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Autore: Thisastro    24/11/2012    0 recensioni
Storia con la quale penso di partecipare al concorso ‘Campiello Giovani 2013’
Per favore, fatemi sapere cosa ne pensate, mi piacerebbe saperlo anche se so già di non essere brava.
Vi ringrazio in anticipo e per favore, siate buoni ☹ buona lettura ☺
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il tempo ha portato il tuo cuore da me, e ti ho amato per mille anni
 
‘ I’ve die, everyday waiting for you        (sono morta, ogni giorno aspettandoti
Darling don’t be afraid                                              tesoro non aver paura
I’ve loved you                                                      ti ho amato
For thousands years                                                         per mille anni
I’ll love you for thousands more’                          e ti amerò per altri mille)
 
A Thousands years – Christina Perri
 
 
2 settembre
Il cemento s’indurisce, niente e nessuno potrà più infrangere quella barriera ormai.
Sugli occhi, una patina bianca mi annebbia la vista, come se fosse una cataratta doppia ed infrangibile.
Prendo un respiro, poi un altro, un altro ancora, e non saranno mai abbastanza.
Svengo. Mi lascio cadere. La terra sotto di me crolla e non mi lascia scampo, il mondo ruota troppo veloce per restare al passo, il dolore è così forte da non riuscire ad andare avanti.
 
Appena aprii gli occhi, la prima cosa che vidi, furono due iridi nere, e dei capelli ricci. Notai un sorriso, un sorriso largo e smagliante.
- Sei sempre la solita! Hai dormito tutto questo tempo! Guarda che ho da pensare anche alle mie faccende, non solo alle tue.-
Questa figura si allontana verso uno scaffale, e grazie alla sua altezza riesce a prendere una scatola di biscotti piuttosto in alto, lì dove non sarei mai arrivata.
Mi metto a sedere con la testa tra le mani, cosa è successo? Che ci faccio qui?.
Guardo quei capelli ricci muoversi a ritmo di una canzone di Rihanna. I suoi occhi sono socchiusi e mormora alcune parole, con un inglese un po’ maccheronico.
Entra nel vivo dell’esibizione, prende la bottiglia del latte come fosse un microfono e comincia ad urlare a squarciagola.
Guardo l’orario, sono le sette del mattino e, se non la smette, la signora del sesto piano pretenderà la sua testa.
Mi avvicino e gli tappo la bocca, mentre si dimena, ma nonostante tutto ride.
Lo abbraccio forte e ricambia la mia stretta, abbassando il volume della radio.
Poggia la sua testa sulla mia spalla, gli dono il mio cuore come ho sempre fatto. Lo stringo forte e mi lascio cullare dal suono della sua voce… .
Mi da un bacio sulla guancia e si allontana verso la sua stanza.
Era vestito normalmente, come un qualsiasi sedicenne, in vacanza per l’inverno.
Ancora non posso credere di essere a Torino con lui!
Andiamo a vedere la partita della Juve la prossima settimana, e siamo gasati al massimo per l’incontro. Per tutta casa, ci sono sparse sciarpe, striscioni, foto.
Ci siamo appropriati di quella dimora come fosse la nostra, ma in realtà siamo solo di passaggio.
Abbasso la radio ancora un po’, rimetto a posto tutto quello che aveva tirato fuori, ma poi faccio mente locale. Perché sono nel letto? Lui che ci fa qui?
- Ale.- lo chiamo.
- Che vuoi?- la gentilezza è una dote che gli appartiene da sempre, ma che con me scarseggia alla grande!
- Non ricordo nulla… puoi dirmi che è successo?- spunta per metà fuori dalla stanza e mi guarda con un espressione che è un misto tra sorpresa e disperazione.
- Stai fulminata peggio di Vucinic quando ha sbagliato il gol la settimana scorsa.- mi chiedo se riuscirà mai a fare degli esempi normali, senza appellarsi al suo maledetto calcio.
- Siamo arrivati ieri mattina, e stavi soffrendo talmente tanto di jet-leg, che ti sei messa a dormire e non ti sei più svegliata. Ho cominciato seriamente a preoccuparmi.- sorrido all’idea di tanta premura, e continuo a darmi da fare.
Esce dalla sua stanza con la sua maglia gialla di quel comico famoso, i suoi jeans blu ed il suo cappotto lungo e nero. Aveva degli occhiali grandi, ma che non sarebbero mai riusciti a nascondere la lucentezza dei suoi occhi.
M’incantavo sempre quando lo guardavo, il mio era amore, ma un amore ben diverso.
Quante storie abbiamo letto su ragazzi innamorati, che sostengono di amarsi ogni giorno, ma che in realtà non si amano mai abbastanza? Quante canzoni sull’amore, quanti testi, quante poesie, quante frasi.. ma il nostro, era un amore del quale non si era mai narrato.
Quel sentimento vero, quello che ti fa pensare che se quella persona non esistesse, il tuo mondo crollerebbe, TU crolleresti.
Un’amicizia senza confine e senza regole, più forte del tempo e dello spazio.
Più forte delle cattiverie della gente, e delle incomprensioni.
Avevamo litigato tante di quelle volte! Ma adesso eravamo in viaggio insieme, come ci eravamo promessi. Non avrei potuto passare una settimana più bella di così!, in sua compagnia.
Io avevo gli stessi vestiti di ieri, e presa una cosa al volo da mangiare, ci avviammo per le strade di quella meravigliosa città.
La prima tappa, fu andare al Museo della Juventus. Aveva detto che per i monumenti ci sarebbe stato tanto tempo, e che quella era la nostra priorità.
Aveva scattato centinaia di foto con la mia macchina fotografica, minacciandomi col coperchio dell’obbiettivo, di metterle su Facebook una ad una.
Era un patito del social, ogni secondo aggiornava il suo profilo con le foto del nostro viaggio di ventura, scattandomene un paio anche mentre mangiavo.
Ci fermammo in alcuni bar, camminammo per le strade e vedemmo vari monumenti, ai quali non potei fare nemmeno una foto, perché i sedici GB della memoria, erano occupati dalle foto al museo, e dalle sue facce cretine.
 
Erano le otto di sera quando, nel letto, mi misi a scaricare tutte le foto sul computer. Mi saltarono agli occhi sei-sette immagini di lui e le sue facce strane. Non potei fare a meno di ridere, mentre era davanti alla tv, intento a guardare un programma di cucina.
Quel programma piaceva tantissimo anche a me, così lo raggiunsi e mi sedetti di fianco a lui.
Poco dopo, eravamo rinchiusi in una calda coperta, l’uno con la testa sulla spalla dell’altro, a ridere come cretini, per lo show televisivo.
Guardammo la televisione fino a tardi. Lui si addormentò.
Decisi di mettergli la coperta addosso e di dormire sull’altro divano.
Il letto era decisamente più comodo, ma non volevo che lui passasse la notte scomodamente, mentre io, in un posto decisamente più confortabile.
Passarono diverse ore prima che riuscissi a prendere definitivamente sonno, senza varie interruzioni.
Sfruttai tutto quel tempo, pensando a quanto doveva essere difficile la sua vita, a quanto doveva soffrire ogni giorno e ogni notte, a quanto gli costasse essere sempre felice e sempre sorridente con tutti, a come gli volevo bene, e a come lui ne volesse a me.
Eravamo migliori amici da molto tempo ormai, e la nostra unione affondava le sue radici nel lontano 2006.
Ci conoscemmo per caso, d’estate.
Gli incontri estivi, si sa, sono per la maggior parte i più stravaganti.
Le mie amiche mi raccontano spesso dei ragazzi che conoscono durante i vari soggiorni, nei villaggi turistici, in spiaggia.
S’incontrano, parlano, ma poi finisce tutto lì.
A volte si scambiano anche il numero di telefono con questi ragazzi, con la promessa di risentirsi durante il periodo invernale. Promesse che andavano a farsi friggere.
L’estate ci si diverte, non si pensa. Ci si lascia andare e si esplode in una felicità quasi irrazionale, senza pensieri.
Per noi non fu così.
Quando lo vidi per la prima volta, era esattamente come adesso.
Stessi ricci ribelli, stessi occhi penetranti e molto, molto dolci.
Stesso sguardo intenso e meravigliosamente umano.
Stesso sorriso smagliante, disarmante oserei dire, tanto è splendente.
Ci presentarono alcuni nostri amici che avevamo in comune, e da lì cominciammo a parlare.
All’inizio non pensavo che saremmo diventati così intimi, ma poi ci rendemmo conto che la cosa era inevitabile.
Ci uniscono molte cose come lo sport, gl’interessi. Ma penso che la nostra amicizia vada oltre l’accostamento di due colori su una maglia.
Forse siamo così legati perché ci capiamo. Perché siamo diversi, ma simili. Una diversità che ci unisce.
‘Gli opposti si attraggono’
Baggianate.
Se ci attraiamo , è perché non possiamo farne a meno.
Era nata come un’amicizia senza impegno, senza un legame particolare.
Forse però sono stati i nostri scambi di sguardi a combinare il tutto.
Ed il tempo ha fatto solo da filo conduttore tra la nostra intesa ed i nostri occhi scrutatori.
Abbiamo un modo tutto nostro di vedere le cose, non le vediamo sempre per quello che sono.
La realtà ci è scomoda, anche se per motivi diversi. Però ci è scomoda, non fa per noi.
Ci perdiamo a guardare le stelle, a notte fonda, fantasticando su cosa si disegni nel cielo, su cosa quei corpi celesti ci vogliano comunicare.
‘ niente’ si direbbe ‘ è una stella, sta lì! Non si muove, non vuole nulla da te. È sempre stata lì, non romperle le balle e pensa a cose più concrete’ ma la concretezza era nello svelare i segreti di quella luce notturna.
I viaggi mentali, i pensieri profondi ed immensi.. era questa la nostra routine.
I pensieri, il perdersi nelle cose semplici ma astratte.
Siamo sempre state due persone convinte che la casualità non esiste, ma che neanche il destino sia poi così tanto una grande verità.
Diciamo che le cose accadono per una ragione ben precisa, ma nessuno ha già scritto il nostro cammino, il destino va costruito da sé, giorno per giorno, ora dopo ora. Vivendo a pieno le giornate senza preoccuparsi del domani, a meno che non ci si trovi in condizioni estreme.
Eravamo sempre in condizioni estreme, lui per i suoi motivi, io per i miei.
Emotivamente instabile, una stabilità interiore completamente inesistente, una lotta tra sentimenti multipli e contrastanti, una guerra senza fine. Senza tempo. Senza spazio.
Questa sono io, Alyss. Un mare in movimento, una tempesta che si placa all’orizzonte, ma che incombe minacciosa, capace di scatenare un putiferio da un momento all’altro.
Poi lui. Lui che è sempre tranquillo e sereno, con un grande sorriso, dei grandi occhi neri ma che brillano più dei famosi corpi celesti di cui parlavo pocanzi.
Ha sempre la battuta pronta, e riuscirebbe a tirarti su di morale anche se stessi sul cornicione di un palazzo, pronto a fiondarti di sotto perché la tua vita non va bene, e vorresti porle fine.
Ti aiuterebbe anche se dovesse andarne di mezzo la sua persona, non è il tipo da dissuaderti da una stupidaggine ma che ti lascia agire, nel caso non riesca a convincerti.
È il tipo che ti prende per mano e ti dice:
‘ d’accordo imbecille, vuoi proprio farlo? E allora facciamolo…!’
per lo meno, con me era sempre stato così.
Non potevo amarlo più di quanto già non facessi, sarebbe stato impossibile, assolutamente impensabile.
Sorrisi, gli strinsi la mano, e gli diedi un bacio sulla fronte.
E con la mia mano nella sua, presi finalmente sonno, nel migliore dei modi.
 
Mi svegliò una lieve e soave musica di imprecazioni e bestemmie varie. Sbraitava al telefono da almeno venti minuti, e non capivo perché. Si passava nervosamente la mano tra i capelli e poi la sbatteva sul tavolo, coi nervi a fior di pelle. Sbuffava parecchio, e tra un linguaggio scurrile e dialettale, chiuse la chiamata che aveva in corso, e lasciò il telefono sul tavolo.
- Problemi?- dissi andandogli vicino. Annuì nervoso ed agitato.
- Sono stanco di tutti questi controlli! Sto bene, sono vivo e vegeto, non ho bisogno di essere controllato ogni due secondi. Se ho la temperatura alta, se sto prendendo freddo, so badare a me stesso!- aveva bisogno di essere sempre sotto controllo, e la sua mamma, svolgeva quest’incarico più che bene.
Gli passai una mano sul braccio e tentai di farlo sorridere, ma non ci fu verso. Era sempre urtato da queste cose, voleva essere lasciato in pace, ma non capiva che per stare in pace bisognava fargli tutte quelle domande. O forse lo sapeva, ma non gli andava a genio far preoccupare le persone a cui voleva bene.
Era una persona splendida, la migliore del mondo, ma se lo facevi incazzare, erano dolori.
Stette chiuso in camera per tutto il giorno, e non ci fu verso di farlo uscire.
Approfittai per salutare i miei al telefono, e per vedere in webcam qualche amica, ma la sua compagnia, valeva più dell’oro stesso.
Avrei voluto fare qualcosa per lui, ma forse l’arma migliore era il silenzio.
Caricai tutte le foto online, e subito partirono i mi piace ed i commenti. C’era davvero molta gente che ci invidiava per il nostro viaggio, ma non riuscivo a capire tanto entusiasmo nel vedere alcune foto. Sì, siamo a Torino, e allora?
Sì, andiamo a vedere la nostra squadra del cuore, e allora?
Pensavo che la cosa che tutti quanti avrebbero dovuto invidiarmi, fosse l’opportunità di poterci andare con una persona come lui, nonostante i suoi alti e bassi.
Spensi il computer, mi appostai dietro la porta della sua stanza, e gli mandai un messaggio:
esci? Dai stai con me! Vediamo un film, quello che vuoi. Però non stare così… dai amò.
Solevo chiamarlo sempre così, e sentii una risatina dall’altra parte. Gli faceva sempre piacere sentirsi chiamare così, lo faceva sentire speciale. Ma lo era anche senza bisogno di questo appellativo.
La porta si aprì ma non uscì nessuno. Mi sedetti sulla soglia, e lui era proprio di fianco a me.
- Ti sei calmato? Non voglio pazzi in casa mia.- rise di nuovo.
- Tu ridi! Ma quella che deve sopportarsi un lunatico,- gli toccai i capelli - ricciolo del cacchio, sono io!- mi guardò sorridente e feci altrettanto, prendendogli la mano.
- Ci sono io con te, te lo prometto.
Salti tu, Salto io, ricordi?La combatteremo insieme questa guerra. E ne usciremo vincitori, te lo giuro.-
 
Era già il quinto giorno quando uscimmo di casa per l’ennesima escursione.
Stavolta andammo a cavallo. Fu una giornata all’insegna della risata e del divertimento, e quando chiamò sua mamma, risposi io per tranquillizzarla e per non farla preoccupare ulteriormente.
A cavallo, era una frana completa, per poco non rischiò di farsi male sul serio, ma cosa gli dicevo a fare di stare attento? Tanto faceva sempre di testa sua!
(una testa che aveva smesso di funzionare da parecchio tempo ormai!)
 
 
Arrivò il giorno della partita. Tra raccomandazioni varie, e diverse ore al telefono, riuscimmo a scrollarci di dosso i nostri genitori, e a goderci la nostra partita.
Arrivammo allo stadio col cuore in gola.
Guardavo i suoi occhi fissare in alto, fissare le luci dello stadio, che si riflettevano nelle sue iridi, regalandogli un’espressione contenta e raggiante, come non mai.
Sorrideva e scattava foto ovunque, ormai era irrecuperabile.
Sembrava pervaso dalla fede, per tutte le volte che disse:
‘ Madonna, Madonna mia, Madò’
Quando ci ritirarono i biglietti, il responsabile gli chiese se si stesse sentendo bene, tanto stava tremando.
La partita cominciò, ed eravamo assatanati.
Non facevamo che urlare, che sbraitare. Era un continuo esultare ed incazzarsi, ridere e piangere.
Lo stadio era in pieno fermento, ed i bianconeri che ci facevano sognare da sedici anni, ci stavano dando prova che il nostro viaggio non era stato vano.
La gente urlava, cantava, si divertiva.
Lui sfoggiava la sua maglia a strisce con fierezza, e cantava insieme a tutti i tifosi, con la faccia bicolore e gli occhi lucidi.
Avevano alzato le braccia al cielo e le dondolavano cantando. Prese anche la mia e mi incitò a seguire il gruppo, e così feci.
Non ricordo di essere mai stata più felice di così in tutta la mia vita, ma forse tutta quella felicità era dovuta a lui.
Agli ultimi minuti, eravamo tutti seduti, pronti a scattare per il gol finale che sapevamo ci sarebbe stato. Il gol del 3-1.
La palla entrò in porta, e tutti ci alzammo ed esultammo. Tanta era la gioia, che abbracciai anche due persone che non conoscevo, ma l’abbraccio più grande fu per il mio campione.
Poi all’improvviso, una folla inferocita di persone venne verso di noi.
Tutti urlavano e sbraitavano correndo verso destra, alcuni verso sinistra.
I tifosi della squadra avversaria erano entrati nelle nostre tribune pronti alla vendetta.
Nella fretta ci tenevamo la mano e correvamo verso le scale, quando ad un certo punto mi accorsi di stringere un bracciale tra le dita, e non la sua mano.
Il cuore cominciò a battere veloce, senza sosta.
Dov’era? Dov’era!
Mi guardai attorno, e vedevo solo un mucchio di persone che non conoscevo. Lo chiamavo a gran voce e tentai di tornare indietro. Lo vidi mentre cercava di raggiungermi.
Cominciai a piangere e a farmi spazio tra la gente, ma fu tutto inutile, si allontanava sempre di più. Sentivo la sua voce che mi chiamava, e lo vedevo sempre di meno. Chiamai il suo nome ancora qualche altra volta, prima di cadere per terra, e di perdere i sensi.
 
 
Ale… Ale svegliati! Devi andare avanti!, io sono con te. Sarò sempre con te, staremo sempre insieme te lo prometto… ti voglio bene.
 
Mi svegliai di scatto. Una serie di persone in abito bianco mi si avvicinarono e cominciarono a studiarmi. Il soffitto era di un bianco pallido, come le pareti.
Una macchinetta portava il mio battito cardiaco, e dei tubi erano attaccati al mio braccio sinistro.
Prima di abbandonarmi di nuovo a quella sensazione di rilassamento, probabilmente indotta dalle medicine, guardai il calendario.
Era il 20 Novembre.
 
Al mio successivo risveglio mi trovai nella mia stanza. Avevo ancora dei tubi attaccati al braccio, che terminavano in un sacchetto attaccato ad un’asta di ferro abbastanza alta.
Mi alzai a fatica appoggiandomi a questo supporto con quattro rotelle, e camminai fino alla scrivania.
Mille lettere, mille messaggi, mille cuori e faccine che piangevano. Mi affacciai alla finestra e vidi una scritta in blu che occupava tutto l’incrocio:
Ally non mollare!
Sorrisi, deve averlo scritto Ale. A proposito, ma lui dov’era?
Sul mio comodino una moltitudine di foto nostre, sull’armadio un poster bianconero, sul muro un quadro di una nostra foto.
Controllai il telefono e c’erano moltissimi messaggi e troppe chiamate perse, per quantificarle.
Ma nessuna da Ale.
Abitava vicino casa mia, e pensai fosse giusto andarlo a trovare.
Scesi le scale con molta fatica, e quando arrivai giù, non c’era nessuno.
Versai dell’acqua in un bicchiere di vetro e mi fermai davanti alla finestra.
Lasciai lentamente cadere l’acqua sul pavimento, per poi rompere il bicchiere, caduto sul parchè.
Sull’edificio di fronte, c’era un manifesto funebre.
E c’era il suo nome.
Strappai i tubi dal mio braccio e me ne tagliai una parte con l’ago che avevo nelle vene.
Corsi fuori di casa attraversando la strada senza guardare le macchine, solo quel foglio.
Fu tanta la rabbia, che lo strappai dall’edificio e lo tenni tra le mani.
Mi accasciai a terra in lacrime, senza forze.
Continuando a stringere tra le mani quel foglio, incredula.
Tremavo al solo pensiero che quella volta mi ero davvero svegliata, e che non ci sarebbe stato più un noi. Urlai a squarcia gola e decisi di rientrare in casa.
Salii le scale con una forza che non sapevo nemmeno di avere.
Presi il telefono e composi il suo numero.
Rispondeva sempre, SEMPRE.
E poi rispondeva sempre lui, mai qualcun altro. Era troppo geloso del suo telefono.
Ci fu la segreteria; il nervosismo fu tale da scaraventare quell’aggeggio per terra, fino a romperlo in più parti.
Accesi il computer e controllai il suo profilo Facebook.
Mi allontanai con gli occhi sbarrati quando lessi tutti quei messaggi come:
non ti dimenticherò mai
grazie per i nostri ricordi
sarai sempre con noi
 
Buttai all’aria molte altre cose, come la mia vita e la razionalità.
Mi sedetti per terra con le mani tra i capelli.
Piangevo come non mai, con un nervoso tale che non mi era mai appartenuto prima d’ora.
Cosa ne sarebbe stato della mia vita ora?
E soprattutto, avevo davvero sognato di andare a Torino con lui?
Era tutto un sogno? DAVVERO?
 
Ale non l’avrebbe mai approvato, ma decisi di doverlo fare, perché una vita senza di lui, non avrebbe avuto senso.
Mi trascinai fino in cucina, colorando con una striscia di rosso acceso tutto il corridoio.
Il braccio continuava a sanguinare, e dato che non mi reggevo in piedi, il corridoio usufruì di una tinteggiata gratuita.
Andai in cucina e feci quello che andava fatto.
 
Per quello che ne era rimasto, ormai, decisi di porre fine a tutto, che in realtà era niente.
 
Esitai più volte prima di compiere quel gesto.
 
Mi chiesi se fosse la scelta giusta da fare, se davvero non avrei potuto trovare un rimedio alternativo.
Se davvero volevo andarmene senza lasciare un messaggio, se volevo andare via con lui per sempre, invece di pensare che sarebbe potuto vivere attraverso di me e con me, per sempre.
 
Restai ancora per molto tempo a meditare sul da farsi, mentre quell’arma era lì sul pavimento a fissarmi in attesa di essere utilizzata per uno scopo che non le competeva affatto.
 
Pensai a tutto quello che avevamo passato, e a tutto quello che era successo.
Come è potuto accadere, tutto all’improvviso?
 
La sua malattia non gli aveva lasciato scampo.
Era venuta a prendere anche lui, che come migliaia di persone, non poteva fare nulla.
Non ricordavo nulla di nulla, era tutto vuoto nella mia mente, non riuscivo a ripescare nessun ricordo riguardante la sua scomparsa.
La mente aveva deciso di rimuovere tutti quei ricordi, sicuramente per il mio bene, ma a quanto pare aveva fatto un pessimo lavoro.
Mi guardai allo specchio.
Avevo i capelli spettinati, gli occhi fragili, la felpa macchiata di rosso, ed il braccio tagliato.
Ero magrissima, il vuoto mi aveva svuotato all’interno e all’esterno, a quanto pare.
Mi buttai a terra e continuai a tormentarmi, fino a mandarmi all’esaurimento, e porca miseria se ci ero vicina!
 
Molte persone se ne sarebbero fatte una ragione ed avrebbero continuato a vivere, ma ho sempre saputo di non essere come gli altri, e neanche lui lo era.
 
Presi un foglio, e decisi di dover lasciare per lo meno un messaggio, qualcosa di indelebile, che nonostante il tempo, sarebbe rimasto per sempre come ricordo, per testimoniare la mia appartenenza a questo mondo, e per spiegare le ragioni del mio raptus di follia.
 
Adesso avevo tre oggetti fissi a guardarmi.
Un coltello, una penna, ed un foglio.
E pensai che la penna era quella che mi faceva più paura.
Quella che avrebbe lasciato qualcosa di concreto della mia vita,
qualcosa che sarebbe sopravvissuto negli anni.
Cercavo qualcosa di intelligente da dire, qualcosa che non mi avrebbe fatto passare per pazza, per malata di mente o quant’altro.
 
Chiusi gli occhi nel tentativo di calmarmi, ed udii la sua risata.
Vivi i suoi occhi, assaporai il suo sorriso, i suoi abbracci, il suo modo di ridere, di essere, di stare e di far stare bene.
Mi incolpai per tutte quelle cose che, forse, non avevo neanche detto o fatto. Ma preferivo la mia prima opzione, al vivere per sempre come un vegetale incapace di intendere e di volere.
Erano le sette di sera, chissà quando i miei sarebbero tornati.
Guardai di nuovo il calendario, e mi resi conto che era il 30 Novembre.
Ero caduta in coma. E date alcune carte che giacevano sul tavolo, mi avevano già dato per trapassata. In quel momento, ricordai cosa mi aveva svegliata.
Avevo sentito la sua voce che mi pregava di andare avanti, che mi diceva di volermi bene, che saremmo sempre stati insieme e che dovevo lottare.
Pensai anche al viaggio a Torino. Tutto un sogno. L’avevo davvero sognato. Avevo immaginato tutto. Eppure sembrava così reale, quello che faceva che mi diceva, il suo modo di comportarsi, di parlare, di trattarmi.
Ma se allora quello l’avevo immaginato, figuriamoci la voce!
Era tutto frutto della mia immaginazione, che mi aveva resa pazza.
Guardai ancora dalla finestra, il sole era già calato ormai, e la città si andava colorando con le luci dei lampioni, di Natale, l’aria di festa.
Solo in quel momento, notai l’albero di Natale all’angolo del salone, nell’angolo più buio e più nascosto. Senza luci, giusto con qualche pallina. Il resto delle decorazioni, erano in una scatola sul divano, e sono sicura che mamma le avesse messe lì per riprendere la decorazione una volta che mi sarei svegliata, ma non avevo tempo per quello.
Di solito salivo sulla scala per porre la stella sulla punta dell’abete, ma stavolta sarei andata molto più in alto.
 
Quando i miei tornarono a casa, buttarono all’aria tutte le buste con le quali erano entrati, e vennero verso di me, che giacevo con la testa sul pavimento, e con i capelli che mi coprivano il capo.
Una chiazza rossa aveva tinto il tappeto e quel semplice ma pungente utensile da cucina.
Pensarono di portarmi subito in ospedale, ma non ci volle molto per accorgersi che non c’era più niente da fare.
 
Sul mio braccio destro, era inciso ‘Ale’ con i tagli, e non pensavo di essere così precisa, tanto da prendermi il petto in pieno.
Chiusi gli occhi molto piano, e me ne andai dolcemente, senza nessuna sofferenza.
 
Prima di chiudere gli occhi, vidi le luci dell’albero accendersi, erano bianconere.
Guardai il mio polso, e c’era il suo bracciale, quello che aveva perso alla partita, ma stavolta c’era una scritta su di esso.
 
C’era scritto ‘ti aspetto
 
-FINE.
 
La settimana dopo, a Torino, giocò la magica Juve. La partirà terminò 3-1, con un’invasione di campo da parte dei tifosi avversari.
   
 
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