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Autore: Gea_Kristh    26/11/2012    0 recensioni
Quando il destino lega il tuo futuro a quello di un altro, lo senti come una corda muta, che rintocca nei più profondi recessi della tua anima.
Ana, diciannove anni, è una scrittrice che ha perso l'ispirazione. Ma cosa accade quando il destino ci mette lo zampino, e lei si trova di fronte un ragazzo che sembra uscito dalla sua immaginazione, tanto somiglia a Caden, il suo protagonista?
Nate, madre irlandese e padre italiano, non avrebbe mai immaginato di rimanere stregato da una timida bellezza come quella di Ana. C'è solo un problema: lei non sembra avere intenzione di parlargli.
Può davvero il destino intrecciare le trame di due vite così distanti l'una dall'altra? Forse... Forse sì.
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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Ci ho messo un po', ma eccomi qui con il terzo capitolo!
Purtroppo la costanza negli aggiornamenti non è mai stato il mio forte,
ma cercherò di fare del mio meglio perché il prossimo capitolo sia pronto al più presto.
Un grande ringraziamento ai miei lettori, e a yashal_ in particolare per aver recensito lo scorso capitolo - sei stata molto gentile, davvero!
Grazie,
Gea Kristh


NOTA
: questa storia è a rating arancione. Sono presenti accenni di linguaggio volgare, pertanto quei lettori che pensano di poterne rimanere offesi si ritengano avvisati.

Dove Volano Gli Angeli - Gea Kristh
Le Parole di Lui

             Mi sembrava di essere completamente impazzito. Del tutto rincoglionito.

 Era mattina, ero sdraiato a letto e non facevo che pensare a lei. Lei... Nemmeno sapevo come si chiamasse, Cristo! Mai, mai, mi era successo di essere ossessionato a quel modo. Quasi non avevo dormito e poi, quando finalmente, dopo ore e ore, ero riuscito a chiudere occhio... L’unica cosa che ricordavo dei miei sogni erano occhi turchesi e sprazzi d’arancione.

 Una scrittrice, aveva detto Lele. E non poteva abitare troppo lontano, no? Insomma, quante dannatissime scrittrici potevano esserci, in quel buco di cittadina? Poi che avrà avuto, vent’anni? Giovane... Magari non era proprio proprio una scrittrice, dopo tutto. Una... studentessa? Forse – anche se, ad onor del vero, non l’aveva mai nemmeno intravista all’università, di questo ero certo.

 Mi alzai, perché continuare a pensarci strappandomi i capelli era francamente fuori discussione.

 Al piano di sotto potevo sentire mia madre preparare la colazione in cucina. Era sabato, il che significava cappuccino e cornetti alla panna – un ottimo modo per risollevarmi il morale. Mi sciacquai la faccia, cercando di lavare via le ore insonni dagli occhi, e mi legai i capelli alla bell’e meglio, prima di infilarmi una felpa e scendere.

 – Buongiorno bell’addormentato! – Mi salutò mia madre, accostandomisi per scoccarmi un sonoro bacio su una guancia, una volta seduto al tavolo. Ero ancora mezzo addormentato, neanche a dirlo, ma riuscii a spiccicare qualcosa di simile ad un “buongiorno”, o almeno credo.

 – Bèh? Neanche ti fossero passati sopra con un autobus, sembri un cadavere, – mi mise una tazza di cappuccino sotto al naso, e il mio stomaco si fece sentire... rumorosamente. Effettivamente avevo una certa fame...

 – Bèh, almeno l’appetito non ti passa, – continuò, – per la miseria, respira almeno! La mamma di Daniele penserà che non ti diamo da mangiare, se fai così anche da... Nathaniel! Ma lasciane uno anche a me di cornetto! –

 Scrollai le spalle, divertito. – Mica è colpa mia, sono in crescita! –

 Mia madre mi fissò con uno sguardo scioccato, facendomi scoppiare a ridere. La situazione non migliorò quando scosse il capo, dichiarando sconfitta, e la sentii mormorare qualcosa sulle righe di “Crescere? Ancora?”.

 – Allora, com’è andata poi ieri al pub? –

 Oh cazzo.

 – Mh... Bene bene. –

 E che due palle però. Per una, e dico una, volta in dodici fottutissime ore in cui non ci stavo pensando! E... niente. Nulla da fare. Pace andata. Fai ciao con la manina alla tua sanità mentale, Nate, che pare stia partendo per fanculolandia.

 – Bèh, tutto qua? –

 Eh, sai ma’, ho visto una tipa e in due nanosecondi tondi tondi mi sono giocato la quasi totalità dei miei neuroni. Ah, tutto okay però, eh!

 – Tutto qua. –

 E fu allora che, chissà come, mi si accese la proverbiale lampadina.

 – Ma’, ma mica conosci qualche scrittrice che vive nei paraggi? – La nonchanance non era un mio punto di forza, probabilmente, ma ottenni quello che volevo, seppure facendola incuriosire come una scimmietta, a giudicare dallo sguardo che mi lanciò.

 – Oh, bèh, Augusta Roma, hai presente no? Credo che viva nei villini oltre il parco delle scuole; una volta l’ho incrociata al supermercato, e così mi disse Adele, la signora del reparto carni. Comunque abita qui in città, di questo sono praticamente certa. Che donna, quella! –

 Augusta Roma... Augusta Roma... Augusta... Ah! L’autrice della metà dei libri in salone, ecco dove l’avevo sentita. Bèh, ma poteva essere? Una ragazzina di vent’anni sì e no?

 - Mh, - assentii alzandomi. – Grazie, - le scoccai un bacio sulla guancia, poi mi diressi in camera a grandi passi.

 C’era un solo posto in cui avrei potuto avere, forse, qualche risposta. Dio, amavo Google.

 Augusta Roma.

 Il primo risultato era una voce di wikipedia e... No, decisamente no. La signora Roma, scrittrice di almeno... una tonnellata, ad occhio e croce, di bestseller, aveva più di settant’anni.

 Bèh, almeno era sabato. Lele aveva detto che ci andava spesso al pub, no? Magari sarebbe tornata quella sera. Magari...

 Concentrarmi sui libri di diritto amministrativo era già un’impresa di per sé, ma con lei, la mia piccola ossessione, in testa... bèh, farlo si rivelò una vera e popria sfida. In tre ore riuscii a leggere credo quattro pagine, solo per rendermi conto all’ora di pranzo che me ne ricordavo a malapena mezza. L’attesa fino all’orario di apertura dell’Hooligans si prospettava molto, molto lunga.

 La giornata, alla fine, volò via relativamente in fretta, a dispetto di ogni mia più rosea aspettativa. Mia madre mi aveva incastrato ad andare a “far compere” con lei, e l’innocuo salto al supermercato si era ben presto tramutato in un giro di quattro ore per tutto il centro commerciale. La scusa era stata che “lei mica ce la faceva, a portare le borse”.

 Comunque era stato un bene – anche se non glielo avrei mai detto – tanto che mi ritrovai quella sera ad iniziare il mio turno al pub, il mio cervello ancora miracolosamente intatto nella scatola cranica; mi resi conto allora di essere riuscito, grazie a mia madre e al suo benedettissimo shopping del sabato, a non pensare alla mia piccola ossessione per gran parte del pomeriggio. L’idea mi mise di buon umore.

 Appena arrivato all’Hooligans, immancabilmente mi ritrovai a pensare a lei, ma questo me lo aspettavo.

 Non c’era, ma d’altro canto era ancora presto. Quella sera dovevo rivederla, o sarei seriamente impazzito. Qualcosa in lei mi attirava come una falena al fuoco, e, dannazione, avrei scoperto cosa. Che poi magari le avrei parlato e nemmeno mi sarebbe piaciuta – però un tentativo, quantomeno per togliermela dalla testa, dovevo farlo.

 Cominciavo seriamente a disperare che sarebbe venuta al pub quella sera, quando ad un tratto la vidi. Si era mossa in perfetto silenzio: un momento non c’era nessuno, al piccolo tavolo all’angolo, e quello dopo... lei. Per un attimo, un attimo solo, non riuscii a staccare gli occhi dalla sua figura. Volevo capire: ero impazzito, la sera prima? Dovevo rivedere quello sguardo, ma lei teneva gli occhi fissi su quel quaderno del cavolo, e... Lele le stava dicendo qualcosa. Lei sorrise appena ed annuì, ed eccolo, quel guizzo di turchese, che ebbe il potere di farmi trattenere il respiro per un lungo, interminabile momento.

 Cazzo. Mi diedi, probabilmente per la milionesima volta nel giro di due sere, del cretino da solo.

 Stavo pulendo un tavolo, ma quando, con la coda dell’occhio, vidi Daniele dirigersi verso l’angolo del pub – quell’angolo – mollai lo straccio ed intercettai il mio migliore amico.

 – Lele, faccio io, okay? –

 Lui mi fissò per un attimo, prima di lasciarmi il vassoio con un sorriso ironico.

 – Prego, Romeo. Ah, e vedi di non romperle troppo le palle quando nemmeno si accorgerà che esisti. –

 Sbuffai, ma sorridevo. Mica poteva ignorarmi, no?

 Mi accostai al suo tavolo, ma anche quando le fui accanto lei non alzò lo sguardo. Poggiai con lentezza la coppa gelato – pistacchio e cocco, a giudicare dal colore – sul tavolo, poi la caraffa piena d’acqua, ma, diamine, nemmeno si era accorta che fossi lì. Era sorda o cosa? Forse misi un po’ troppa forza nel posare il bicchiere accanto all’acqua, ma nemmeno allora lei alzò gli occhi.

 Amen. Stavo per metterci una croce sopra, davvero. Ci avrei riprovato più tardi, mi dissi, magari con il conto. Poi, però, colsi con la coda dell’occhio Lele che, dal bancone, si godeva la scena, sghignazzando come un demente. Eh no... Quello proprio no.

Presi un respiro, chiudendo un attimo gli occhi. In fondo, se la montagna non va a Maometto... O qualcosa del genere.

 Le sfiorai  con la punta delle dita una spalla – di certo non volevo farle prendere un accidenti. Lei sobbalzò, poi accadde: sollevò la testa, ed i suoi occhi – quegli assurdi occhi, grandi ed un po’ sgranati, che non erano azzurri, ma turchesi, veramente turchesi – si immersero nei miei.

 Se rimasi lì come un fesso a guardarla? Sì, almeno per un lunghissimo paio di secondi. Poi, grazie al cielo, mi riscossi, e riuscii quantomeno a salutarla – anche se sentivo la gola secca, e, per qualche strana ragione, la testa leggera.

 – Ehi, ciao, – le sorrisi, cercando di tranquillizzarla, – sono il nuovo cameriere qui al pub, volevo presentarmi. Mi chiamo Nathaniel. –


La Voce di Lei

 Caden. Cosa... Cosa ci faceva lì? Un’allucinazione? Oddio, era lui. Quel viso... Era il suo: quel viso perfetto, che avevo visto centinaia di volte nella mia mente; ed erano sue quelle labbra, carnose ed appena piegate in un sorriso, a metà tra l’ironico ed il rassicurante. Seguii con gli occhi la linea di quella mandibola fine e poi su, fino agli zigomi alti.

 Era lui, e mi guardava con occhi celesti circondati da ciglia chiare, uno sguardo curioso e affascinante al tempo stesso. Fissai rapita una ciocca di capelli scivolargli davanti al viso, e le sue dita scostarla rapide dietro all’orecchio, quasi con stizza.

 Fu come una doccia fredda.

 Vidi rosso, e per un istante non afferrai, ma poi mi fu chiaro: l’uomo, il ragazzo, che era davanti a me aveva una cascata di capelli rossi che gli sfioravano appena le spalle, alcune ciocche ribelli sfuggite all’elastico che li teneva in parte legati.

 Non era lui. Che sciocca... Certo che non poteva essere Caden. Si trattava o no di un frutto della mia immaginazione, in fondo?

 Sbattei le palpebre, e mi accorsi allora che mi aveva detto qualcosa – qualcosa che non avevo per nulla afferrato. Mi stava chiedendo se... stessi bene? Sì, sì che stavo bene.

 Riuscii ad annuire alla sua domanda, ma ancora sentivo la mia mente andare a rallentatore. Era... Era solo un malaugurato scherzo del destino, ecco cosa. Sì, perché anche in quel momento, mentre lo osservavo, non potevo fare a meno di pensare: Caden.

 Notai le piccole lentiggini chiare, spruzzate appena sulla pelle chiara degli zigomi e del naso, e questo mi aiutò a porre una nuova barriera mentale tra il mio Caden e questo ragazzo.

 Chiusi gli occhi, decisa a riprendere il controllo delle mie facoltà mentali. Ce la potevo fare. Sì, potevo. Eppure, quando li riaprii, fu un nuovo tuffo al cuore vedere ancora quel viso, quei lineamenti che sembravano strappati alla mia fantasia. Deglutii, ma avevo la gola secca. Desiderai un sorso d’acqua, ma non riuscii a staccare gli occhi da lui nemmeno per versarmi da bere.

 - Sto bene, - riuscii a parlare, dopo quell’interminabile pausa. La mia voce era bassa, e mi chiesi per un istante se mi avesse sentito, ma lui non si scompose e mi sorrise ancora. Sentivo il cuore martellarmi in petto, e per un attimo mi mancò il fiato. Dio...

 - Ah, volevo solo presentarmi. Nuovo cameriere qui, sai, e Daniele mi ha detto che vieni abbastanza spesso. –

 Come dovevo rispondere? Mi morsi le labbra, incerta. Cercai di pensare a parole, parole qualsiasi con le quali parlare, ma la mia mente era convenientemente vuota. La frustrazione ebbe la meglio su di me, e chiusi gli occhi, aggrottando la fronte. Non mi odiai mai tanto quanto in quel momento. Volevo rispondergli, ed aprii la bocca per farlo, ma nulla ne uscì. Sospirai.

 Riaprendo gli occhi vidi che mi osservava, probabilmente pensando che fossi pazza. Bèh, nemmeno tanto lontano dal vero.

 Volevo ringraziarlo. Ecco. Quello potevo farlo, no? Mi aveva portato l’ordine, e si era preoccupato di parlarmi. Era stato... gentile.

 Mi tirai indietro i capelli con una mano, aggrottando la fronte. Potevo farlo. Grazie. Dovevo solo dirgli grazie. E... lo feci. La parola mi uscì un po’ gracchiante, e mi schiarii la gola. Dio, avevo bisogno di quell’acqua. Lui mi guardò curiosamente, e capii di dover elaborare. Aprii la bocca per farlo, ma... nulla ne uscì. Frustrata, con me stessa e con il mio sciocco blocco, indicai le cose che mi aveva portato, sperando comprendesse che l’avevo ringraziato per quelle.

 E... fu quasi un miracolo, ma lui comprese. Sorrise ancora, e mi sentii avvampare.

 Era bello. Lo pensai, poi mi diedi della sciocca. Certo che era bello, poteva essere il fratello gemello di Caden!

 Caden... L’avevo creato pensando al mio ideale di bellezza, e questo ragazzo... Sì, toglieva il fiato – anche se i suoi capelli erano rossi, e la sua pelle non era dorata, e le sue ciglia non erano nere e folte.

 Notai per la prima volta che indossava la divisa dei camerieri del pub – una maglia nera a mezze maniche e un grembiule dello stesso colore scuro – un bel contrasto per la sua carnagione chiara.

 – Nathaniel, – mi disse, porgendomi la mano; aveva dita affusolate, longilinee come il resto del suo corpo che, potevo vedere, era alto e slanciato, ma con spalle larghe abbastanza, e braccia forti abbastanza, da non sfiorarmi nemmeno per un istante l’idea di descriverlo come allampanato.

 Sollevai piano una mano, e quando strinsi la sua nella mia notai come fosse coperta di una spruzzata di lentiggini chiare. Sorrisi, in qualche modo divertita, e mentre alzavo gli occhi sui suoi riuscii a dirgli: – Arianna. –

 Se il mio parlare a monosillabi lo disturbava, allora non ne diede segno – ed io gliene fui grata. Mi accorsi della morsa che attanagliava il mio stomaco solo quando questa cominciò ad allentarsi, lasciando spazio ad un placido sollievo.

 Il sorriso non abbandonò mai le sue labbra mentre, scuotendo la mia mano, mi diceva: – Piacere di conoscerti, Arianna. –

 Abbassai gli occhi sul mio taccuino, ancora aperto sul tavolo, la penna dimenticata lì accanto, cercando le parole adatte per rispondere. Non seppi cosa, nel mio sguardo, lo portò ad aggrottare la fronte, preoccupato, ma, qualsiasi cosa fosse, la odiai.

 – Ascolta, – mi disse, quel sorriso luminoso ormai affievolito. – Francamente... Ti do fastidio? Daniele mi ha detto che non ti piace essere disturbata. Soprattutto per parlare. –

 Sgranai gli occhi, sbigottita. Io... Mi sentii come un pesce fuor d’acqua, e non seppi cosa dire. Idiota, povera idiota con non ero altro.

 – Io... – Presi un profondo respiro, aggrottando la fronte per concentrarmi su ciò che stavo per dire. – No. – Scossi il capo. E ancora: – No, non mi... disturbi. –

 Lo vidi sorridere, e questo mi diede quella spinta di cui avevo bisogno per continuare. Presi un profondo respiro, fermai i nervi e, per la prima volta in anni, dissi qualcosa di mia iniziativa ad un estraneo.

 – Scusa, io... non sono brava con le persone. Non sono brava a... parlare. –

 – Ah! Ma io parlo abbastanza per entrambi! – Rise, e sentii le mie labbra curvarsi in un sorriso spontaneo. Lui era così... solare.

 – Nate! – Sentii il mio cameriere, quello che, prima di quel giorno, mi aveva sempre portato gli ordini, chiamare Nathaniel. Lui si voltò, facendo un segno in direzione del bancone, prima di rivolgersi ancora a me.

 – Daniele... Il lavoro chiama, temo. A presto! – Mi lanciò un occhiolino, ed io abbassai il capo frettolosamente, nascondendo il mio rossore dietro una coltre di capelli castani.

 Scoprii così che il mio cameriere si chiamava Daniele, e questo mi fece sorridere – e mi diede qualcos’altro a cui pensare piuttosto che quel sorriso.

 Il mio gelato era mezzo sciolto, ma a quello ero abituata. Ne mangiai una cucchiaiata, prima di cercare – inutilmente, avrei scoperto dopo poco – di concentrarmi sulla scena che stavo scrivendo.

 I miei pensieri non ne volevano sapere di rimanere immobili. Nathaniel... Dal mio piccolo tavolo nell’angolo, da quel piccolo guscio d’esistenza, lo potevo vedere destreggiarsi nel locale, che era ormai quasi pieno. Aveva un bel portamento, notai, con la schiena dritta di chi cammina sicuro di sé, ma non era rigido, e anzi i suoi modi gridavano familiarità.

 Un paio di volte, alzando lo sguardo dal mio quaderno, lo trovai intendo ad osservarmi, e questo fece arrossire me e sorridere lui.

 Capii che, quella sera, non avrei scritto una sola parola di più. Finii il gelato, lasciai i soldi sul tavolo e mi diressi silenziosamente all’uscita.

 Quella notte sognai Caden, come tante altre volte era successo – ma i suoi capelli, avrei potuto giurare, a volte divenivano rossi, e sulle sue mani, in un paio di occasioni, colsi una spruzzata di lentiggini chiare che ebbe il potere di togliermi il fiato.

   
 
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