To Engrossing Death
“A dateless bargain to
engrossing death”.
(W.
Shakespeare, Romeo e Giulietta)
È silenzioso.
Lui non muove un dito,
non fa guizzare un muscolo. Si può quasi esser certi che si stia
mettendo d’impegno per sbattere le palpebre il meno possibile.
Nell’angolo opposto della sala, invece, siede lei.
Sembra spiritata. Ondeggia tutta in avanti e indietro e continua a sussurrare
qualcosa fra sé, a ripetizione.
Forse è una canzone. Forse qualche strana sorta di rassicurazione
silenziosa.
Mentre dondola tiene le gambe saldamente strette al petto, cingendole con le
braccia stanche, tentando disperatamente di farsi sempre più piccola.
Ad un osservatore poco attendo, in effetti, i due potrebbero parer addirittura
simili, l’uno la palese copia dell’altro nella posizione e nel
sentimento. Ma il visitatore invisibile quale l’immaginazione del lettore
è più che sagace, e mentre passeggia per la stanza si diverte a
cogliere ogni sfaccettatura dell’aspetto dei due giovani.
Lui… lui è immobile.
Pare quasi in catalessi ma, se ci si sofferma a fissarlo per un po’, ecco
che qualcosa inizia a farsi notare alla vista: un tremolio quasi
impercettibile, costante lo scuote. Sembra invisibile, ma è purtroppo
presente.
Ha la pelle d’oca, ma il giovane non prova freddo. Neanche cento coperte
potrebbero sciogliere il ghiaccio che sente bloccargli le vene.
La ragazzina invece lo osserva. Ha paura, è nervosa. L’ansia le
sfigura il viso, schizzando macchie violacee sotto i suoi occhi grandi come un
pittore maldestro alle prime armi con una tela.
Ma quelle occhiaie scure sono tutt’altro che uno schizzo malsano d’un artista
al suo esordio. Stazzano il suo viso da più di due giorni e non
accennano desiderio di andarsene via. Tentano disperatamente di sorreggere le
palpebre che, affannate, stramaledettissimamente disperate, supplicano il cielo
per un po’ di pace.
Ma non c’è verso. Ogni volta che gli occhi si ostinano a cercar
riposo lei li ripunta su di lui, sulla sua sagoma tremante. Vorrebbe aiutarlo,
ma non ne trova la forza. Teme che, avvicinandosi, non potrebbe che peggiorare
la situazione. Lo sguardo vitreo del giovane la spaventa fin troppo, quindi
rimane semplicemente lì. Rimane lì, e lo fissa.
Quando questo – non si da dopo quanto, non si sa per quale motivo –
decide di porre al suo mutismo, anche la ragazza ha ceduto alla stanchezza.
Rannicchiata contro il muro, le guance
ancora rigate dalle lacrime per frustrazione e depressione, il suo petto si alza e si abbassa lentamente
sotto lo sguardo stanco del ragazzo.
Questo crolla sul letto, senza sciogliere la sua posizione ingarbugliata.
Chiude gli occhi.
Una settimana dopo
Non c’è più motivo di fare qualsiasi cosa.
Apre gli occhi, sì, ma solo perché il buio lo terrorizza. Fissa
il soffitto bianco, di quel bianco così vuoto e assente che, in altre
condizioni, lo avrebbe portato alla follia.
Ma non in quel momento. Non muove niente, niente, niente.
Ogni tanto il soffitto candido viene sostituito da un volto sofferente che
si staglia su di lui, due occhi rossi e stanchi, fragili, una mano che viene
scossa davanti al suo viso. Ma non c’è verso, non c’è
soluzione. Il giovane rimane immobile, si crogiola nel suo dolore, tenta
disperatamente di auto-commiserarsi.
«Catatonia», ode
sussurrare da una voce strana, nuova, addolorata. L’ha già
sentita, quella parola, deve aver a che fare con la medicina.
Tentano di capire cos’hai, suggerisce
qualcosa dentro la sua mente, e lui non fa che ribollire di rabbia.
Dentro lotta, prende a pugni tutto, grida, urla, piange. Questa non è
una malattia, questo è solo dolore. Quello che ti riempie il cuore e non
ti lascia più, quello che ti impedisce di parlare e che non riesci a
sopraffare.
«Continua a ripetere il suo
nome», riesce a cogliere durante un altro momento di lucidità,
riconoscendo la voce per una qualche sfumatura familiare. Rimane interdetto. Lo sta facendo sul
serio? Parla?
Non c’è bisogno di chiedersi quale nome stia pronunciando, ma il
giovane è talmente stupefatto d’aver dato voce a qualcosa a cui
non riusciva nemmeno a pensare che quasi non prova dolore nel ricordare il viso
di lei. Ma poi, lasciando da parte lo shock, ci prova. Ci pensa.
Pensa a lei.
Lei.
Lei.
Lei.
E lei è morta.
Urla. Urla più che può, grida, sfoga la sua rabbia, si
affanna per fuggire da quel buio che lo avvolge. Urla ancora, si sfrega le
braccia, graffiandole, tenta disperatamente di lenire la depressione con il
dolore fisico.
Urla. Urla. Urla.
Ma fuori dalla sua mente c’è solo il silenzio.
Tic. Tac. E il suono del tempo che passa.
Ssh. E il suono del vento che lo
rassicura.
Frr. E il suono del suo gatto che
gratta la porta.
Le urla e il dolore rimangono confinate nella sua testa.
Tre giorni dopo
Il vento scuote le fronde degli alberi, privandoli delle loro foglie secche. Ad
aiutarlo arriva la pioggia, forte, fredda. Riempie le cavità della
terra, porta via tutto lo sporco dal terreno.
Ma il dolore resta lì.
Quella strana accoppiata di fenomeni naturali sembra desiderare di pulire
quella pietra fredda, scuoterla, tenta disperatamente di estrarla dal terreno
per convincersi che è tutto finto, è tutto completamente un’invenzione
della mente di qualcun altro.
Ma la pioggia non è troppo forte per sciogliere tre metri di terreno
freddo e appena smosso, il vento non è così impetuoso da
sollevare il fango e riprendere quelle anime rinchiuse. Tutto quello che fa
è distogliere i capelli rossi fluenti d’una donna, stanca,
depravata della felicità, furente con sé stessa.
«Avevo un pappagallino, quand’ero piccola», mormora all’uomo
al suo fianco, senza far nulla per le lacrime che le attraversano le guance.
Tuttavia la voce è ferma, rigida, le spalle dritte, la testa alta.
«Due», si corregge, accarezzando la lapide fresca appena aggiornata
del secondo nome in un mese. «Una coppia. Inseparabili, li chiamano. Uno era pacato, tranquillo, cinguettava
solo quando l’altra gli passava il becco sotto il collo, con affetto. L’altra
era gioiosa di vivere, allegra, non stava mai ferma. Ma la gabbietta era troppo
per lei. Voleva andarsene. Cercare un mondo più grande»,
mormorò, tirando su col naso. «Scappò. E l’altro
piccolo, poverino, non lo resse. Pensava che lei ci sarebbe stata sempre. Ma,
nonostante l’amore, a volte il desiderio di libertà non è
abbastanza per permetterci di rimanere».
E restarono così, l’uno accanto all’altro, a fissare la
tomba grigia. E mentre i tuoni scuotevano il silenzio, si resero conto che era
solo lei, che disperatamente tentava di farsi ritrovare dall’altro
giovane, appena approdato nel suo nuovo mondo.
Nota
Buon pomeriggio, amanti del drammatico!
Sono un pochino depressa. Si nota, vero? Osti. Poi il mischiare l’influenza
che ti toglie ogni voglia di studiare con un pizzico di disperazione et ispirazione (perché alla fine quelle due vanno un
po’ sempre a braccetto) è stata la mia – nonché la
vostra – condanna. E quindi eccomi qui, la mia prima drammatica.
Boh. Ieri sera nei miei dolori da influenza aveva un senso. Adesso sono in
dubbio su tutto.
Son drogata di recensioni, quindi se volete salvare una pover’anima pia dal
degrado scrivetemi un commentino, anche negativo se pensate che faccia schifo!
La vostra depressissima
WJ