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Autore: Giuacchina    25/11/2012    1 recensioni
Era risaputo che l’essere troppo libertina di Elisabeth McDermott non le avesse permesso di avere una casa, una macchina o un uomo stabile. Ventidue anni di pura follia.
Non era una ragazza che adorava particolarmente le feste, questo no, ma era determinata nel fare quel che più le piaceva. Ma Elisabeth era convinta che avrebbe cambiato il mondo, o almeno il suo modo di pensare. Era una vera forza della natura, non per niente era una delle pochissime donne ad aver trovato lavoro in uno dei campi rigorosamente maschili: era una tassista.
Harry Styles era praticamente sommerso dalla gente. Non sapeva come muoversi per non essere riconosciuto, per poter vivere la propria vita con un po' di privacy e di certo girare nelle strade di Londra con la sua auto lussuosissima non lo avrebbe reso meno appariscente.
E se la chiamata di un taxi cambiasse le corse e i discorsi notturni nella capitale inglese?
Genere: Comico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1.
 





«Ellie, ci sei?» una mano mossa convulsivamente davanti al suo viso la risvegliò del tutto. «Diamine El!»
La ragazza mosse il capo distrattamente come a scrollarsi il sonno di dosso. Lo sguardo scocciato del suo datore di lavoro rendeva l’idea del danno che aveva causato la sera prima. Era stata una sciocchezza, perché si alterava tanto?
Annuì poco convinta e provò ancora a sostenere quel suo sguardo vitreo e pieno di rabbia.
«Hai combinato un disastro!» si alzò dalla sua poltrona di pelle posizionata davanti alla scrivania improvvisata. Però, che poco gusto: un pezzo elegante accostato ad un mobile inutile e per di più brutto a vedersi.
La ragazza provava a reggersi seduta sulla scomoda sedia in legno – abbastanza vecchia, c’è da dire – tentando in ogni modo di sembrare più lucida possibile.
«Hai intenzione di rispondermi o vuoi essere licenziata?»
Elisabeth parve resuscitare. La parola “licenziare” non doveva far parte del suo vocabolario, non le avrebbe giovato.
Quella sospirò e sorrise gentilmente. «So di averla fatta grossa»
Lo ammise e questo era già tanto. Così come per il fatto che avesse risposto con una frase di senso compiuto. Erano le sette del mattino e lei non era di certo felice del risveglio assurdo che le si era presentato davanti: John, il suo capo, l’aveva chiamata d’urgenza non appena seppe dell’accaduto. A parere della ragazza, però, si stava facendo troppi problemi inutili: dopotutto, si ripeteva, era una cosa a cui si poteva rimediare con i soldi. Certo, era proprio questo che mancava a lei e all’azienda in cui lavorava, ma il suo stile di vita degno della frase “vivi e lascia vivere” non le permetteva di preoccuparsi di quello che le accadeva intorno, anche se era lei – come la maggior parte delle volte – a creare problemi.
«Quindi sai anche che potrei licenziarti» si buttò di nuovo sulla sedia l’omone, ancora scosso per la rabbia.
Elisabeth annuì ancora incerta. Sorseggiò un goccio del caffè che John, prima della sfuriata, le aveva offerto quasi in modo gentile. Quasi.
«Ma sappi che farò qualsiasi cosa per non farmi licenziare» si affrettò ad aggiungere. Ci mancava solo che perdesse il lavoro e lo sfratto sarebbe arrivato sicuramente. Era stata minacciata più e più volte dalla finanza, solo che lei pensava che scherzassero.
Era risaputo che l’essere troppo libertina di Elisabeth McDermott non le avesse permesso di avere una casa, una macchina o un uomo stabile. Ventidue anni di pura follia.
Non era una ragazza che adorava particolarmente le feste, questo no, ma era determinata nel fare quel che più le piaceva. Una volta riuscì ad entrare ad un concerto dei Coldplay senza biglietto, fingendosi muta. Le guardie del corpo furono talmente buone con lei che non si accorsero nemmeno dei momenti in cui urlava al ritmo della musica se non alla fine, quando il concerto era ormai volto al termine e un poliziotto che controllava nella parte del prato la adocchiò ricordandosi della ragazza muta. Le costò una notte in gattabuia, ma nemmeno questo le vietò di continuare a fare quelle stupide cose.
A volte ricordava il viso divertito delle persone intorno a lei mentre si ammutoliva davanti alle forze dell’ordine, mentre la trascinavano via: tutti ridevano, ma non di lei, lo facevano con lei.
Elisabeth McDermott era convinta che avrebbe cambiato il mondo, o almeno il suo modo di pensare. Era una vera forza della natura, non per niente era una delle pochissime donne ad aver trovato lavoro in uno dei campi rigorosamente maschili.
E no, non si sentiva presa in giro o altro: semplicemente era determinata a combinare altri guai.
«Non posso licenziarti» sussurrò John sotto lo sguardo interrogativo e sorpreso della ragazza «non ci sono più richieste da parte dei cittadini, nessuno vuol fare il tassista»
Sembrava affranto e per un momento alla ragazza dispiacque. Per un momento.
«Quindi… quindi posso continuare?» si alzò entusiasta lei, evitando le occhiate tristi dell’uomo davanti a lei.
Questo spalancò la bocca come a dire qualcosa, ma non fece in tempo che la ragazza si ritrovò fuori dal suo studio grigio ad urlare allegra. Elisabeth McDermott ce l’aveva fatta ancora.
 
Controllava che tutto fosse a posto nella nuova auto assegnatami. Oddio, chiamarla auto sarebbe stata una vera e propria blasfemia: quel maggiolino minuscolo era grande quanto la ruota di un vero veicolo. Ma le faceva guadagnare abbastanza, no? Era quello l’importante.
Accanto a lei, nell’enorme garage dell’azienda, Timothy Cutler le ripeteva le norme stradali, come se non le sapesse già a memoria.
«Lo faccio perché se vai a distruggere un’altra auto John ci manda via a calci, sappilo» diceva con il tono di chi sa di esser più bravo.
Timothy, o come amichevolmente – per quanto potesse essere definito “amico” – veniva chiamato Tim, era un uomo affascinante e ne era consapevole, fin troppo. Quarant’anni, viso tirato e sorriso finto: era risaputo che avesse i denti finti perché durante un incidente ne perse un bel po’. Credeva che avere una ragazza a lavoro avrebbe abbassato la credibilità del loro marchio, e ne ebbe ancor più conferma quando Elisabeth ebbe il suo primo incidente. Niente di grave, ma lui sperava con tutto il cuore che succedesse.
Non era di certo nato con un cuore d’oro.
«Sai, Tim» gli rispose la ragazza «dovresti calmarti ogni tanto»
Lo fissò negli occhi sapendo di metterlo a disagio, poi infilò la chiave, facendola roteare in modo da esser pronta a mettere in moto l’auto.
«Non ti pagano abbastanza per stressarti così tanto»
Sfrecciò via come un fulmine.
Tim ebbe l’ennesima certezza: una donna nella sua azienda avrebbe rovinato tutto.
 

 
Harry era praticamente sommerso dalla gente.
Stentava a credere, a volte, di essere così conosciuto. Di certo un po’  d’anni prima non avrebbe creduto di poter diventare così famoso.
Non riusciva a mettere il piede fuori di casa che un’orda di fan gli si buttavano addosso, non poteva uscire dalla Syco che i giornalisti lo assalivano con le domande. Non aveva più pieno potere della sua vita: era condizionato dalla stampa, dall’impressione che dava e che invece avrebbe dovuto dare.
Louis, al suo fianco, sorrideva amorevolmente alle ragazze che urlavano il suo nome. Era sempre così allegro e spigliato, forse era vero che l’amore che provava per la sua fidanzata Eleanor lo aveva sconvolto a tal punto da poter vivere come se tutto fosse una favola. Sembrava che non fosse preoccupato di niente e il suo migliore amico lo invidiava parecchio.
Firmò qualche autografo e fece qualche foto con un paio di fortunate, sorrise fintamente al resto della folla e salì in auto con i suoi compagni d’avventura.
«Una ragazza mi ha lanciato questi» urlò divertito Niall, il componente irlandese della band, mettendo in mostra due grossi orsacchiotti.
Zayn rise sguaiatamente e ne prese in mano – o forse sarebbe meglio dire in braccio: potevano essere grandi quasi quanto loro – e iniziò ad imitare Paul, la loro guardia del corpo. Le risate dell’intera band non tardarono a farsi sentire.
«Che ne pensate di andare in discoteca stasera?» domandò il buon vecchio Liam, colui che era stato soprannominato dall’intero emisfero “daddy”: sembrava il più posato, vero, ma non per questo non poteva avere idee un po’ bizzarre come quella.
Harry si passò una mano tra i ricci castani cercando di ricordare se avesse qualche impegno. Una lampadina si accese nel suo cervello quando Louis nominò la sua fidanzata.
Ecco qual era l’impegno: aveva un appuntamento con una modella, Janis, e poi sarebbe dovuto correre dall’altra sua “amica” Melanie. Da un po’ di tempo era davvero impegnato in campo amoroso. Non seriamente, ma lo era.
«Mi spiace, passo» rispose semplicemente.
Ammise, però, a sé stesso che una serata tra soli amici non avrebbe che migliorato l’umore che tendeva ad essere sempre più lunatico. Gli mancavano le partite alla playstation, i giri nei ristoranti che Niall consigliava loro o anche semplicemente i pomeriggi passati a cantare in casa di qualcuno di loro. Erano diventati davvero una famiglia.
«Cos’hai da fare di così importante, mio amato?» chiese con fare da indagatore Louis con una mano sotto il mento e gli occhi socchiusi.
Il riccio sorrise appena e scrollò le spalle.
«Quindi dubito di doverti aspettare in piedi stasera» dedusse perspicacemente il moro riaprendo gli occhi azzurri.
Niall rise. «Harry, a vent’anni hai ancora il babysitter?»
Quello rispose con il dito medio provocando una risata che distrasse per un momento l’autista, o meglio spaventandolo.
 
Non era abituato ad avere ospiti in casa, men che meno che fossero donne. Quella sera il suo coinquilino Louis avrebbe invitato la sua fidanzata Eleanor e avrebbero cenato a casa.
Questo, però, implicava il mettere in ordine la casa, lavoro più che arduo.
L’ampio salone era praticamente un campo minato: abiti sparsi qua e là l’enorme stanza, pizze e loro involucri poggiati malamente sul pavimento, cucchiai poggiati sullo scaffale più alto della libreria – Liam ne era particolarmente spaventato – e una lavata generale non avrebbe che migliorato quell’ambiente.
I due ragazzi si maledissero per non aver chiamato Dolores, la donna di servizio che li serviva da un paio d’anni, dandole una settimana di riposo. Non sapevano di poter essere capaci di tanto disastro in soli tre giorni.
«Io pulisco qui, a te tocca il bagno» decretò il più grande.
Harry strabuzzò gli occhi. «Cosa? Perché?»
Louis lo guardò di striscio e con una nonchalance tale da riuscire a convincere il riccio disse semplicemente «Non sono io che spruzzo un’immensità di prodotti sui miei adorati capelli»
Il riccio segnò mentalmente che si sarebbe rasato i capelli solo per non ricevere ancora un compito così sporco.
La casa era diventata linda. Nemmeno Dolores avrebbe saputo fare un lavoro migliore, altrochè.
Harry si trovava steso sul divano del salone intento a guardare la tv, ma forse sarebbe meglio dire che quest’ultima stava guardando il ragazzo che più che fissare lo schermo stava ridendo alla vista tesa dell’amico.
«Lou, sono mesi che state insieme, perché quest’ansia?»
Il ragazzo si fermò dalla sua marcia che stava provocando un profondo buco al pavimento e puntò gli occhi color del cielo in quelli smeraldini dell’amico. «Non so che cucinare!»
L’altro rise cadendo dal divano. Era normale che accadesse qualcosa del genere nelle loro giornate.
Lo stress dell’uno e il divertimento dell’altro vennero interrotti dal suono del campanello.
Nell’arco di dieci secondi Louis riuscì a costringere Harry a comprare qualcosa fuori per la sua cenetta romantica.
«Ok, dammi le chiavi della macchina» disse il riccio.
«Scherzi? Se le fan ti vedessero ti bloccherebbero e noi moriremmo di fame» sospirò pensando a qualcosa in fretta «Chiama un taxi»
Harry parve ricordarsi di qualcosa.
«Lou, ho un appuntamento dopo!»
Lo sguardo insistente del suo amico gli fece intendere che se non si fosse sbrigato allora non sarebbe stato lui stesso a rasarsi i capelli.
E, mentre Louis si ricomponeva per andare ad aprire la porta di casa, il povero Harry fu costretto a chiamare un taxi urgentemente.
 
 
Peccato, però, che sarebbe stata un’avventura un po’ diversa dal solito percorso casa-ristorante-casa.
  
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