Trecentoottantacinque
Зимние заметки о летних впечатлениях
Zimniye zametki o
letnikh vpečatleniyakh
Note invernali su
impressioni estive
E guardo fisso quella porta
Perché se entrassi un’altra volta
Vorrebbe dire che anch’io son morto
già
(Per dirti ciao, Tiziano Ferro)
Sparta, 27 Febbraio 1844
-Это был
первый раз
когда я
чувствовал
себя матерью...
Настоящая
мать-
Eto byl pervyy raz kogda ya čuvstvoval sebya
mater’yu... Nastoyaščaya mat’.
Era la prima volta che
mi sentivo una madre... Una vera madre.
Quella frase Theo non la
capì, era in un russo troppo veloce, e lui non era ancora a quei livelli, ma
Gee sì.
E gli mancò un battito,
nel sentire quelle parole.
Gli mancò un battito, nel sentire
la sua piccola Lys parlare così.
Le posò una mano su una
spalla, e lei si voltò, rifugiandosi tra le sue braccia.
-Tu sei sempre stata una vera madre... E lo sei
ancora. Abbiamo ancora tre figli, amore mio-
Sparta, 8 Aprile 1844
Sessantesimo compleanno di Anželika
Andreevna Valadìna Zirovskaja
Ma dove va a finire il cielo?
Magari dove dormi tu
(Io Amo, Fausto Leali)
Natal'ja si raccolse i
lucidi e setosi capelli biondo grano in una treccia che le ondeggiava
dolcemente lungo e oltre il fianco destro con un nastro turchese, indossò un vestito
turchese anch’esso con una fascia di raso bianco stretta in vita, e le ballerine
bianche.
Lanciò un'occhiata allo
specchio e accennò un mezzo sorriso, poi spostò lo sguardo su Gee ancora
addormentato e allora s'illuminò come un raggio di sole, il suo sorriso.
Erano successe quasi le
stesse cose, poco meno di un anno prima.
Lei era incinta di Lisandro, allora.
Era così felice, sognante, innamorata...
Ma lo era ancora.
Lo era ancora.
Innamorata sempre, più che
mai.
Felice e sognante...
Beh.
Più o meno.
Quasi.
Si poteva sempre
migliorare.
Si doveva migliorare.
Si avvicinò in punta di piedi
a suo marito e gli sfiorò la fronte con un bacio.
-Esci?-
sussurrò lui, aprendo un occhio.
-Tak- confermò
Lys, in polacco.
-Eh?!- borbottò Gee,
aprendo anche l'altro occhio.
-Да- si corresse la biondina, e lui annuì, vagamente rassicurato.
-Ah, tak... Да.
Certo. E dove vai?-
-Da Lis, credo... Con
Line, Aiace e Nikolen'ka. Se vogliono.
Se sono già svegli.
Se non gli fa troppo male...-
Gee le rivolse un sorriso
dolcissimo, a quelle parole.
-Salutamelo. Salutamelo
tanto. Digli che più tardi vado a trovarlo anch'io. Digli che...-
Gee s'interruppe,
distogliendo lo sguardo.
-Andrà benissimo tutto quello che gli dirai tu- aggiunse poi, con un fil di voce.
-Ti amo.
Ti amo, Alja. Scusa-
-Нет...-
Lei gli accarezzò dolcemente
una guancia, e si chinò ad abbracciarlo.
Gee affondò le dita nei
suoi capelli d’oro e la baciò disperatamente, con una fitta al cuore.
Poi, però, disse una cosa
che Lys aspettava da tanto tempo.
Una cosa meravigliosa.
-Oggi la palestra riapre. Dillo a Theo-
Natal’ja sussultò, a
quelle parole.
Lei aveva sempre amato e
odiato l’Αθάνατος nella stessa misura.
L’Αθάνατος
che le rubava suo marito, ma poi glielo restituiva sempre.
L’Αθάνατος
in cui Gee le aveva detto le cose più belle, paradossalmente ispirato dagli
infiniti allenamenti militari.
L’Αθάνατος
in cui splendevano i sogni di Gee,
l’Αθάνατος che faceva splendere gli
occhi di Gee.
Aveva un rapporto
complicato con la palestra di Sparta, Lys, ma quel giorno era felice.
Perché se Gee tornava in
palestra, aveva ancora la forza di sorridere.
Quella stessa forza che aveva bruciato asciugando
le sue lacrime.
Se Gee riprendeva gli
allenamenti militari, se metteva fine all’armistizio con la sua città...
Se si strappava quella spina dal cuore, cominciava
a guarire anche lui.
Aveva sempre pensato prima
a lei e ai ragazzi, e quei due mesi li aveva passati a letto a leggere e a
fumare o in riva all’Eurota a piangere.
Lys non l’aveva mai
lasciato da solo, ma non aveva il suo stesso senso di responsabilità, il suo
stesso spirito di sacrificio.
Era ancora una bambina, Lys, nonostante le precoci
cicatrici.
Gee, invece, era come
Feri.
Almeno in questo, era come lui.
L’aveva imparato
all’Αθάνατος, in Egitto, in battaglia,
in prigione.
A un passo dal patibolo, a
un passo dalla morte.
L’aveva imparato per la vita.
Era da questo, aveva detto
una volta Theo, a metà tra l’ironia e l’arroganza, che si capiva chi dei due
era lo Spartano.
Il sangue di Sparta
cambiava la pelle.
La pelle del corpo e la pelle del cuore.
Il sangue di Sparta
colmava le voragini dell’anima, e bruciava forte, ma guariva le ferite.
Theo forse era un
esaltato, un fanatico, ma lo diceva con il cuore.
Con il suo sanguinante cuore di Spartano.
-Davvero?
Davvero torni all'Αθάνατος? Davvero, amore mio?-
George le sorrise,
annuendo.
-Davvero.
Credo che il tempo di morire sia finito. In fondo... Noi dobbiamo per forza restare qui. Non possiamo andare con lui. Non possiamo. Tanto... Tanto vale
tornare come prima.
Almeno un po'. Perché io non ce la faccio a perdere. A perdere lui, a perdere te.
E quando mai ne sono stato capace?-
Lei gli gettò le braccia
al collo, a quelle parole.
-Oh, Georgij... È così bello
quello che hai detto... Sei così bello,
tu...- sussurrò sulla sua pelle, mentre lui la teneva tra le braccia e la
stringeva forte.
Gee si morse le labbra,
temendo di crollare ancora.
Perché lei era tutto l'amore che aveva e i suoi
dolci occhi scintillanti erano gli stessi del loro Lisandro, del loro adorato
bambino perduto.
Quell'argento gli aveva irrimediabilmente graffiato
il cuore.
Ma lui sarebbe guarito.
Sempre per lo stesso
amore.
Perché era diverso, cadere
per Sparta, dal cadere per amore.
Per quelle ferite non bastava
la forza fisica e il coraggio di una vita.
Lys, però, sì.
Lei bastava.
E lei c'era.
E lei lo amava...
Tanto.
Tantissimo.
Lei l'avrebbe accompagnato
all'Αθάνατος, quel pomeriggio.
Lei gli avrebbe lasciato
la mano solo quando fosse stata sicura che lui ce l'avrebbe fatta, ad andare
avanti da solo.
Forse già sulla porta.
Forse solo dopo il
millesimo bacio.
Forse solo quando lui si
fosse divincolato a forza, tanto bruscamente da farla rimanere male.
Forse, invece, l’avrebbe
pregata di andare con lui.
Di sedersi sui gradini ed
aspettarlo.
Avrebbe cercato il suo
sguardo, qualche volta, e le avrebbe sorriso.
Ce l’avrebbe fatta, sì.
Anche se bastava guardare
il suo comodino, per avere paura del contrario.
Innumerevoli mozziconi di sigarette, i fiammiferi
spenti usati per accenderle e il volume delle Vite Parallele di Plutarco
dedicato a Licurgo e Numa aperto e abbandonato in malo modo in quella
straziante confusione poco più avanti della metà.
-Sistemeremo anche il
comodino, μου
ζοή- promise Gee, solennemente.
Poi scostò il lenzuolo, e
con una nuova luce negli occhi balzò giù dal letto.
Afferrò i vestiti dalla
solita sedia, schioccò un bacio su una guancia a Natal’ja e poi cominciò a
prepararsi.
Lys gli sorrise, incantata,
dunque aprì la finestra e guardò fuori con aria sognante, c’era un sole
magnifico, un sole che rifletteva ma non eguagliava la bellezza di George in
quel momento.
Quel sole avrebbe
asciugato le sue lacrime, in ogni caso.
Stavolta ci credeva.
-Sta bene? Adesso sta bene?
Se
torna in palestra sta bene?-
Natal’ja sorrise, e
scompigliò affettuosamente i biondissimi capelli di Céline.
Era quasi più entusiasta
di lei, la piccola Siberiana, e non vedeva l’ora di rivedere suo padre quasi come prima.
Non avrebbe mai
dimenticato quando, un giorno in cui Alja era al Cimitero con Niko e Aiace, lei
era entrata in camera dei suoi genitori e l’aveva visto fumare l’ennesima
sigaretta con lo sguardo perso nel vuoto, la camicia abbottonata male e le
lacrime agli occhi.
Aveva provato a chiamarlo,
ma lui non le aveva risposto.
Non l’aveva neanche guardata, in realtà.
Allora era salita sul
letto e gli aveva posato una mano su una spalla.
-Papà- l’aveva
chiamato, con un nodo in gola.
E George aveva puntato su
di lei due occhi che sembravano ferite in cancrena, di un nero lacerato,
svuotati di luce, quasi fossero stati accecati con spilli come nel supplizio
che s’era autoinflitto Edipo.
Si era spaventata, Line, e,
scossa da un brivido a quella vista, aveva sussultato.
Aveva ritirato di scatto
la mano, ma suo padre l’aveva afferrata di nuovo e poi l’aveva abbracciata
forte, fin quasi a toglierle il respiro.
Céline aveva abbandonato
la testolina bionda sulla sua spalla e per la prima volta l’aveva sentito
piangere.
-Nessuno di noi sta
veramente bene. Neanch’io, neanche tu. Sono passati solo due mesi, non possiamo ancora stare bene. Però... Anche
durante la guerra c’è qualcuno che sorride, no?- continuò Natal’ja, interrompendo così il ricordo
della figlia.
Céline annuì, con gli
occhi che le brillavano.
-Papà quando vince... Lui sorride sempre-
-E vince sempre- aggiunse Lys, ridendo e facendola ridere.
-Ma adesso non ci va più,
in guerra. E io preferivo quando ci andava... Anche se non mi piaceva tanto quando mi prendeva in braccio con le mani
ancora sporche di sangue.
E poi... I suoi sorrisi di adesso non li capisco. Sono così brevi, troppo brevi, e si vede che non li
sente davvero nel cuore. E ogni volta che si accorge di non essere ancora
riuscito a sorridere diventa così triste, ancora più triste... Anche se io non
glielo dico mai-
-Sorriderà ancora, Line. Io ti prometto che lui sorriderà ancora-
Il lutto di un figlio non
passa mai, e il sangue di Sparta non basta a placare la disperazione di un
padre.
Ma Gee non poteva
permettersi di essere un padre qualsiasi, e nemmeno uno Spartano qualsiasi.
Anche se in quei giorni sembrava perfino più
fragile.
Più fragile di un padre e
più fragile di uno Spartano.
-Άλκηστις! Είσαι ξύπνιος;- Álkestis! Eísai xýpnios; Alcesti! Sei sveglia?, esclamò in quel momento proprio quello stesso
Geórgos di cui si stava parlando, affacciandosi sulla soglia della camera di
Line, Niko e Aiace.
Sia Line che Alja si
voltarono a guardarlo, e gli occhi grigiazzurri di entrambe s’illuminarono come
cristalli di mare.
Il ragazzo si passò una
mano tra i folti capelli nerissimi, confuso.
-Beh... Cosa c’è?-
Era messo a disagio anche
dalla straordinaria somiglianza delle due, oltre al fatto che entrambe lo
guardavano come se fosse stato il Sole.
Natal’ja si morse le
labbra, quasi tremante d’emozione.
-Te l’ha mai detto nessuno che assomigli a un
barbagianni?-
Gee fece un passo
indietro, turbato.
-Io... Fisicamente?-
Alja alzò gli occhi al
soffitto.
-Con quei capelli, intendo-
-Oh...-
Lo Spartano vi passò la
mano un’altra volta, e con questa li rese ancora più incredibilmente
spettinati.
-Ma sono sempre così!- protestò poi, sbuffando.
Ma cosa gli era saltato in mente di cercare quelle
due streghe?
-Per fortuna- rispose Lys, e allora Gee abbozzò un sorriso.
Avevano pur sempre
diciannove e ventitré anni.
Erano pur sempre due bambini.
-Beh, volevo dirvi... Voi venite
con me, vero?-
Nikolaj e Aiace erano già
in palestra con Theo, ch’era passato a prenderli circa mezz’ora prima, come
faceva ormai quasi tutte le mattine.
-Direi...-
sussurrò Lys, e poi gli fece cenno di sedersi accanto a loro sul letto di Line.
-Sai che stai benissimo?-
gli disse poi all’orecchio, dopo avergli dato un bacio sulla guancia, facendolo
sorridere.
Gee abbassò lo sguardo sul
suo abbigliamento, trovando perfino più disastrato del solito: l’ennesima
camicia strappata, gli ennesimi pantaloni puliti ma logori, i soliti stivali di
pelle nera alti fino al ginocchio, ormai anch’essi più che consunti e con le suole
sfondate, considerata l’età e le circostanze non proprio tranquille in cui li aveva indossati.
Senz’altro sembrava un
vero Spartano, uno di quelli dei tempi di Licurgo, che seguivano la
Costituzione di quest’ultimo come il Vangelo che allora non era ancora stato
scritto, e pertanto portavano lo stesso abito per tutto l’anno, lavandolo e
rammendandolo se necessario ma senza nemmeno sognarsi di cambiarlo, neanche se
nell’ultima battaglia l’avevano ridotto a brandelli.
Gee, a dir la verità, non
lo faceva solo per Licurgo, ma anche
per le dracme, le dracme che sarebbero
servite a comprarsi dei vestiti nuovi e che lui non aveva mai.
Il problema era che se le
aveva -e se le aveva non erano certo le
sue-, andava a dilapidarle in libri, proiettili e sigarette.
Non capì che cosa ci
trovasse Alja di tanto straordinario, quindi si limitò a sorridere e a
scrollare le spalle.
Le passò un braccio dietro
la schiena, scostando lievemente il lunghissimo mantello di capelli dorati che
come sempre si ritrovava ovunque -ed era
niente il grido di guerra di uno Spartiate, quando disgraziatamente glieli
calpestava-, e Line, influenzata dall’atmosfera stranamente dolce che si
era creata, posò la testa sulle ginocchia del padre.
Quella sì che sarebbe stata una bella giornata.
La notizia era a dir poco
volata.
L’avrebbero accolto come
se fosse stato Leonida I degli Agiadi in persona tornato dalle Termopili,
all’Αθάνατος.
E lui avrebbe sorriso come
ai vecchi tempi.
Avrebbe sorriso.
-È proprio
lui? Il nostro Geórgos? È tornato? Ce l'ha fatta?-
La gente sussurrava, ma
non osava fermarlo.
Non ancora.
Sorridevano tutti, ma
c'era anche una certa tensione nell'aria.
Sembrava proprio il solito
Gee, ma lo sapevano, che aveva una voragine dentro, che ce l'aveva ancora.
Ed era quello che aveva
passato per tornare ad essere il solito Gee, che li metteva a disagio.
Lui si era sempre meritato
tutto, ogni sorriso e ogni insulto, ma soprattutto ogni vittoria.
Si era meritato anche di
superare la morte, l'assassinio di
suo figlio.
O almeno di cominciare a superarlo.
-Guarda, Aristagora!
Guarda la Siberiana! È sempre più bella... È
una meraviglia...
Gee ha sempre avuto il
meglio del meglio, eh? Beato lui!-
A parlare era stato
Lisarco Liolidis, un giovane oplita che fino a quel momento non aveva mai dato
problemi, un tipo a posto, sembrava, di un paio d’anni più grande di Gee.
Era un bel ragazzo, alto,
prestante, dai folti capelli neri e luminosi occhi verdi.
Come Gee e Theo osservava
scrupolosamente la Costituzione di Licurgo, e non era ancora sorto giorno che
non si fosse presentato all’Αθάνατος,
puntualissimo appena scoccata l’alba.
A Gee e Theo era sempre
stato simpatico, e la cosa era reciproca.
Moltissime volte avevano
fumato insieme sui gradini della palestra, finiti gli allenamenti militari, e
diviso una bottiglia di ouzo scambiandosi pareri sull’esito dell’ultima
battaglia e sulla strategia della prossima.
A volte pensava troppo
poco prima di parlare, a volte non si accorgeva di essere indiscreto o
inopportuno.
A volte, semplicemente, non calcolava le
conseguenze delle sue parole.
Aristagora Nalitzis, suo
amico più saggio e prudente, annuì quasi impercettibilmente e un attimo dopo
deglutì, notando il lampo, la fiamma
ch’era divampata negli occhi di Gee, ora di un nero gelido come autentica
ossidiana, pietra immobile, eppur nella sua inerzia straordinariamente
luccicante.
Andava ben oltre la semplice gelosia, quello
sguardo.
E Aristagora l’aveva
capito.
-Ti prego, Lis, stai zitto... Zitto...-
Ma Lisarco continuò,
ignaro di quello sguardo, di quel gelo.
-Fa ben scordare la perdita di un figlio, una
moglie così!-
Aristagora sgranò gli
occhi e fece un passo indietro.
-Lisarco, Lisarco... Perché l’hai detto, perché
diavolo l’hai detto? Perché non mi ascolti mai?
Perché sei sempre così maledettamente cretino?-
Gee lasciò la mano di Lys,
in quel momento.
Si avventò su Lisarco e lo
afferrò brutalmente per la camicia.
-Cos’hai detto?! Cosa diavolo hai detto?!-
-Che è bella... Tua
moglie... Ma non è la prima volta che lo dico, Gee...-
-Ma non lo capisci, maledetto, che non posso
perderla?
Non posso perdere anche lei, non posso perdere la mia Lys,
NON POSSO!
Lo volete capire che non sono così forte?!-
-Io non voglio... Lo
giuro... Non voglio portartela via!-
Lisarco ci provò, a
sostenere il suo sguardo.
A tranquillizzarlo, anche
se gli tremava la voce.
Era uno Spartano, ed era
amico di Gee.
Non credeva che sarebbe finita così.
-Smettila, Gee, e lasciami
andare... Lo sai bene che non ho fatto
niente...
Quanto a tua moglie, la
tua Siberiana... Non potrei portartela
via neanche se volessi!-
-Tutti! Tutti volete portarmela via!-
Erano febbrili, gli occhi
di Gee.
Non era più disposto a ragionare.
Non era più disposto a guarire.
Afferrò lo xiphos e solo
Zeus sa quale furia lo animava in quel momento...
Quando glielo affondò nel petto e poi nella gola.
Ripetendo parole
sconnesse, con le lacrime che gli scorrevano sulle guance.
Forse Lisarco sarebbe sopravvissuto, ma lui no.
Tell me now, tell me true
Of
all the things I did to you
Was
this the one that made you break?
Did
I make my last mistake?
Dimmi adesso, dimmi la verità
Di tutte le cose che ti ho fatto
Questa è quella che ti ha distrutto?
Ho
fatto il mio ultimo errore?
(My
Last Mistake, Dan Auerbach)
Alja strinse forte la mano
di Line, con gli occhi argentei sbarrati e il cuore pulsante come se l'avesse
ricevuta lei, la pugnalata.
Le pugnalate.
Fu allora che Celine disse
una frase che Natal'ja non si sarebbe più dimenticata per il resto della sua
vita.
Una frase che la sconvolse
nel profondo e lasciò senza parole, senza sapere più cosa fare, come
rispondere, come difendersi, come non morire sul suono glaciale e al contempo
innocente di quelle parole.
Perché aveva cinque anni,
Celine, ma di cose ne aveva già viste tante.
Anche troppe.
-Papà non è un assassino. Papà non è come Feri-
Krasnojarsk, 9 Ottobre 1848
Il male del ritorno, Astolfo
È questo non trovarsi più
Percorrere gli spalti fino all'alba
Senza sonno, su e giù
Non sentire una voce
Se non l'eco nella sala d'armi
E chiedersi i ritratti sul muro
Cos’avranno da guardarmi
Il male è quella finestra
Dove dietro c'è la donna ch’eri tu
Il giorno che mi vestivi e dicevi:
“La guerra non è un fatto tuo”
(Millenovantanove, Roberto Vecchioni)
Aiace scese dalla nave
come una furia, incendiato dai violenti battiti del cuore che gli dava delle
fitte tremende ad ogni passo.
Era fuori di sé, come suo
padre l’8 Aprile 1844, quando aveva pugnalato Lisarco Leolidis quasi senza
motivo.
Lui, però, un motivo ce
l’aveva.
Feri Desztor aveva ucciso sua madre.
Le lacrime gli pungevano
gli occhi nerissimi, bruciando come gocce di lava e impedendogli quasi di
vedere la strada innevata davanti a sé, perché anche lui cominciava ad avere un
accenno di miopia, ovviamente ereditata da Gee.
Il mese dopo, il 21 Novembre,
avrebbe compiuto dodici anni, ma già adesso ne dimostrava sedici, per la
fierezza del portamento, tipicamente da oplita spartano, da futuro eroe, e lo sguardo altero nonostante il pianto.
Si giravano a guardarlo
per la strada, per i suoi capelli e i suoi occhi nero carbone e la sua pelle
scura.
Luminoso in quella sua
bellezza selvaggia, spiazzava i pallidi e biondi Russi Siberiani.
I loro occhi chiari
riflettevano in ugual misura stupore e ammirazione, come solo pochi anni prima
alla vista di Gee, perché a quel via vai di Greci incalliti non si erano ancora
abituati.
Aiace non ci fece caso,
quel giorno.
Aveva un Ungherese da
massacrare di botte e d’insulti, non
aveva tempo per quegli sguardi.
-È il figlio di Gibson. Il primo- sussurrò qualcuno tra i più informati a un amico, e
Aiace conosceva abbastanza russo da capirlo.
-Sai, il marito greco della Zirovskaja. Chissà perché se
la prende tanto.
A quanto ne so io, lei non era nemmeno sua madre-
Aiace si fermò, a quelle
parole.
Conosceva fin troppo bene il russo, a dir la verità.
Si avvicinò ai due con i
denti digrignati, i pugni stretti e gli occhi fiammeggianti.
-Io sono figlio di Natal’ja più di quanto voi lo
siate delle vostre madri di sangue- sibilò,
come se stesse sputando sangue, con uno sforzo che quasi gli lacerò l’anima,
perché non ne poteva più di essere forte per Sparta, per la Costituzione di
Licurgo che Theo gli ripeteva tutti i giorni, Alja e Gee erano i suoi genitori e li aveva persi
entrambi, Sparta avrebbe dovuto
aspettare.
Se ne andò stizzito,
sconvolto e distrutto, stringendosi più forte che poteva nel cappotto.
Non era mai abbastanza preparato al freddo della
Siberia.
Non era come Natal’ja, Céline e Nikolaj.
Il velo lucidissimo di
lacrime che gli offuscava gli occhi s’infranse, a quel pensiero.
Rinunciò a trattenerle, rinunciò
ad ascoltare gli echi dell’Αθάνατος
nella sua testa, rinunciò e basta.
Ad essere figlio di Lys
però no, non rinunciava.
Anche se lui non sapeva ignorare il freddo.
Forradalom non era mai
stata più silenziosa.
Solo la neve e il ricordo di Natal’ja, ancora
troppo intenso, avevano osato rimanere nell’aria
Appariva di una
desolazione lacerante, il quartiere della Rivoluzione, dopo l’incendio del 5
Maggio e senza i ragazzi.
Ma Aiace non aveva bisogno
di loro, e neanche dei suoi fratelli.
Soltanto di lui.
Voleva sentire cos’aveva
da dire, quell’assassino.
Voleva sapere con quale
cuore aveva lasciato sua madre agli
Zaristi.
E voleva, come minimo, spaccargli la faccia.
Si ripassò nella mente e
tra le labbra le parole russe che gli servivano, e dopo essersi premuto una
mano sul cuore, nel vano, quasi infantile tentativo di sentire un po’ meno
male, con uno sguardo di nuovo gelido e battagliero, lo sguardo di suo padre.
E tirò un calcio alla
porta di Casa Desztor, con quello sguardo fiero che gli aveva insegnato Gee a
Sparta, quello sguardo che non avrebbe mai
più dovuto perdere.
La prese a calci e a pugni
finché non si aprì.
Lo accolsero i dolci occhi
azzurri di Hajnalka, preoccupata da tutti quei colpi.
-Aiace...-
-Dov’è tuo fratello?-
Non la guardò nemmeno,
Aiace, eppure non ce l'aveva con lei.
Neanche con lei.
Soltanto con suo fratello.
-È in camera sua...- sussurrò
Hajnal, sempre più confusa.
Aveva capito che cercava Feri.
Quando qualcuno, chiunque
fosse, eccetto Helga, le chiedeva di “suo fratello” con quel tono, era a Feri
che si riferiva.
Perché era Feri, il fratello che faceva piangere,
che faceva disperare.
Era sempre stato lui.
Eppure, nonostante questo, Feri era sempre stato
anche il suo fratello preferito.
Feri non aveva ucciso Lys.
Feri era semplicemente sopravvissuto a Lys.
Aiace non voleva sentire
ragioni, e Hajnalka non fece neanche in tempo a dirgliele, le sue ragioni.
Spalancò la porta della
camera di Feri, e lo trovò sdraiato sul letto a fumare.
Aperto sulle sue
ginocchia, un libro uscito proprio quell’anno.
Белые
ночи.
Сентиментальный
роман, Belye noči. Sentimental'ny roman, Le notti
bianche. Romanzo sentimentale. Dalle memorie di un sognatore di Fëdor Michailovič Dostoevskij, moscovita di
ventisei anni, quasi ventisette, nato nel 1821 come Gee.
Aveva due anni in meno di
Feri e pareva già un genio, l’erede di Puškin e di Gogol’.
“In qualche modo mi ricorda involontariamente
quella ragazza tisica e deperita che voi guardate a volte con compassione, a
volte con un certo affetto pietoso, a volte semplicemente non la notate
neppure, ma che improvvisamente, per un attimo solo, in modo disperato, diventa
inspiegabilmente di una meravigliosa bellezza, e voi, colpito e inebriato, vi
chiedete inconsapevolmente: qual è la forza che dà un tale splendore, un tale
fuoco a quei tristi occhi pensosi? Che cosa ha fatto affluire il sangue a
quelle pallide gote incavate?
Che passione si è riversata sui teneri lineamenti
del volto? Per quale ragione il petto ansima così?
Che cosa ha provocato improvvisamente la forza, la
vita e la bellezza sul volto di quella povera ragazza, lo ha fatto brillare di
un simile sorriso e ravvivare da una gaia e scintillante risata?
Vi guardate intorno, cercate qualcuno, pensate di
intuire...
Ma l’attimo fugge, e il giorno dopo incontrate di
nuovo lo stesso sguardo pensoso e distratto, lo stesso viso pallido di prima,
la stessa sottomissione e mitezza nei movimenti e persino un certo pentimento,
persino tracce di una tristezza mortale e di stizza per quell’effimero
piacere...
E vi fa pena che quella bellezza apparsa per un
attimo sia svanita così in fretta e così irrevocabilmente e che, ingannevole e
vana, abbia brillato davanti ai vostri occhi lasciandovi il rammarico di non
aver fatto in tempo ad innamorarvi di lei...”.
Questa, per Feri, era la Rivoluzione.
La Rivoluzione dopo la
notte del 5 Maggio 1848, filtrata attraverso le parole di Dostoevskij, che pure
non c’era, ma la Rivoluzione l’avrebbe sentita ardere anche sotto la sua pelle,
soltanto l’anno dopo, quando, il 23 Aprile 1849, sarebbe stato arrestato dalla
Polizia Zarista.
E il 17 Gennaio 1849, dopo
una breve permanenza nella Fortezza di Pëtr e Pavel di San Pietroburgo, una
mancata esecuzione capitale e lo smistamento a Tobol’sk, nella Siberia
Occidentale, del 24 Dicembre 1849, sarebbe stato definitivamente deportato ad
Omsk, nella stessa Mërtvogo Doma di Feri e Lys, nella quale avrebbe trascorso
quattro anni, quattro anni che l’avrebbero portato a scrivere, nel 1861, Записки
из Мёртвого
Дома, Zapuski iz Mërtvogo Doma, Memorie dalla Casa dei
Morti, il resoconto dei suoi lavori forzati.
Anni dopo ad Omsk avrebbe
avuto anche un monumento, Fëdor Dostoevskij.
Ma Feri e Lys non erano vissuti abbastanza da
assistere alla rivincita di un altro sopravvissuto di Omsk.
Non erano vissuti
abbastanza per piangere sulle pagine di Преступление
и Наказание, Prestuplènie
i Nakazànie, Delitto e Castigo, che
forse non faceva piangere, ma loro ci avrebbero letto tra le righe un po’ della
loro Rivoluzione fallita, e avrebbero senz’altro riconosciuto nel carcere
siberiano descritto nell’Epilogo ancora la loro
Fortezza, la Fortezza di Omsk.
No, a Feri e Lys non era
bastato il tempo per conoscere il futuro della Letteratura Russa Ottocentesca,
ma il Capitano aveva promesso a se stesso di finire Le notti bianche prima del giorno dell’esecuzione, di finirlo anche
per Lys.
Perché Feri il destino aveva sbagliato a leggerlo
tante volte, ma quel giorno, lo sapeva, sarebbe arrivato prima della fine del
’48.
“Esistono a Pietroburgo, Nasten’ka, alcuni strani
cantucci, anche se voi non li conoscete.
In quei luoghi sembra che non giunga quel sole che
rifulge per tutti gli abitanti di Pietroburgo, ma un altro sole, come ordinato
appositamente per quei cantucci, e risplende di una luce diversa, particolare.
In quei cantucci, cara Nasten’ka, sembra svolgersi
una vita diversa, non somigliante affatto a quella che ribolle intorno a noi,
una vita come potrebbe svolgersi nel trentesimo regno di fiaba e non da noi,
nella nostra epoca così seria e così dura.
Ecco, questa vita è un miscuglio di elementi
puramente fantastici, ardentemente ideali e, ahimé, Nasten’ka, di elementi
banalmente prosaici e abitudinari, per non dire inverosimilmente volgari”.
E questa, per Feri, era Forradalom.
Quel Fëdor Dostoevskij
forse non aveva neanche mai visto Krasnojarsk, era nato a Mosca, del resto, e
da quando aveva sedici anni frequentava il Genio Militare di San Pietroburgo,
eppure aveva indovinato già tanto delle loro vite, dei loro sogni miseramente
infranti, i sogni per cui si erano
giocati la vita.
Anche se lui l’aveva
ucciso.
Anche se lui, Feri Desztor, il 7 Settembre 1848 aveva
ucciso Nikolaj Romanov I, lo zar.
Incredibile come
l’incontro del protagonista e Nasten’ka assomigliasse al suo con Lys.
Incredibile come la fine di tutto non fosse
riuscita a fargli più male degli anni prima.
Incredibile come la morte
di Natal’ja l’avesse distrutto silenziosamente.
Come se l’avesse guarito.
L’aveva persa, ma aveva vinto.
Era riuscito a sopravviverle.
Del resto era il minimo.
Era il minimo che Lys morisse per lui.
Preso com’era nel rimuginare
questi pensieri, Feri neanche si accorse di Aiace, che vedendolo aveva sgranato
gli occhi, sconvolto dall’apparente spensieratezza del Capitano, che dopo la
morte di Natal’ja aveva ancora il coraggio di fumare le sue dannate sigarette e
dilettarsi col romanzetto giovanile d’uno scrittorucolo moscovita.
-Καταραμένος...-
Kataraménos, Maledetto, sussurrò
in greco, incredulo.
Fu allora che Feri alzò
gli occhi.
Non sembrava stupito né
turbato.
Non smise di fumare.
Non si alzò dal letto.
Non cambiò lo scintillio
del suo sguardo.
E Aiace perse la testa.
Per l’ennesima volta, quel giorno.
-Δολοφονικός!
Καταραμένος
δολοφονικός...
Hai ucciso μου
μητέρα e...
Non te ne importa niente, vero? Ma εγώ...
Giuro che pagherai, maledetto assassino!-
Gridava e piangeva, non
era sicuro che stesse andando tutto come avrebbe voluto, non era sicuro che
sarebbe servito a qualcosa, avventarsi contro Feri Desztor in quelle condizioni, il suo atteggiamento l’aveva fatto
letteralmente impazzire, lui non poteva
aver ucciso sua madre e comportarsi così,
come se niente mai fosse stato, come se Natal’ja non fosse morta per colpa sua.
-Sei contento, adesso? Ti sei vendicato abbastanza? Lei non ti
amava e tu l’hai uccisa...
L’hai lasciata morire-
Allora sì, Feri si alzò.
Allora sì, il suo sguardo
cambiò.
Allora sì, spense la
sigaretta, la spense contro l’ultimo
ritratto di Natal’ja che aveva appeso alla parete.
Allora sì, raggiunse
Aiace, Aiace Gibson.
Allora sì, gli tirò uno schiaffo.
Forte come non ne aveva
mai tirati nemmeno a Lys quando se li era
meritati.
Forte come non avrebbe mai
dovuto tirarne al figlio di Lys.
Ma tanto, Aiace non era il figlio della sua Natal’ja.
Non aveva il sangue di
Natal’ja, e Feri il sangue di Geórgos non
l’avrebbe mai rispettato.
-Sta’ zitto, Aiace Gibson.
Sta’ zitto o giuro che ti farò tacere a
modo mio.
Sei come tuo padre. Dai sempre la colpa a me. Sei un
prepotente e un presuntuoso esattamente come lui. Ma tu non sai niente, Aiace Gibson. Non sai quanto mi è costato perderla.
Non sai che lei era la mia Lys. Non sai cos’è successo quella notte. Non c’eri, tu!
Lei quella notte sarebbe
scesa in strada comunque, anche senza di
me.
Se avessi potuto l’avrei
salvata, e non certo per te.
E adesso va’ pure a
piangere sulla tomba di tuo padre.
Io non sono tenuto a
trattarti bene, ragazzino. Io non sono uno Spartano e tu non sei suo figlio-
San Pietroburgo, 14 Dicembre 1848
Senatskaya Ploščad'
(Piazza del Senato)
Aiace era in prima fila,
tra la folla accorsa per l'esecuzione di Feri Desztor.
E lo guardava dritto negli
occhi, con odio feroce assolutamente reciproco, come l'aveva sempre guardato
suo padre, come l'aveva sempre guardato
Gee.
Lontano dai suoi fratelli,
perché Céline e Nikolaj erano con i Forradalmi, e avevano le lacrime agli occhi,
a differenza sua.
Loro Feri l'avevano
perdonato.
Aiace non ce l'aveva con
loro, perché avevano otto anni Niko e nove Line, e anche se aveva sempre
pensato il contrario, in quella situazione li considerava davvero troppo piccoli per poter capire.
Dal patibolo, Feri sostenne
rabbiosamente il suo sguardo, ma poi dovette spostarlo sui suoi ragazzi, sui
suoi fratelli e su suo padre, non poteva essere sprecato per quel Gibson già
bastardo quanto il padre, il suo ultimo sguardo.
Aiace sputò per terra, stando
ben attento a farsi vedere del Capitano.
Si stava facendo odiare
dai suoi fratelli, con quel gesto, in quel momento, ma il rancore nei confronti
di quel maledetto Ungherese era più forte, più
forte di tutto.
-Te lo meriti. Te lo meriti. Io forse non sono suo
figlio, perché non è stata lei a mettermi al mondo, ma tu non sei mai stato suo
marito, anche se l'hai sposata-
Sparta, 3 Febbraio 1856
Céline guardò intensamente
quel bambino, il suo bambino, e lui
ricambiò lo guardo con i suoi splendidi occhioni color carbone, facendola quasi
rabbrividire.
Era bello, tanto bello...
Ma lei sembrava averne
paura, paura di quella bellezza e di quella realtà, ed esitava a prenderlo
dalle braccia di FJ.
-L'ultima volta che ho
visto un bambino appena nato... Era lui.
E quando sono rimasta
incinta mi sono chiesta... Come avrei
fatto, quando fosse arrivato questo momento.
Lisandro.
Deve assolutamente chiamarsi Lisandro. È
bello come lui, anche se lui aveva i capelli biondi e gli occhi d'argento
come la mamma. E mi dispiace... Mi
dispiace solo...
Che la mamma non lo vedrà. Lei non si sarebbe commossa, non avrebbe sentito
neanche, forse, questo mio gelo nello stomaco, lei avrebbe tenuto duro... Ma avrebbe sorriso, e con quel sorriso avrebbe pianto. Mi sembra anche che sorrida come
lui... La sua prima parola è stata il mio nome, e io ancora non capivo se fosse
una bella cosa o no.
Sono quasi impazzita,
quando ho saputo cos'era successo...
Quando ho saputo ch’era stata lei-
Note
Зимние заметки о летних впечатлениях
- Zimniye zametki o letnikh
vpečatleniyakh: Note invernali su impressioni estive, Fëdor
Michailovič Dostoevskij.
Titolo del resoconto del
primo viaggio all’estero del mio meraviglioso Fëdor, a cui ho dedicato anche
una parte di questo capitolo ;)
Mi piaceva troppo, e mi
sembrava adatto a questo capitolo, che all’inizio avrebbe dovuto essere solo su
Alja e Gee a Sparta, due mesi dopo la morte di Lisandro, ma poi...
Beh, l’avete letto ;)
Innanzitutto, хорошего
воскресенья!
(khorošego voskresen’ya, buona domenica!)
Questa settimana ho
quattro verifiche e un’interrogazione, e spero vivamente di sopravvivere...
La prossima, poi, ho avuto
la magnifica idea di fissare l’interrogazione programmata di scienze lo stesso
giorno della verifica di greco, anche se allora non lo sapevo ancora, e in
fondo avrebbe potuto andarmi molto peggio, dato che secondo me quelli che sono
interrogati questa settimana e hanno anche l’interrogazione di storia e di
latino stanno già tentando il suicidio...
E sabato prossimo per
finire il tema d’italiano dobbiamo trattenerci un’ora in più.
Complessivamente direi che
è un programma seriamente inquietante, considerando che stanotte ho anche
sognato di arrivare alle sette di stasera senza aver ancora aperto il libro di
storia, e mi sono svegliata che quasi tremavo...
In realtà, per fortuna, ho
già studiato metà del programma, e oggi mi mancano poco più di sedici pagine,
oltre al ripasso di matematica -sempre sedici pagine- (ma il sedici è sempre
stato il mio numero sfortunato, anche se il 16 di questo mese, la settimana
scorsa, ho preso sette in latino)...
Insomma, concluso questo
bollettino di guerra che col capitolo non c’entra niente, possiamo passare a
questo turbolento 385...
Gee sembrava cominciare a
superare la morte di Lisandro, ma il giorno del suo ritorno
all’Αθάνατος è finito in tragedia...
Perché in questo capitolo
è terribilmente fragile, il nostro Gee, anche se col coraggio che ha cerca
sempre di superare se stesso, e a volte ci riesce, ma questa volta no.
La frase più importante
della prima parte, però, secondo me, è quella di Line.
Io avevo i brividi mentre
la scrivevo, e non so se a voi ha fatto lo stesso affetto, ma non riesco
nemmeno a spiegarla, credo che si ricolleghi molto al discorso di Gee del
Capitolo 364, Postcards who nobody reads.
Il 2 Marzo 1843, il giorno
in cui Feri ha cercato di uccidere Gee, ha segnato profondamente Line, Niko e
Aiace.
Line e Niko poi l’hanno
perdonato, lo vediamo nel Capitolo 185, il capitolo sulla notte del 5 Maggio
1848.
Mentre Aiace... Lo vediamo
in questo capitolo, l’odio feroce e assoluto che ha sviluppato nei confronti
del Capitano, fino ad arrivare ad essere felice della sua morte, anche perché
Feri era il primo a sostenere che Aiace non fosse davvero figlio di Lys, o
meglio, che non essendo stato partorito da lei come Line, Niko e Lisandro, non avendo il suo sangue, non ha il
diritto di considerarsi suo figlio e lei sua madre.
Feri vede Aiace solo come
un piccolo presuntuoso come suo padre, come Gee, che crede di avere su Alja
diritti del tutto immeritati, e questo lo vedremo soprattutto in un episodio
del prossimo capitolo.
L’ultima frase di Aiace, “anche se l’hai sposata”, la capirete poi
;)
La reazione di Feri alla
morte di Lys è difficile da capire anche per lui, soprattutto per lui, ma spero di essere riuscita a descriverla in
modo abbastanza efficace, anche se ovviamente non è finita qui ;)
Quanto all’ultimissima
parte...
La nascita di Lisandro
Efialte Dragan, il figlio di Céline e FJ.
Chi è la lei di cui parla Line?
Chi ha ucciso suo fratello?
E con quest’ultima domanda
mi accingo a concludere le note e a postare, per la gioia del mio libro di
storia, che mi aspetta con una certa impazienza ;)
A presto!
Marty