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Autore: but honestly    25/11/2012    1 recensioni
Marianne è un OC creato da me, all'interno di un GDR online. Ha deciso di seguire la pirateria, senza sapere che risvolti avrebbe avuto questa sua decisione, per seguire il ragazzo che ama. Ma cosa succederebbe se questa scelta cambiasse totalmente la sua vita? Si tratta di un finale tragico di una storia che, in realtà, abbiamo deciso di terminare come un'happy ending. Non sono soddisfatta del risultato, devo ammetterlo, ma spero che possiate apprezzare! Ciò che resta esprime l'ultimo pensiero di Marianne prima della fine. Che cosa significa...?
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Ciò che resta.
 
Dischiuse appena le palpebre, cercando la luce dell’infinito,  che non arrivò. La pioggia scrosciante le ticchettava gentilmente sul viso diafano, solcandole le guance come una cascata di lacrime. Di chi? Chi avrebbe potuto piangere la sua scomparsa, la sua meschina sorte?
Restò sola, nella penombra di quell’ambiente di cui a malapena riusciva a distinguere le pareti. Distesa sul legno marcio e umido del pavimento, i capelli candidi sparsi sotto il suo corpo esile, impregnati di quel liquido denso e rosso che, lentamente, fluiva sul pavimento come una distesa di rose rosse appena sbocciate.
Stirò appena le labbra in un sorriso amaro per il triste epilogo di quella sua esistenza che di significato, in verità, non ne aveva mai avuto.
Una corsa continua per scampare alle mani della Marina. La solitudine di quella cella buia in cui, per tanti anni, era rimasta segregata, rinchiusa come una cavia da laboratorio; una bestia: senza luce, senza calore. Sola.
Così era sempre stato. Fino alla fine. Si sforzò di deglutire. Anche quel gesto le risultava difficile. Era come dimenticare tutto daccapo: come si parla, come si guarda, come si respira. Come cadere in un abisso infinito. Urlare a squarciagola dal fondo di un pozzo, con la certezza che nessuno avrebbe potuto sentirla.
Chi mai sarebbe venuta a cercarla? Chi l’avrebbe salvata, stavolta?
Si voltò appena di lato, faticosamente, lasciando strusciare la nuca sul pavimento, che le provocò una fitta lancinante. Strinse le labbra e sopportò. La paura le fece accelerare il battito cardiaco, che le rimbombava in testa come il martellare ritmico di un tamburo. Con la pioggia, certo, avrebbe potuto formare un concerto apprezzabile. Una serenata d’addio, proprio per lei, che amava così tanto la musica. Ma stava già cessando di diluviare: il sole cominciava a squarciare le nubi, si palesava qualche raggio dorato dal tetto sfondato dal  quale era precipitata.
Quello che vide fu esattamente quello che si aspettava. I resti impolverati e quasi completamente irriconoscibili di quella che, una volta, era la sua casa. L’abitazione della sua infanzia, il suo luogo felice. Davanti ai suoi occhi  si trovava un comodino, al lato di un letto piccolo e sporco, ancora sfatto. Chissà se portava ancora l’impronta del suo corpo di bambina? Quanti anni erano passati? Troppo tempo perché potesse ricordare come avrebbe voluto. E’ vuota.
Si riscosse appena quando, aguzzando la vista verso il pavimento, notò un portafotografie rotto. I vetri erano sparsi ovunque, quasi la raggiungevano. L’immagine, rovinata dalle infiltrazioni d’acqua, era ancora quasi riconoscibile. Al centro, il volto di sua madre era quasi completamente cancellato. Soltanto i capelli, la sua fluente chioma castana, erano rimasti riconoscibili. La giovane sospirò: non si aspettava di trovare qualcosa di più rispetto a ciò che già di per sé non le era dato conoscere.
In braccio alla donna c’era una più piccola e ingenua Marianne, che sorrideva felicemente. Al suo fianco, la figura quasi irriconoscibile di sua cugina.
La ragazza deglutì ancora, stavolta cercando di trattenere qualcosa. Qualcosa che le smorzava il respiro e che sembrava andare oltre il formicolio che si estendeva lentamente per tutto il suo corpo. Con il braccio, che già tendeva alla fotografia, tentò di afferrarla, senza riuscirci. Hanako. Riusciva a malapena a muovere le dita, come piccoli tentacoli. Patetica, come sempre. Non era riuscita a risolvere nulla, nell’arco della sua breve vita, e non poteva rendersi utile a sé stessa neanche in punto di morte. Hanako… Nella sua mente, la chiamava in modo chiaro, quasi avesse potuto chiederle di aiutarla. «Ha… na…» gemette appena, dischiudendo le labbra per parlare; ma le parole  sembravano sciogliersi al sole, come la neve in primavera.
 
Pensare che, appena un mese prima, era convinta di aver trovato la strada della sua felicità. Un’altra famiglia, un’altra vita… la fine di quella fuga. Aveva trovato riparo nell’unico uomo che si capacitava di poter amare, che era sicura di poter rendere, a modo suo, felice.
Eppure doveva aspettarsi che il passato tornasse a bussare alla sua porta.
Hanako l’aveva cercata per tanti anni, così tanti che le suole delle sue scarpe avevano lasciato traccia in ogni posto conosciuto. Ed a causa delle sue scelte, alla fine, se n’era andata anche lei. Mi dispiace… Le avevano detto di tornare alla vita tranquilla di città. Di lasciare la pirateria, perché avrebbe portato solo desolazione e dispiacere.
Ma lei non voleva.
Voleva conoscere il mondo.
Ma, più di ogni altra cosa, non voleva più essere sola.
Come avrebbe mai potuto sospettare di vedere l’ultimo barlume del suo passato spegnersi tra le sue braccia per una battaglia di cui neanche avrebbe portato il nome?
Non erano fatte per quel mondo. E, più di chiunque altro, la ragazza ne aveva capito l’atrocità.
Prima ancora che potesse accorgersene, le lacrime cominciarono a ferirle il volto, scivolando dolcemente lungo le guance, che cominciavano a impallidire, ed infrangendosi sul pavimento.
Aveva urlato, aveva pianto, si era disperata come mai le era capitato in vita sua: eppure, nessuno aveva ascoltato le sue parole, quel giorno. Nessuno ascolta i capricci dei bambini. L’illusione di quel quadro felice l’aveva condotta a credere di non essere più sola: ma lo era sempre stata, tra la sua gente. Tra i suoi compagni, tra le mura della cella, ed,  alla fine, nell’abisso scuro della morte.
Iniziò a singhiozzare sommessamente, stringendo le labbra tra loro con vigore. Ormai non percepiva più la presenza del suo corpo, dalle gambe in giù, né delle mani. Era come una bambola, lasciata a prendere polvere in un angolo, perché è rotta e nessun bambino vorrà mai più giocare con lei.
«Voglio tornare a casa.» aveva confessato, dopo una settimana, a bordo di quella nave che per mesi l’aveva ospitata come sua unica dimora. «Voglio tornare a casa, sono stanca di viaggiare.» e di essere sola.
Era come un richiamo. Come se, dentro di sé, avvertisse il desiderio di riempire un vuoto che pareva incolmabile. Vivere pacificamente, diventare una musicista, sposarsi, avere figli, nipoti… un lieto fine degno di una fiaba. Ma questa è la vita reale.
Ryuho l’aveva supplicata di restare. Aveva anche versato qualche lacrima, eppure non era riuscito a intimorirla. Tutto quel folle amore che l’aveva travolta il primo giorno in cui l’aveva conosciuto era evaporato con l’anima della compagna ed era volato chissà dove.
Gli altri si erano dovuti arrendere alla sua decisione.
Si era imbarcata su una nave mercantile ed in un mese era sbarcata a Baterilla.
Aveva vagato sola, come fosse appena naufragata. Era arrivata alla spiaggia, quella spiaggia, dove aveva speso i primi cinque anni della sua infanzia.
Non c’era nulla. Non un solo frammento di legno.
Eppure doveva essere proprio…Crack.
Non avrebbe mai potuto immaginare che la Marina avrebbe nascosto le prove seppellendo l’intera abitazione. Ma, d’altra parte, chi mai avrebbe visitato, oltre lei, quel luogo deserto, così lontano dalla città?
Era caduta dal tetto per un metro e mezzo di altezza, sbattendo con violenza il capo sul legno, che si era sfondato ancora, lasciandola precipitare dalla soffitta in quella che, una volta, era la sua camera. Le schegge di legno, quando non si erano conficcate nella carne, avevano lasciato segni su tutto il suo corpo: tagli, graffi, sangue.
Doveva, piuttosto, aver rotto qualcosa dietro la nuca, perché era l’unico punto rimastole sensibile. E forse, sarebbe stato meglio se fosse morta all’istante.
Senza possibilità di riflessione. Un colpo e via.
Con la coda dell’occhio cercò di inquadrare il cielo, dallo squarcio apertosi tra le travi di legno dei soffitti. Cominciò a rendersi conto solo allora di quel che stava realmente accadendo. Gli occhi le si erano velati di un manto fumoso, come una coltre di nebbia che impedisce di guardare lontano.
Sto morendo.
Avvertiva con chiarezza il calore del sangue fluire fuori dal suo corpo, ormai pervaso da un senso omogeneo di freddo.
Sto morendo.
Aveva paura. Non della morte, no: aveva fatto i conti con sensazioni simili milioni di volte; il suo timore andava ben oltre.
Che cosa resta?
Che cosa sarebbe rimasto di lei, se non una percezione lontana e inafferrabile? Quella fotografia dai contorni incerti, quella figura a margine del quadro, che nessuno nota, a cui nessuno dona importanza.
Già.
Per chi era stata importante? Chi veramente avrebbe pensato a lei come una presenza necessaria? Non c’è più nessuno. Conosceva già la risposta. Hanako, sua madre, suo padre, la sua famiglia.  Sono tutti morti.
Tracce, disegni, passato: tutto perduto. Chi si sarebbe ricordato di lei, quando non ci fosse stata più? Chi avrebbe pianto la sua dipartita?
Improvvisamente, si accorse di quanto poco avesse lasciato alle sue spalle.
Io muoio qui e nessuno lo saprà mai.
Tutto ciò che avrebbe voluto fare, tutto ciò che avrebbe voluto essere.
Una musicista, una moglie, una madre…
Si fermava tutto lì. Marianne Durless, la bambina affetta da albinismo senza passato e senza futuro, sarebbe morta lontano da tutti, da sola, esattamente come aveva speso il resto della sua effimera esistenza.
Non voglio… il cuore rallentò il suo battito. Di più, sempre di più. Sentiva la fiaccola ardente della sua forza vitale diventare niente più di una fiammella da candela. Neanche la testa le faceva male: solo il dolore dei suoi rimpianti.
Che cosa sarebbe rimasto di lei, che cosa? Il fantasma di una bambina che non era mai stata.
Cercò di raccogliere tutto il fiato che aveva in corpo, per liberarsi del dolore che aveva dentro con un urlo di rabbia, di disperazione, di desolazione. Un grido che si sarebbe levato fino nell’immensità del firmamento.
Ma ciò che sfiorò appena la sua bocca di pesca fu un respiro leggero.
La luce calda del sole raggiunse finalmente il suo viso, come una carezza gentile.
Marianne chiuse gli occhi e le sembrò di addormentarsi.
Calò il buio e nessuno, stavolta, si curò di accendere la luce.

   
 
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