non mi importa se fa male

Non mi importa se fa male...

 

Un grido improvviso mi sgancia a forza da quel torpore in cui ero caduta.

Qualcuno bussa forsennatamente alla porta, chiamando il mio nome in tono ansioso, esasperato.


Barcollando, mi aggrappo al piano del lavandino.

Faccio più forza che posso sulle dita, cercando di ignorare il sangue che mi cola dagli avambracci fino alle maniche, imbrattandomi la gonna e la camicia di rosso scuro.

 

...Cicatrici a forma di cuore

Cicatrici a forma di cuore

Cicatrici a forma di cuore

Cicatrici a forma di cuore...

 

Appena riesco a raggiungere la porta e ad aprirla spingendola di peso, mi trovo di fronte un medico.

Ci impiego un po’ per metterlo a fuoco, ma poi lo riconosco.

E’ il medico di Shane.

 

- Dott...dottore...che...co...che cosa...

 

Lui mi fissa, fissa le mie braccia e il mio vestito...i lividi...i segni di denti, i MIEI denti...le cicatrici orlate di rosso sugli stinchi e le ginocchia, sul collo e sulle tempie...

Odio questa stasi...la odio...

Mi fa schifo, mi fa schifo più di me stessa...

 

- DOTTORE! Mi risponda! Shane...

 

Lui sembra ricordarsi solo in quel momento che ho una voce e mi fissa stupito.

Per poi abbassare lo sguardo, mentre il suo “Mi dispiace... viene oscurato sempre più da un suono che prima non avevo notato, persa nelle immagini che vorticavano davanti ai miei occhi.

Un prolungato e straziante “BIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIP...

 

- Cosa...cosa...COSA CAZZO E’...

 

Il dottore cerca di mettermi una pacca sulla spalla.

Mi scanso, sbattendo brutalmente con la spalla contro lo stipite della porta.

 

No, no, no, no, no, no, no, no, no....

NO. NO, MI RIFIUTO.

 

Non ho la forza di piangere.

Qualcosa si screpola, nel mio cervello, quando lo sento ripetere l’ora del decesso di fronte a me.

Il decesso.

Il decesso è sinonimo di morte.

La morte di Shane.

 

Mi copro le orecchie con le mani e urlo, urlo, urlo.

Urlo con tutte le mie forze, lascio uscire tutta l’aria che non ho respirato in questi due mesi.

Urlo fino a farmi bruciare le corde vocali, fino a sentire i timpani lacerarsi in un dolore assurdo, inconcepibile.  

 

- Signorina Haven...aspetti qui un attimo...non si muova...vado a chiamare lo psicologo...

 

Sono una donna spaccata a metà.

Una parte è già sepolta in una tomba immaginaria.

Lui è disteso di fianco a me, in una bara color ebano. Lo abbraccio stretto, circondata da fiori e velluto bianco.

L’illusione si sovrappone ai ricordi.

 

Prendimi ancora la mano, in riva al mare...

Accarezzami ancora le labbra con le dita, sotto una pioggia scrosciante...

Sfiorami ancora l’orecchio con la bocca, mentre mi mormori “Ti amo, Haven...”

Sussurrami ancora “Farò piano, starò attento... prima di scivolare nella la mia verginità...

Ricordami ancora quanto eravamo perfetti...

Richiamami alla memoria gli istanti che scorrevano troppo veloci, troppo appassionati, troppo incasinati, troppo meravigliosi, troppo idilliaci...

 

Sono una donna spaccata a metà.

Il mio cuore è morto.

Spento, arrestato, bloccato, incapace di emettere anche solo una mezza pulsazione.

 

Ancora appoggiata allo stipite della porta del bagno, rivolgo lo sguardo al fondo del corridoio.

C’è una porta finestra aperta, spalancata su un balconcino.

Il vento di fine febbraio scosta leggermente le tende.

Ed è così che lo vedo.

 

Shane.

Il mio Shane.

Seduto su quel balcone.

Ha qualcosa di diverso. E’ pallido, quasi trasparente.

 

Comincio a camminare, a camminare sempre più velocemente.

Verso di lui.

Cammino, cammino, cammino...corro, corro, corro...

Inciampo, sbucciandomi un ginocchio.

Mi tolgo le scarpe, gettandomele alle spalle.

Mi rialzo e riprendo a correre.

 

...Tu sei l’unico...

 

Siamo così vicini, non mi fermo nemmeno.

So che quel balcone sporge dal settimo piano dell’ospedale.

So che se mi fermassi e guardassi giù, non vedrei che tanti veicoli e persone delle dimensioni di formiche.

Ma non posso più fermarmi.

 

Non mi importa cosa c’è oltre quel balcone.

Non mi importa.

 

Non so, non so nulla, nulla di nulla...

 

Non mi fermo, non mi fermerò...

Ma so perché LUI è lì.

 

Mentre mi butto verso di lui, tra le sue braccia, quasi evanescenti, capisco in un istante che ciò che sto facendo è giusto, che ci permetterà di restare uniti...

 

Uniti per sempre.

Qualunque cosa questo possa significare.

 

Shane, il mio Shane....

...è venuto a prendermi.

 

Non mi importa se fa male

Cicatrici a forma di cuore

Tu sei tutto ciò che voglio

Tu sei l’unico...

 

 

  
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