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Autore: Natalja_Aljona    21/11/2012    1 recensioni
Natal'ja vende fiammiferi e sogna la Rivoluzione.
Siberiana fin nelle ossa e nel sangue, nel cuore e nell'anima, nipote di uno dei capi dei Decabristi ed ultima erede della famiglia russa più temuta dallo zar, è quasi impazzita in prigione ma sa che non è finita.
Geórgos vive per la guerra e per il cielo di Sparta.
Nato durante la Guerra d'Indipendenza Greca e nipote del capo dei Kléftes, i briganti e i partigiani del Peloponneso, ogni notte spara alle stelle perché ha un conto in sospeso con gli Dei.
Feri è uno zingaro ungherese, il terzogenito di Kolnay Desztor, il criminale del secolo, e il più coraggioso dei suoi fratelli.
Legge il destino tra le linee della mano, e tre anni di galera e lavori forzati non sono bastati a fargli smettere di credere nel suo.
Nikolaj, ussaro polacco e pianista mancato, crede di aver perso tutto.
Sa che l'epilessia, i complessi d'inferiorità nei confronti del padre morto, l'ossessione per sua cugina e i suoi sogni infranti lo uccideranno, ma la sua morte vuole deciderla lui, e a ventidue anni s'impicca per disperazione e per vendetta.
Genere: Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
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Гражданская Война Сибирячка



Trecentoottantaquattro

Гражданская Война Сибирячка

Graždanskaja Vojna Sibirjačka

La guerra civile siberiana

Вторая Часть

Vtoraya Čast’
Parte Seconda

L’assedio di Krasnojarsk

 

Vennero in sella due gendarmi

Vennero in sella con le armi

Chiesero al vecchio se lì vicino

Fosse passato un assassino

(Il Pescatore, Fabrizio De André)
-Riferito a Feri Desztor-

 

Krasnojarsk, 27 Febbraio 1844

 

Mother, I'm a stranger in a strange land

I feel like an alien

Like I'm on the outside looking in

I don't seem to fit in

 

Maybe I'm Aladdin with a rusty lamp

A Genie never stood a chance

To make all my wishes come true

But here’s what I want to do

 

You go in with the right intent

When you become President

You hold those truths to be self-evident

When you become President

 

Cause somethin’ happens to you up on the hill

It's business as usual

How do you want to buck the system?

 

Washington! Jefferson!

Watch out, baby, cause here I come

Abraham! Theodore!

You know you'll see my ugly mug

Up on mount rushmore - Yeah!

 

Madre, io sono uno straniero in una terra straniera

Mi sento come un alieno

Come se stessi guardando da fuori

Non riesco ad adattarmi

 

Forse sono Aladino con una lampada arrugginita

Un genio che non ha mai avuto un’occasione

Per far avverare tutti i miei desideri

Ma ecco cosa voglio fare

 

Tu arrivi con il giusto intento

Quando diventi Presidente

Sei in possesso di verità di per sé evidenti

Quando diventi Presidente

 

Perché ti succede qualcosa sulla cima della collina

È un affare come al solito

Come vuoi invertire il sistema?

 

Washington! Jefferson!

Guarda fuori, bambino, perché sto arrivando io

Abraham! Theodore!

Sai che dovrai vedere il mio brutto muso

Sul Monte Rushmore - Sì!

(When I’m President, Ian Hunter & The Rant Band)

 

Erano occorsi sette mesi per organizzare un esercito.

L’esercito di Feri Desztor.

Agli undicimila uomini di Stepašin, divisi in tre falangi rispettivamente guidate dal suddetto capotribù e dai suoi generali Iraklij Iosifovič Pavlov e Grigorij Michailovič Sibirjak, si erano uniti i novemila Baškiri dell’eroe di guerra Lev Fëdorovič Julajev, discendente di quel Salavat Julajev ch’era stato alleato di Pugačëv, i tremila Cosacchi della sòtnia di Lörinc e i quattromila ai comandi dell’ataman di Petropavlovsk, Taras Emel’janovič Äşirbekov.

In tutto erano ventisettemila uomini, tra soldati, ribelli e sovversivi...ed era il 27 Febbraio.

Il 27 Febbraio 1844, il giorno del diciannovesimo compleanno di Natal’ja.

Lev Julajev era il comandante del blocco navale nel Porto di Krasnojarsk, che aveva assediato con tre navi da guerra.

Gli uomini di Stepašin e Äşirbekov costituivano una schiera impenetrabile alle porte della città, e Akakij li seguiva con quattro taccuini, tre pennini e due calamai, documentando tutto e prendendo appunti per i prossimi articoli della Prospekt Nevskij, con gli occhi che gli brillavano per l’entusiasmo - non solo giornalistico.

Cyriel, il suo giovane apprendista belga, si era rifiutato di accompagnarlo, per la troppa paura di ritrovarsi nel fuoco della battaglia.

Pál e Csák Desztor avevano disertato gli ussari per unirsi al fratello.

Farkas, quella mattina, era uscito di casa con gli occhi luminosi come quando era un bambino a Bucarest, e seduto sui gradini appena fuori dalla porta giocherellava con i capelli biondi di sua sorella maggiore Larisa e la faceva sorridere sempre, prima che lei si sposasse, prima che suo marito la uccidesse.

Prima che suo padre, distrutto dal dolore, gli ordinasse di sparargli, e prima che sua madre morisse di polmonite.

Prima che lo arrestassero, confondendo l’eutanasia invocata da suo padre con un efferato parricidio.

Prima che bruciassero ogni singolo bagliore dei suoi undici anni.

Prima che gli calpestassero il cuore sotto i tacchi degli stivali.

Prima, prima, prima...

Prima di diventare così.

Poi aveva chiamato Aloizy, il suo amico ucraino, e lui aveva portato un foglio, un pennino e un calamaio.

Sui gradini di un’altra casa, in un'altra città, aveva provato a scrivere per la prima volta.

Aloizy gli aveva detto di ricopiare l’alfabeto cirillico, e Farkas l’avrebbe fatto, ma prima aveva voluto provare a scrivere una parola nella sua lingua, in rumeno.

La mano gli tremava e il cuore gli batteva forte.

Aloizy gli aveva sorriso e lui aveva appoggiato la punta del pennino appena intinta nell’inchiostro sul foglio.

Revoluție.

 

Poor man wanna be rich
Rich man wanna be king
And a king ain't satisfied
Till he rules everything
I wanna go out tonight
I wanna find out what I got
Now I believe in the love that you gave me
I believe in the faith that could save me
I believe in the hope and I pray that some day
It will raise me above these badlands

 

Il povero vorrebbe essere ricco
Il ricco vorrebbe essere un re
E un re non è mai soddisfatto
Fino a quando non comanda su ogni cosa
Voglio uscire stasera
Voglio trovare quello che mi appartiene
Ora credo all'amore che mi hai dato
Credo nella fede che mi potrà salvare
Credo nella speranza e prego che un giorno
Mi possa sollevare al di sopra di questi bassifondi

(Badlands, Bruce Springsteen)

 

Моя красивая Наталья (Moya krasívaya Natal’ja, Mia bellissima Natal’ja),

Sono passati tredici anni da quando te l’ho promesso, da quando mi sono innamorato di te.

Sono passati nove anni da quando mi hai lasciato per quell’infame spartano.

È passato un anno da quando te ne sei andata con lui.

Questa è la nostra Rivoluzione.

 

Disperatamente, inutilmente tuo

Feri

 

Feri Desztor era leggenda, una forza della natura.

Bello lo era stato sempre, ma di quella bellezza messa in secondo piano dal coraggio, dalla violenza e dalla rabbia.

Non era per la sua bellezza che Feri Desztor sarebbe stato ricordato.

Non solo.

Di lui si sarebbe detto ch'era bello, sì, ma di una bellezza che, come ogni cosa in lui, faceva paura.

Il lucente nero carbone dei suoi occhi e dei suoi capelli faceva venire i brividi, faceva gelare il sangue, anche quando lui non aveva la minima intenzione di spaventare qualcuno.

Era la sua fama che faceva il resto.

Una fama che lampeggiava come un fulmine nella mente di chiunque incrociasse il suo sguardo, come un segnale d'allarme.
Irek non ci aveva creduto, a quella fama, e si era ritrovato inchiodato al suo giaciglio nella sua tenda con più fasciature addosso che sangue nelle vene per quasi cinque mesi.

Senza contare le cicatrici sul collo per i due tentati strangolamenti da parte del suscettibile Ungherese.

A volte veniva alle mani per niente, ma era evidente in ognuno di quei suoi sguardi agghiaccianti che il sangue che versava l'aveva perso per primo lui.

Si era informato, ed aveva saputo di quando era stato trasferito dal Carcere di Krasnojarsk al Manicomio Criminale, a diciotto anni, nell'Ottobre del 1837.

Aveva appreso con orrore che non era un'invenzione di nessuno, la pazzia di Feri Desztor.

Poi era scappato anche da lì, e a Bergen, nel 1839, la sua malattia aveva raggiunto il culmine. Così avevano detto i giornali, perché non sapevano ancora niente della Guerra Civile Siberiana. Era questo a fare veramente paura.

Pugačëv era stato sì imprevedibile, ma mai quanto poteva esserlo un pazzo, un vero pazzo.

Era una cosa che andava di pari passo con il coraggio, con la circolazione del sangue, la sua pazzia.

Negli occhi e nel sangue di Feri scorrevano sogni di una Rivoluzione spietata.

E quel giorno...

Quel giorno era abbagliante.

Non perché avesse qualcosa di veramente diverso dal solito, non esattamente.

Aveva qualcosa di meraviglioso negli occhi, questo sì.

La certezza di avercela fatta, a raccogliere e schierare un esercito, il suo esercito, l’esercito della Rivoluzione.

Se ne stava lì, in testa alle sue falangi, come se lo credesse ancora un sogno, il suo sogno e quello di Lys.

Con una camicia bianca un po’ stropicciata, i pantaloni neri stretti infilati negli stivali di pelle di suo padre, anch'essi neri, i capelli scuri sconvolti dal vento e gli occhi scintillanti, sognanti, che sembravano quasi, a tratti, tornati all’innocenza/vissuta spensieratezza della sua infanzia a Budapest, tra il cielo e il Danubio, la strada e le stelle, la via Rákos e Hosök Tere, con quell’atmosfera da Iliade ungherese e i suoi tredici eroi, le risate dei suoi fratelli e i pestaggi in galera, le sigarette e le castagne, le speranze e i pregiudizi, le condanne capitali e le mancate esecuzioni, gli ergastoli quotidiani e le evasioni da feuilleton, le nevicate ad Agosto sui Carpazi e i riflessi argentei/turchini del Balaton, le responsabilità nei confronti di Jànos e Hajnalka e soprattutto, i baci di sua madre.

Quelli sì, gli mancavano quasi più della libertà.

Più di Natal’ja, o forse allo stesso modo.

Perché sua madre e Natal’ja erano sempre state sullo stesso piano.

La sua infanzia, la sua favola di periferia.

Che non poteva tornare.

Ma ce l’aveva nel cuore.

Per sempre.

Sembrava quasi più giovane, quel giorno, mentre invece tutte le altre volte il suo sguardo dimostrava dieci anni in più.

Aveva ancora ventiquattro anni, quasi venticinque, Feri, quel giorno.

Un anno in meno di Annibale quando aveva sfidato i Romani.

Sorrise, sorrise ancora, il Capitano, ripensando a quando Natal’ja, nel ’42, per il suo ventitreesimo compleanno, gli aveva ricopiato su un foglio del suo quaderno alcune citazioni di Ad Urbe condita libri di Tito Livio su Annibale, che l’avevano fatta pensare a lui.

 

“Massima era la sua audacia nell'affrontare i pericoli, massima la sua prudenza negli stessi, da nessun disagio il suo corpo poteva essere affaticato, né il suo coraggio poteva essere vinto.

[...]

Era Annibale il primo tra i fanti ed i cavalieri.

Egli nell'avviarsi alla battaglia precedeva tutti, e finito lo scontro tornava per ultimo.

[...]

...una feroce crudeltà, una perfidia più che cartaginese, niente di vero o santo, nessun rispetto per la religione, nessun timore per gli dei, nessuno per il giuramento”.

(Tito Livio, Ad Urbe condita libri)

 

Era uno dei tanti idoli di Lys, Annibale Barca, e anche a Feri, effettivamente, l’eroico Generale cartaginese stava molto simpatico.

Indubbiamente gli assomigliava, anche nei difetti, e ne era oltremodo orgoglioso.

Il suo sorriso svanì un poco, però, quando pensò che se fosse stata lì accanto a lui in quel momento, quel giorno, Lys quelle parole gliele avrebbe sussurrate all’orecchio con quella sua solita adorabile, ironica, scherzosa dolcezza, e poi gli avrebbe soffiato un bacio su una guancia, l’avrebbe abbracciato forte e gli avrebbe detto, sognante: “Ты самый лучший, мой Капитан”, Ty samyy lučšiy, moy Kapitan, Sei il migliore, mio Capitano.

E lui sarebbe morto d’amore nel guardarla, con quell’adorazione che mai nessuno avrebbe ritenuto possibile attribuire a Feri Desztor, a quel Feri Desztor, quello della feroce crudeltà annibalica.

Pensò che in quel momento, quel giorno, i suoi occhi sarebbero stati più azzurri che grigi, perché aveva sempre gli occhi azzurri, Nataljetshka, quando era con lui.

E lui lo sapeva, non potevano essere così azzurri anche per suo marito.

Pensò che, se solo avesse potuto, se solo l’avesse avuta vicina, si sarebbe arrotolato al dito una delle sue biondissime ciocche ondulate e l’avrebbe fatta ridere come quasi sempre, perché quando il resto del mondo lo temeva, quell’assurda fiammiferaia bionda rideva sempre, rideva di felicità, quando lo vedeva.

Era così tenera e buffa, lei, con quella sua lunghissima e foltissima chioma color miele scompigliata lungo i fianchi e costellata, talvolta, di fiocchi di neve, il vestito bianco stropicciato sul corpicino spaventosamente esile e i piedini nudi, gelati di neve, quella neve di cui lei, Siberiana in ogni suo respiro, lacrima e goccia di sangue, pareva la dea, una dea bambina che con quella neve gli aveva bruciato il cuore.

Ricordava bene, Feri, la devastazione avvertita in ogni parte del suo corpo, sempre più magro, ossuto e maledettamente dolorante -faceva la fame per sorte e per amore, il Capitano-, la prima volta che aveva avuto la lancinante certezza di averla persa, la sua piccola dea, e non per colpa, non per scelta, ma per un sorriso e uno sguardo fin troppo esotico, per un attimo.

Ringraziava, a volte, quel bel cielo traditore che gli brillava sopra di non essere stato presente a Liverpool in quei mesi, mentre lei s’innamorava del bel greco allora tredicenne e quest’ultimo, forse non sapendo, ma più probabilmente non volendo sapere, senza alcuna pietà, mai l’ombra di un rimorso, gliela portava via.

-Feri... È Nikolaj Romanov che devi combattere, oggi. Non George-

Jànos... Non l’aveva neanche visto.

Era di fianco a lui.

Jànos... Grazie al cielo adesso l’aveva visto.

Se non ci fosse stato lui...

-Combattere? Solo combattere? Io quel dannato lo devo sconfiggere-

In quel momento, durante l’estatico preludio del suo trionfo e un attimo dopo i suoi mille sorrisi brutalmente infranti, negli occhi di Feri l’immagine di Nikolaj Romanov e quella di Brian George Gibson erano sovrapposte, ed era difficile dire perfino per lui quale fosse quella che odiava di più.

Si sentì momentaneamente spiazzato, terribilmente indifeso, tra quelle due immagini quasi reali, il primo il mostro della sua infanzia e il secondo quello del suo presente e futuro spezzato, i suoi incubi ad occhi aperti, gli parvero entrambi mille volte più forti di lui, e si sentì quasi mancare.

Si resse alla spalla di suo fratello, così bello nello splendore dei suoi vent’anni appena scoccati, nei suoi sogni ancora ardenti, ancora così poco scalfiti dalle delusioni e dalle sconfitte, suo fratello che aveva ancora sulle labbra il sapore della vittoria, e se avesse potuto lui gliene avrebbe regalata un’altra, il suo Jànos, la sua speranza e il suo futuro.

-Non pensare a lei, non adesso. Anche se lo stai facendo per lei, non pensarci-

-Io lo sapevo già allora, tredici anni fa, che sarebbe stato per sempre... Solo che allora credevo che sarebbe stato bellissimo-

-E tutto questo, Feri? Non è bellissimo? Il tuo esercito, la nostra Rivoluzione!-

-Да, да. Я знаю. Мне жаль... Нο єто больнο...  Ещё... Много. Слишком. Слишком, Jàn.

Я не хочу... Но не могу... Моя Наталя, так красивая... Вы знаете это...

Его светлые волосы, его снегом... Его глаза... И этот греческие ублюдка... Ее мужа...

Мой разбилось сердце... Бот и всё-

Da, da. Ya znaju. Mne žal’... No eto bol’no... Yeščjo... Mnogo. Sliškom. Sliškom, Jàn.

Ya ne khočù... No ne mogù... Moya Natal’ja, tak krasívaya... Vy znajete eto...

Yego svetlyye volosy, yego snegom... Yego glazá... I etot grečeskiye ublyudka... Yeye muža...

Moy razbilos’ serdtse... Vot i vsjo.

Sì, sì. Lo so. Mi dispiace... Ma fa male... Ancora... Tanto. Troppo. Troppo, Jàn.

Io non voglio... Ma non posso... La mia Natal’ja, così bella... Tu lo sai...

I suoi capelli biondi, la sua neve... I suoi occhi... E quel bastardo greco... Suo marito...

Il mio cuore spezzato... Tutto qua.

Jànos avrebbe dovuto essere abituato a questi discorsi del fratello, eppure quella volta, quel giorno sussultò.

Tra di loro parlavano quasi sempre in ungherese, e quel fiume di parole russe, spesso sconnesse, senza un vero e proprio filo logico, una vera e propria frase, fu una pugnalata alla struggente memoria di Natal’ja.

-Ты правый... Ты правый- riuscì solo a ripetere.

Ty pravyy... Ty pravyy...

Hai ragione... Hai ragione...

-E se...-

Gli occhi di Feri erano bellissimi in quel momento, lacerati di luce.

Spaventosamente belli, come lui.

-E se non avessi ragione ma avessi lei?- sussurrò, più al vento che a Jàn.

Scese una lacrima, una lacrima sola, da quegli occhi stupendi e terribili.

Ma perché?

Aveva distrutto anche la sua Rivoluzione, quella ragazzina.

 

Hold, hold me for a while

I know this won't last forever

So hold, hold me tonight

Before the morning takes you away

 

What's that sparkle in your eyes?

 Is it tears that I see?

Oh, tomorrow you are gone

So tomorrow I'm alone

 

Stringimi, stringimi per un po’

So che questo non durerà per sempre

E allora stringimi, stringimi stanotte

Prima che il mattino ti porti via

 

Cos’è che brilla nei tuoi occhi?

Sono lacrime quelle che vedo?

Oh, domani te ne sarai andata

Quindi domani sarò da solo

(Hold me for a while, Rednex)

 

Feri pensò a due frasi, due frasi della notte del 24 Dicembre 1843.

Natal’ja nel suo letto, Natal’ja tra le sue braccia.

Ma quelle parole l’avevano ucciso.

 

-Tu sei bello come lui...-

-Tu sei bella come sempre-

Lys l’aveva baciato, non si era accorta che le palpebre di Feri sanguinavano di lacrime, e lui avrebbe voluto affondarle un coltello in quel cuore sempre perso dietro a George, sempre troppo vicino a lui.

 

Come si poteva sopravvivere a una frase del genere?

A una ragazza del genere?

Come si poteva?

 

We'd go down to the river
And into the river we'd dive
Oh, down to the river we'd ride

 

At night on them banks I'd lie awake
And pull her close just to feel each breath she'd take
Now those memories come back to haunt me, they haunt me like a curse
Is a dream a lie if it don't come true
Or is it something worse that sends me
Down to the river though I know the river is dry
Down to the river, my baby and I
Oh, down to the river we ride

 

Andammo giù al fiume

E nel fiume ci tuffammo

Oh, corremmo giù al fiume

 

Di notte giacevo sveglio su quelle sponde
E la stringevo forte a me
Solo per sentire ogni suo respiro
Ora questi ricordi ritornano e mi tormentano
Mi tormentano come una maledizione
È un sogno, una bugia, se non diviene realtà
O qualcosa di peggio ancora
Che mi manda giù al fiume
Sebbene io sappia che il fiume è secco
Giù al fiume, io e il mio tesoro
Oh, corremmo giù al fiume

(The River, Bruce Springsteen)

 

Immaginò di vederla, con gli stivali sfondati e il vestito fradicio di neve, colta dalla tempesta ma non impreparata.

Abituata.

Ferita ma sorridente, con i capelli sciolti, fulgidi e bellissimi.

E gli occhi grigi di cielo, scintillanti oltre la nebbia.

Niente in lei avrebbe potuto essere più luminoso.

Niente in lui avrebbe potuto essere più spezzato.

Perché quel giorno, oltre la nebbia, c'era tutto il cielo del mondo, ma non il suo.

E pazienza.

Pazienza.

Lui senza cielo e senza neve era andato avanti per tre anni.

La luce l'aveva dentro, e gli bastava.

Ma Natal'ja l'aveva persa, e gli mancava.

E quella non era una cosa che si poteva cambiare.

A volte avrebbe voluto aver sbagliato davvero, aver fatto un qualsiasi errore per meritare di perderla.

E invece niente.

Lui aveva mille difetti, aveva fatto mille errori, ma con lei aveva cercato di non sbagliare mai.

E purtroppo ci era anche riuscito.

Se solo avesse potuto tornare indietro e sbagliare qualcosa...

Tutto per avere almeno una spiegazione, una scusa.

Forse sarebbe servito.

Sicuramente non sarebbe bastato, ma un po’ l’avrebbe aiutato.

Almeno un po’.

 

They say a city in the desert lies

The vanity of an ancient king

But the city lies in broken pieces

Where the wind howls and the vultures sing

These are the works of man

This is the sum of our ambition

It would make a prison of my life

If you became another's wife

With every prison blown to dust

My enemies walk free

I'm mad about you, I'm mad about you

 

Si dice che in una città nel deserto riposi

La vanità di un antico re

Ma la città riposa in frantumi

Dove il vento ulula e gli avvoltoi gracchiano

Queste sono le opere dell’uomo

Questo è il risultato della nostra ambizione

Tu farai della mia vita una prigione

Se diventerai la moglie di un altro

Con ogni prigione soffiata dalla polvere

I miei nemici saranno liberi

Sono pazzo di te, sono pazzo di te

(Mad About You, Sting)

 

Ora basta, però.

Ora doveva pensare allo zar.

Se lo impose con violenza, e fece quasi spaventare Jàn, che credette quello sguardo così tagliente rivolto a lui, si spezzò il cuore con le sue stesse mani, si morse a sangue le labbra e per poco non gli scoppiò la testa, ma bene o male ci riuscì.

-Mi sento come la protagonista cretina di un feuilleton- rivelò al fratello dopo un po’, e gli strappò un sorriso.

-Forse tu sei più cretino, però-

-Probabile. Ma sai cos’è davvero sicuro, oggi?-

-Что?- Čto? Cosa?, chiese Jàn, con un sorriso pieno di aspettative.

-Che farò ingoiare l’anima allo zar a furia di colpi di pistola. Io, Feri Desztor.

Lo giuro su quella maledetta sgualdrina di Natalys. La mia Natalys-

-Lo so. L’ho sempre saputo, Feri. Tu sei l’unico che puoi-


What if I say I'm not like the others?
What if I say I'm
not just another one of your plays?
You're the pretender
What if I say I will never surrender?


I'm the voice inside your head
You refuse to hear
I'm the face that you have to face
Mirroring your stare
I'm what's left
I'm what's right
I'm the enemy
I'm the hand that took you down
Bring you to your knees

So who are you?


E se ti dicessi che non sono come gli altri?

E se ti dicessi che non sono solo un’altra delle tue recite?

Sei tu quello che finge

E se ti dicessi che non mi arrenderò mai?

 

Sono la voce nella tua testa
Quella che tu rifiuti di sentire
Sono il viso che devi affrontare
Quello che rispecchia il tuo sguardo
Sono ciò che rimane, sono ciò che è giusto
Sono il nemico, sono la mano che ti ha fatto cadere
Che ti ha messo in ginocchio

Ma tu chi sei?

(The Pretender, Foo Fighters)

-Riferito a Feri Desztor e Nikolaj Romanov I-

 

Chissà per quanto tempo avrebbero resistito, gli abitanti di Krasnojarsk.

Per quanto tempo gli sarebbero bastati i viveri.

Chissà quanti si sarebbero uniti a lui, quanti l’avevano aspettato, e quanti invece si sarebbero semplicemente arresi.

Quanti non avrebbero capito e si sarebbero rifiutati, mettendo in piedi un esercito e scendendo in campo a difendere l’autocrazia.

Chissà quando lo zar avrebbe mandato il suo esercito, chissà se credeva ancora di poter avere la meglio.

I Cosacchi Kazaki, i Baškiri e i popoli delle steppe, i Siberiani, avevano sempre tenuto testa all’Esercito Zarista come i Germani ai Romani.

Nikolaj Romanov I avrebbe dovuto fare i conti con la furia di un sopravvissuto di Omsk.

Il grande, il terribile Feri Desztor.

Un ragazzino ungherese, l’eroe del secolo.

L’erede di Emel’jan Ivanovič Pugačёv, o forse molto di più.

 

-Capitano...- sussurrò Grigorij, avvicinandosi ad Irek.

Ma quest’ultimo gl’indicò Feri, quel ragazzo da cui era spaventato e affascinato al tempo stesso, quel ragazzo che l’aveva costretto a cambiare idea.

-È lui, il Capitano. Fate tutto quello che dice lui-

 

Feri pensò ai suoi tredici anni d’attesa e d’amore, e pensò ch’erano stati abbastanza.

Pensò che sarebbe andato tutto bene, una volta tanto.

Che stava facendo per Lys una cosa che Lys non avrebbe visto, come al solito, ma ne valeva comunque la pena.

L’assedio era appena cominciato.

Senza di lei.

E Feri pensava che stavolta ce l’avrebbe fatta.

Davvero.


And I have never in my life
Felt more alone than I do now
Although I claim dominions over all I see
It means nothing to me
There are no victories

In all our histories

Without love


E mai una volta nella mia vita
Mi sono sentito più solo di adesso
Anche se proclamo di dominare tutto quello che vedo

Non vuol dire nulla per me
Non ci sono vittorie
Nelle nostre storie

Senza amore

(Mad About You, Sting)

 

 

 

Note

 

Credo che un mio commento a questo capitolo sarebbe superfluo, dato che la frase più ricorrente è “Feri pensò”, non “Martina pensò” ;)

Spero tanto che vi sia piaciuto!

 

A presto ;)

Marty

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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