Trecentoottantaquattro
Гражданская Война
Сибирячка
Graždanskaja Vojna
Sibirjačka
La guerra civile
siberiana
Вторая
Часть
Vtoraya Čast’
Parte Seconda
L’assedio di
Krasnojarsk
Vennero in sella due gendarmi
Vennero in sella con le armi
Chiesero al vecchio se lì vicino
Fosse passato un assassino
(Il Pescatore, Fabrizio De André)
-Riferito a Feri Desztor-
Krasnojarsk, 27 Febbraio 1844
Mother,
I'm a stranger in a strange land
I
feel like an alien
Like
I'm on the outside looking in
I
don't seem to fit in
Maybe
I'm Aladdin with a rusty lamp
A
Genie never stood a chance
To
make all my wishes come true
But
here’s what I want to do
You
go in with the right intent
When
you become President
You
hold those truths to be self-evident
When
you become President
Cause
somethin’ happens to you up on the hill
It's business as usual
How
do you want to buck the system?
Washington!
Jefferson!
Watch
out, baby, cause here I come
Abraham!
Theodore!
You
know you'll see my ugly mug
Up
on mount rushmore - Yeah!
Madre, io sono uno straniero in una
terra straniera
Mi sento come un alieno
Come se stessi guardando da fuori
Non riesco ad adattarmi
Forse sono Aladino con una lampada
arrugginita
Un genio che non ha mai avuto
un’occasione
Per far avverare tutti i miei
desideri
Ma ecco cosa voglio fare
Tu arrivi con il giusto intento
Quando
diventi Presidente
Sei
in possesso di verità di per sé evidenti
Quando diventi Presidente
Perché ti succede qualcosa sulla cima
della collina
È un affare come al solito
Come vuoi invertire il sistema?
Washington! Jefferson!
Guarda fuori, bambino, perché sto
arrivando io
Abraham! Theodore!
Sai che dovrai vedere il mio brutto
muso
Sul Monte Rushmore - Sì!
(When
I’m President, Ian Hunter & The Rant Band)
Erano occorsi sette mesi
per organizzare un esercito.
L’esercito di Feri Desztor.
Agli undicimila uomini di
Stepašin, divisi in tre falangi rispettivamente guidate dal suddetto capotribù
e dai suoi generali Iraklij Iosifovič Pavlov e Grigorij Michailovič
Sibirjak, si erano uniti i novemila Baškiri dell’eroe di guerra Lev
Fëdorovič Julajev, discendente di quel Salavat Julajev ch’era stato
alleato di Pugačëv, i tremila Cosacchi della sòtnia di Lörinc e i quattromila ai
comandi dell’ataman di Petropavlovsk, Taras Emel’janovič Äşirbekov.
In tutto erano
ventisettemila uomini, tra soldati, ribelli e sovversivi...ed era il 27 Febbraio.
Il 27 Febbraio 1844, il giorno del diciannovesimo
compleanno di Natal’ja.
Lev Julajev era il
comandante del blocco navale nel Porto di Krasnojarsk, che aveva assediato con
tre navi da guerra.
Gli uomini di Stepašin e Äşirbekov
costituivano una schiera impenetrabile alle porte della città, e Akakij li
seguiva con quattro taccuini, tre pennini e due calamai, documentando tutto e
prendendo appunti per i prossimi articoli della Prospekt Nevskij, con gli occhi che gli brillavano per l’entusiasmo
- non solo giornalistico.
Cyriel, il suo giovane
apprendista belga, si era rifiutato di accompagnarlo, per la troppa paura di ritrovarsi
nel fuoco della battaglia.
Pál e Csák Desztor avevano
disertato gli ussari per unirsi al fratello.
Farkas, quella mattina, era
uscito di casa con gli occhi luminosi come quando era un bambino a Bucarest, e
seduto sui gradini appena fuori dalla porta giocherellava con i capelli biondi
di sua sorella maggiore Larisa e la faceva sorridere sempre, prima che lei si sposasse, prima che suo marito
la uccidesse.
Prima che suo padre,
distrutto dal dolore, gli ordinasse di sparargli, e prima che sua madre morisse
di polmonite.
Prima che lo arrestassero, confondendo l’eutanasia
invocata da suo padre con un efferato parricidio.
Prima che bruciassero ogni
singolo bagliore dei suoi undici anni.
Prima che gli calpestassero il cuore sotto i tacchi
degli stivali.
Prima, prima, prima...
Prima di diventare così.
Poi aveva chiamato Aloizy,
il suo amico ucraino, e lui aveva portato un foglio, un pennino e un calamaio.
Sui gradini di un’altra
casa, in un'altra città, aveva provato a scrivere per la prima volta.
Aloizy gli aveva detto di
ricopiare l’alfabeto cirillico, e Farkas l’avrebbe fatto, ma prima aveva voluto
provare a scrivere una parola nella sua lingua, in rumeno.
La mano gli tremava e il
cuore gli batteva forte.
Aloizy gli aveva sorriso e
lui aveva appoggiato la punta del pennino appena intinta nell’inchiostro sul
foglio.
Revoluție.
Poor man wanna be rich
Rich man wanna be king
And a king ain't satisfied
Till he rules everything
I wanna go out tonight
I wanna find out what I got
Now I believe in the love that you gave me
I believe in the faith that could save me
I believe in the hope and I pray that some day
It will raise me above these badlands
Il povero vorrebbe essere ricco
Il ricco vorrebbe essere un re
E un re non è mai soddisfatto
Fino a quando non comanda su ogni cosa
Voglio uscire stasera
Voglio trovare quello che mi appartiene
Ora credo all'amore che mi hai dato
Credo nella fede che mi potrà salvare
Credo nella speranza e prego che un giorno
Mi possa sollevare al di sopra di questi bassifondi
(Badlands, Bruce Springsteen)
Моя
красивая
Наталья (Moya krasívaya Natal’ja, Mia
bellissima Natal’ja),
Sono passati tredici anni da quando te l’ho promesso,
da quando mi sono innamorato di te.
Sono passati nove anni da quando mi hai lasciato
per quell’infame spartano.
È passato un anno da quando te ne sei andata con
lui.
Questa è la nostra Rivoluzione.
Disperatamente, inutilmente tuo
Feri
Feri Desztor era leggenda,
una forza della natura.
Bello lo era stato sempre,
ma di quella bellezza messa in secondo piano dal coraggio, dalla violenza e
dalla rabbia.
Non era per la sua bellezza
che Feri Desztor sarebbe stato ricordato.
Non solo.
Di lui si sarebbe detto
ch'era bello, sì, ma di una bellezza che, come ogni cosa in lui, faceva paura.
Il lucente nero carbone
dei suoi occhi e dei suoi capelli faceva venire i brividi, faceva gelare il sangue,
anche quando lui non aveva la minima intenzione di spaventare qualcuno.
Era la sua fama che faceva
il resto.
Una fama che lampeggiava
come un fulmine nella mente di chiunque incrociasse il suo sguardo, come un
segnale d'allarme.
Irek non ci aveva creduto, a quella fama, e si era
ritrovato inchiodato al suo giaciglio nella sua tenda con più fasciature
addosso che sangue nelle vene per quasi cinque mesi.
Senza contare le cicatrici sul collo per i due
tentati strangolamenti da parte del suscettibile Ungherese.
A volte veniva alle mani
per niente, ma era evidente in ognuno di quei suoi sguardi agghiaccianti che il
sangue che versava l'aveva perso per primo lui.
Si era informato, ed aveva
saputo di quando era stato trasferito dal Carcere di Krasnojarsk al Manicomio
Criminale, a diciotto anni, nell'Ottobre del 1837.
Aveva appreso con orrore
che non era un'invenzione di nessuno, la pazzia di Feri Desztor.
Poi era scappato anche da
lì, e a Bergen, nel 1839, la sua malattia aveva raggiunto il culmine. Così
avevano detto i giornali, perché non sapevano ancora niente della Guerra Civile
Siberiana. Era questo a fare veramente
paura.
Pugačëv era stato sì
imprevedibile, ma mai quanto poteva esserlo un pazzo, un vero pazzo.
Era una cosa che andava di
pari passo con il coraggio, con la
circolazione del sangue, la sua pazzia.
Negli occhi e nel sangue di Feri scorrevano sogni
di una Rivoluzione spietata.
E quel giorno...
Quel giorno era
abbagliante.
Non perché avesse qualcosa
di veramente diverso dal solito, non esattamente.
Aveva qualcosa di
meraviglioso negli occhi, questo sì.
La certezza di avercela fatta, a raccogliere e
schierare un esercito, il suo esercito,
l’esercito della Rivoluzione.
Se ne stava lì, in testa
alle sue falangi, come se lo credesse ancora un sogno, il suo sogno e quello di Lys.
Con una camicia bianca un
po’ stropicciata, i pantaloni neri stretti infilati negli stivali di pelle di
suo padre, anch'essi neri, i capelli scuri sconvolti dal vento e gli occhi scintillanti, sognanti,
che sembravano quasi, a tratti, tornati all’innocenza/vissuta spensieratezza
della sua infanzia a Budapest, tra il cielo e il Danubio, la strada e le stelle,
la via Rákos e Hosök Tere, con quell’atmosfera da Iliade ungherese e i suoi
tredici eroi, le risate dei suoi fratelli e i pestaggi in galera, le sigarette
e le castagne, le speranze e i pregiudizi, le condanne capitali e le mancate
esecuzioni, gli ergastoli quotidiani e le evasioni da feuilleton, le nevicate ad Agosto sui Carpazi e i riflessi argentei/turchini
del Balaton, le responsabilità nei confronti di Jànos e Hajnalka e soprattutto,
i baci di sua madre.
Quelli sì, gli mancavano
quasi più della libertà.
Più di Natal’ja, o forse allo stesso modo.
Perché sua madre e Natal’ja erano sempre state
sullo stesso piano.
La sua infanzia, la sua favola di periferia.
Che non poteva tornare.
Ma ce l’aveva nel cuore.
Per sempre.
Sembrava quasi più
giovane, quel giorno, mentre invece tutte le altre volte il suo sguardo
dimostrava dieci anni in più.
Aveva ancora ventiquattro
anni, quasi venticinque, Feri, quel giorno.
Un anno in meno di
Annibale quando aveva sfidato i Romani.
Sorrise, sorrise ancora,
il Capitano, ripensando a quando Natal’ja, nel ’42, per il suo ventitreesimo
compleanno, gli aveva ricopiato su un foglio del suo quaderno alcune citazioni
di Ad Urbe condita libri di Tito
Livio su Annibale, che l’avevano fatta pensare a lui.
“Massima era la sua audacia
nell'affrontare i pericoli, massima la sua prudenza negli stessi, da nessun
disagio il suo corpo poteva essere affaticato, né il suo coraggio poteva essere
vinto.
[...]
Era Annibale il primo tra i fanti ed
i cavalieri.
Egli nell'avviarsi alla battaglia
precedeva tutti, e finito lo scontro tornava per ultimo.
[...]
...una feroce crudeltà, una perfidia
più che cartaginese, niente di vero o santo, nessun rispetto per la religione,
nessun timore per gli dei, nessuno per il giuramento”.
(Tito Livio, Ad Urbe condita libri)
Era uno dei tanti idoli di
Lys, Annibale Barca, e anche a Feri, effettivamente, l’eroico Generale
cartaginese stava molto simpatico.
Indubbiamente gli
assomigliava, anche nei difetti, e ne era oltremodo orgoglioso.
Il suo sorriso svanì un
poco, però, quando pensò che se fosse stata lì accanto a lui in quel momento, quel giorno, Lys quelle parole gliele
avrebbe sussurrate all’orecchio con quella sua solita adorabile, ironica,
scherzosa dolcezza, e poi gli avrebbe soffiato un bacio su una guancia, l’avrebbe
abbracciato forte e gli avrebbe detto, sognante: “Ты
самый лучший,
мой Капитан”, Ty samyy lučšiy, moy Kapitan, Sei il
migliore, mio Capitano.
E lui sarebbe morto
d’amore nel guardarla, con quell’adorazione che mai nessuno avrebbe ritenuto
possibile attribuire a Feri Desztor, a quel
Feri Desztor, quello della feroce
crudeltà annibalica.
Pensò che in quel momento,
quel giorno, i suoi occhi sarebbero
stati più azzurri che grigi, perché aveva sempre gli occhi azzurri,
Nataljetshka, quando era con lui.
E lui lo sapeva, non potevano essere così azzurri anche per suo
marito.
Pensò che, se solo avesse potuto, se solo l’avesse
avuta vicina, si sarebbe arrotolato al dito una delle sue biondissime
ciocche ondulate e l’avrebbe fatta ridere come quasi sempre, perché quando il resto del mondo lo temeva,
quell’assurda fiammiferaia bionda rideva sempre, rideva di felicità, quando lo vedeva.
Era così tenera e buffa,
lei, con quella sua lunghissima e foltissima chioma color miele scompigliata
lungo i fianchi e costellata, talvolta, di fiocchi di neve, il vestito bianco
stropicciato sul corpicino spaventosamente esile e i piedini nudi, gelati di
neve, quella neve di cui lei, Siberiana in ogni suo respiro, lacrima e goccia
di sangue, pareva la dea, una dea bambina che con quella neve gli aveva
bruciato il cuore.
Ricordava bene, Feri, la
devastazione avvertita in ogni parte del suo corpo, sempre più magro, ossuto e
maledettamente dolorante -faceva la fame per sorte e per amore, il Capitano-,
la prima volta che aveva avuto la lancinante certezza di averla persa, la sua piccola dea, e non per
colpa, non per scelta, ma per un sorriso e uno sguardo fin troppo esotico, per un attimo.
Ringraziava, a volte, quel
bel cielo traditore che gli brillava sopra di non essere stato presente a Liverpool
in quei mesi, mentre lei s’innamorava del bel greco allora tredicenne e
quest’ultimo, forse non sapendo, ma più probabilmente non volendo sapere, senza alcuna pietà, mai l’ombra di un rimorso, gliela portava via.
-Feri... È Nikolaj Romanov che
devi combattere, oggi. Non George-
Jànos... Non l’aveva
neanche visto.
Era di fianco a lui.
Jànos... Grazie al cielo
adesso l’aveva visto.
Se non ci fosse stato lui...
-Combattere? Solo combattere? Io quel
dannato lo devo sconfiggere-
In quel momento, durante
l’estatico preludio del suo trionfo e un attimo dopo i suoi mille sorrisi
brutalmente infranti, negli occhi di Feri l’immagine di Nikolaj Romanov e
quella di Brian George Gibson erano sovrapposte, ed era difficile dire perfino
per lui quale fosse quella che odiava di più.
Si sentì momentaneamente
spiazzato, terribilmente indifeso,
tra quelle due immagini quasi reali, il primo il mostro della sua infanzia e il
secondo quello del suo presente e futuro spezzato, i suoi incubi ad occhi
aperti, gli parvero entrambi mille volte
più forti di lui, e si sentì quasi mancare.
Si resse alla spalla di
suo fratello, così bello nello splendore dei suoi vent’anni appena scoccati, nei
suoi sogni ancora ardenti, ancora così poco scalfiti dalle delusioni e dalle
sconfitte, suo fratello che aveva ancora sulle labbra il sapore della vittoria,
e se avesse potuto lui gliene avrebbe regalata un’altra, il suo Jànos, la sua speranza e il suo futuro.
-Non pensare a lei, non
adesso. Anche se lo stai facendo per lei,
non pensarci-
-Io lo sapevo già allora, tredici anni fa, che sarebbe stato per
sempre... Solo che allora credevo che
sarebbe stato bellissimo-
-E tutto questo, Feri? Non è
bellissimo? Il tuo esercito, la nostra
Rivoluzione!-
-Да, да. Я знаю.
Мне жаль... Нο
єто больнο... Ещё... Много. Слишком. Слишком, Jàn.
Я не хочу... Но не могу... Моя Наталя, так красивая... Вы
знаете это...
Его
светлые волосы, его снегом... Его
глаза... И этот
греческие
ублюдка... Ее
мужа...
Мой
разбилось
сердце... Бот и
всё-
Da, da. Ya znaju. Mne žal’... No eto bol’no... Yeščjo...
Mnogo. Sliškom. Sliškom, Jàn.
Ya ne khočù... No ne mogù... Moya Natal’ja, tak krasívaya... Vy znajete eto...
Yego svetlyye volosy, yego snegom... Yego glazá... I etot grečeskiye ublyudka... Yeye
muža...
Moy razbilos’ serdtse... Vot
i vsjo.
Sì, sì. Lo so. Mi dispiace... Ma fa male...
Ancora... Tanto. Troppo. Troppo, Jàn.
Io non voglio... Ma non posso... La mia Natal’ja,
così bella... Tu lo sai...
I suoi capelli biondi, la sua neve... I suoi
occhi... E quel bastardo greco... Suo marito...
Il mio cuore spezzato... Tutto qua.
Jànos avrebbe dovuto essere
abituato a questi discorsi del fratello, eppure quella volta, quel giorno sussultò.
Tra di loro parlavano
quasi sempre in ungherese, e quel fiume di parole russe, spesso sconnesse, senza
un vero e proprio filo logico, una vera e propria frase, fu una pugnalata alla
struggente memoria di Natal’ja.
-Ты
правый... Ты
правый- riuscì solo a ripetere.
Ty pravyy... Ty pravyy...
Hai ragione... Hai ragione...
-E se...-
Gli occhi di Feri erano
bellissimi in quel momento, lacerati di
luce.
Spaventosamente belli, come lui.
-E se non avessi ragione ma avessi lei?- sussurrò, più al vento che a Jàn.
Scese una lacrima, una
lacrima sola, da quegli occhi stupendi e terribili.
Ma perché?
Aveva distrutto anche la
sua Rivoluzione, quella ragazzina.
Hold,
hold me for a while
I
know this won't last forever
So
hold, hold me tonight
Before
the morning takes you away
What's
that sparkle in your eyes?
Is it tears that I see?
Oh,
tomorrow you are gone
So
tomorrow I'm alone
Stringimi, stringimi per un po’
So che questo non durerà per sempre
E allora stringimi, stringimi
stanotte
Prima che il mattino ti porti via
Cos’è che brilla nei tuoi occhi?
Sono lacrime quelle che vedo?
Oh, domani te ne sarai andata
Quindi domani sarò da solo
(Hold me for a while, Rednex)
Feri pensò a due frasi,
due frasi della notte del 24 Dicembre 1843.
Natal’ja nel suo letto, Natal’ja tra le sue
braccia.
Ma quelle parole l’avevano ucciso.
-Tu sei bello come lui...-
-Tu sei bella come sempre-
Lys l’aveva baciato, non si era accorta che le palpebre di Feri
sanguinavano di lacrime, e lui avrebbe voluto affondarle un coltello in
quel cuore sempre perso dietro a George, sempre
troppo vicino a lui.
Come si poteva sopravvivere a una frase del genere?
A una ragazza del genere?
Come si poteva?
We'd
go down to the river
And into the river we'd dive
Oh, down to the river we'd ride
At
night on them banks I'd lie awake
And pull her close just to feel each breath she'd take
Now those memories come back to haunt me, they haunt me like a curse
Is a dream a lie if it don't come true
Or is it something worse that sends me
Down to the river though I know the river is dry
Down to the river, my baby and I
Oh, down to the river we ride
Andammo giù al fiume
E nel fiume ci tuffammo
Oh, corremmo giù al fiume
Di notte giacevo sveglio su quelle
sponde
E la stringevo forte a me
Solo per sentire ogni suo respiro
Ora questi ricordi ritornano e mi tormentano
Mi tormentano come una maledizione
È un sogno, una bugia, se non diviene realtà
O qualcosa di peggio ancora
Che mi manda giù al fiume
Sebbene io sappia che il fiume è secco
Giù al fiume, io e il mio tesoro
Oh, corremmo giù al fiume
(The River, Bruce Springsteen)
Immaginò di vederla, con
gli stivali sfondati e il vestito fradicio di neve, colta dalla tempesta ma non
impreparata.
Abituata.
Ferita ma sorridente, con
i capelli sciolti, fulgidi e bellissimi.
E gli occhi grigi di
cielo, scintillanti oltre la nebbia.
Niente in lei avrebbe potuto essere più luminoso.
Niente in lui avrebbe potuto essere più spezzato.
Perché quel giorno, oltre
la nebbia, c'era tutto il cielo del mondo, ma non il suo.
E pazienza.
Pazienza.
Lui senza cielo e senza
neve era andato avanti per tre anni.
La luce l'aveva dentro, e
gli bastava.
Ma Natal'ja l'aveva persa,
e gli mancava.
E quella non era una cosa
che si poteva cambiare.
A volte avrebbe voluto
aver sbagliato davvero, aver fatto un qualsiasi errore per meritare di
perderla.
E invece niente.
Lui aveva mille difetti,
aveva fatto mille errori, ma con lei aveva cercato di non sbagliare mai.
E purtroppo ci era anche riuscito.
Se solo avesse potuto
tornare indietro e sbagliare qualcosa...
Tutto per avere almeno una
spiegazione, una scusa.
Forse sarebbe servito.
Sicuramente non sarebbe
bastato, ma un po’ l’avrebbe aiutato.
Almeno un po’.
They
say a city in the desert lies
The
vanity of an ancient king
But
the city lies in broken pieces
Where
the wind howls and the vultures sing
These
are the works of man
This
is the sum of our ambition
It
would make a prison of my life
If
you became another's wife
With
every prison blown to dust
My
enemies walk free
I'm
mad about you, I'm mad about you
Si dice che in una città nel deserto
riposi
La vanità di un antico re
Ma la città riposa in frantumi
Dove il vento ulula e gli avvoltoi
gracchiano
Queste sono le opere dell’uomo
Questo è il risultato della nostra
ambizione
Tu farai della mia vita una prigione
Se diventerai la moglie di un altro
Con ogni prigione soffiata dalla polvere
I miei nemici saranno liberi
Sono
pazzo di te, sono pazzo di te
(Mad About You, Sting)
Ora basta, però.
Ora doveva pensare allo zar.
Se lo impose con violenza,
e fece quasi spaventare Jàn, che credette quello sguardo così tagliente rivolto
a lui, si spezzò il cuore con le sue stesse mani, si morse a sangue le labbra e
per poco non gli scoppiò la testa, ma bene o male ci riuscì.
-Mi sento come la protagonista cretina di un
feuilleton- rivelò al fratello
dopo un po’, e gli strappò un sorriso.
-Forse tu sei più cretino, però-
-Probabile. Ma sai cos’è davvero sicuro,
oggi?-
-Что?- Čto? Cosa?, chiese Jàn, con un
sorriso pieno di aspettative.
-Che farò ingoiare l’anima allo zar a furia di
colpi di pistola. Io, Feri Desztor.
Lo giuro su quella maledetta sgualdrina di Natalys.
La mia Natalys-
-Lo so. L’ho
sempre saputo, Feri. Tu sei l’unico
che puoi-
What if I say I'm not like the others?
What if I say I'm not just another
one of your plays?
You're the pretender
What if I say I will never surrender?
I'm the voice inside your head
You refuse to hear
I'm the face that you have to face
Mirroring your stare
I'm what's left
I'm what's right
I'm the enemy
I'm the hand that took you down
Bring you to your knees
So who are you?
E se ti dicessi che non sono come gli altri?
E se ti dicessi che non sono solo
un’altra delle tue recite?
Sei tu quello che finge
E
se ti dicessi che non mi arrenderò mai?
Sono la voce nella tua testa
Quella che tu rifiuti di sentire
Sono il viso che devi affrontare
Quello che rispecchia il tuo sguardo
Sono ciò che rimane, sono ciò che è giusto
Sono il nemico, sono la mano che ti ha fatto cadere
Che ti ha messo in ginocchio
Ma
tu chi sei?
(The Pretender, Foo Fighters)
-Riferito
a Feri Desztor e Nikolaj Romanov I-
Chissà per quanto tempo
avrebbero resistito, gli abitanti di Krasnojarsk.
Per quanto tempo gli sarebbero bastati i viveri.
Chissà quanti si sarebbero
uniti a lui, quanti l’avevano aspettato,
e quanti invece si sarebbero semplicemente arresi.
Quanti non avrebbero capito e si sarebbero
rifiutati, mettendo in piedi un esercito e scendendo in campo a difendere
l’autocrazia.
Chissà quando lo zar
avrebbe mandato il suo esercito, chissà se credeva ancora di poter avere la
meglio.
I Cosacchi Kazaki, i
Baškiri e i popoli delle steppe, i
Siberiani, avevano sempre tenuto testa all’Esercito Zarista come i Germani
ai Romani.
Nikolaj Romanov I avrebbe dovuto fare i conti con
la furia di un sopravvissuto di Omsk.
Il grande, il terribile
Feri Desztor.
Un ragazzino ungherese,
l’eroe del secolo.
L’erede di Emel’jan Ivanovič
Pugačёv, o forse molto di più.
-Capitano...- sussurrò
Grigorij, avvicinandosi ad Irek.
Ma quest’ultimo gl’indicò
Feri, quel ragazzo da cui era spaventato e affascinato al tempo stesso, quel
ragazzo che l’aveva costretto a cambiare idea.
-È lui, il Capitano. Fate tutto quello che dice lui-
Feri pensò ai suoi tredici
anni d’attesa e d’amore, e pensò ch’erano stati abbastanza.
Pensò che sarebbe andato
tutto bene, una volta tanto.
Che stava facendo per Lys
una cosa che Lys non avrebbe visto, come
al solito, ma ne valeva comunque la pena.
L’assedio era appena
cominciato.
Senza di lei.
E Feri pensava che
stavolta ce l’avrebbe fatta.
Davvero.
And I have never in my life
Felt more alone than I do now
Although I claim dominions
over all I see
It means nothing to me
There are no victories
In
all our histories
Without
love
E mai una volta nella mia vita
Mi sono sentito più solo di adesso
Anche se proclamo di dominare tutto quello che vedo
Non vuol dire nulla per me
Non ci sono vittorie
Nelle nostre storie
Senza amore
(Mad
About You, Sting)
Note
Credo che un mio commento
a questo capitolo sarebbe superfluo, dato che la frase più ricorrente è “Feri
pensò”, non “Martina pensò” ;)
Spero tanto che vi sia
piaciuto!
A presto ;)
Marty