Purtroppo la costanza negli aggiornamenti non è mai stato il mio forte,
ma cercherò di fare del mio meglio perché il prossimo capitolo sia pronto al più presto.
Un grande ringraziamento ai miei lettori, e a yashal_ in particolare per aver recensito lo scorso capitolo - sei stata molto gentile, davvero!
Grazie,
Gea Kristh
NOTA: questa storia è a rating arancione. Sono presenti accenni di linguaggio volgare, pertanto quei lettori che pensano di poterne rimanere offesi si ritengano avvisati.
Mi sembrava di
essere completamente impazzito.
Del tutto rincoglionito.
Era mattina, ero
sdraiato a letto e non facevo che pensare a lei.
Lei... Nemmeno sapevo come si chiamasse, Cristo! Mai, mai,
mi era successo di essere ossessionato a quel modo. Quasi non
avevo dormito e poi, quando finalmente,
dopo ore e ore, ero riuscito a chiudere occhio... L’unica
cosa che ricordavo
dei miei sogni erano occhi turchesi e sprazzi d’arancione.
Una scrittrice, aveva
detto Lele. E non poteva abitare troppo lontano, no? Insomma, quante
dannatissime scrittrici potevano esserci, in quel buco di cittadina?
Poi che
avrà avuto, vent’anni? Giovane... Magari non era
proprio proprio una
scrittrice, dopo tutto. Una... studentessa? Forse – anche se,
ad onor del vero,
non l’aveva mai nemmeno intravista
all’università, di questo ero certo.
Mi alzai, perché
continuare a pensarci strappandomi i capelli era francamente fuori
discussione.
Al piano di sotto
potevo sentire mia madre preparare la colazione in cucina. Era sabato,
il che
significava cappuccino e cornetti alla panna – un ottimo modo
per risollevarmi
il morale. Mi sciacquai la faccia, cercando di lavare via le ore
insonni dagli
occhi, e mi legai i capelli alla bell’e meglio, prima di
infilarmi una felpa e
scendere.
– Buongiorno
bell’addormentato! – Mi salutò mia
madre, accostandomisi per scoccarmi un
sonoro bacio su una guancia, una volta seduto al tavolo. Ero ancora
mezzo
addormentato, neanche a dirlo, ma riuscii a spiccicare qualcosa di
simile ad un
“buongiorno”, o almeno credo.
– Bèh?
Neanche ti
fossero passati sopra con un autobus, sembri un cadavere, –
mi mise una tazza
di cappuccino sotto al naso, e il mio stomaco si fece sentire...
rumorosamente.
Effettivamente avevo una certa fame...
– Bèh,
almeno
l’appetito non ti passa, – continuò,
– per la miseria, respira almeno! La mamma
di Daniele penserà che non ti diamo da mangiare, se fai
così anche da...
Nathaniel! Ma lasciane uno anche a me di cornetto! –
Scrollai le spalle,
divertito. – Mica è colpa mia, sono in crescita!
–
Mia madre mi
fissò con
uno sguardo scioccato, facendomi scoppiare a ridere. La situazione non
migliorò
quando scosse il capo, dichiarando sconfitta, e la sentii mormorare
qualcosa
sulle righe di “Crescere? Ancora?”.
– Allora,
com’è andata
poi ieri al pub? –
Oh cazzo.
– Mh... Bene bene.
–
E
che due palle però. Per una, e dico una,
volta in dodici fottutissime ore in cui non ci stavo pensando!
E... niente. Nulla da fare. Pace andata. Fai
ciao con la manina alla tua sanità mentale, Nate, che pare
stia partendo per
fanculolandia.
– Bèh,
tutto qua? –
Eh,
sai ma’, ho visto una tipa e in due
nanosecondi tondi tondi mi sono giocato la quasi totalità
dei miei neuroni. Ah,
tutto okay però, eh!
– Tutto qua.
–
E fu allora che,
chissà
come, mi si accese la proverbiale lampadina.
– Ma’,
ma mica conosci
qualche scrittrice che vive nei paraggi? – La nonchanance non
era un mio punto
di forza, probabilmente, ma ottenni quello che volevo, seppure
facendola incuriosire
come una scimmietta, a giudicare dallo sguardo che mi lanciò.
– Oh,
bèh, Augusta Roma,
hai presente no? Credo che viva nei
villini oltre il parco delle scuole; una volta l’ho
incrociata al supermercato,
e così mi disse Adele, la signora del reparto carni.
Comunque abita qui in
città, di questo sono praticamente certa. Che donna, quella!
–
Augusta Roma... Augusta
Roma... Augusta... Ah! L’autrice della metà dei
libri in salone, ecco dove
l’avevo sentita. Bèh, ma poteva essere? Una
ragazzina di vent’anni sì e no?
- Mh, - assentii
alzandomi. – Grazie, - le scoccai un bacio sulla guancia, poi
mi diressi in
camera a grandi passi.
C’era un solo
posto in
cui avrei potuto avere, forse, qualche risposta. Dio, amavo Google.
Augusta
Roma.
Il
primo risultato era una voce di wikipedia e... No, decisamente no. La
signora
Roma, scrittrice di almeno... una tonnellata, ad occhio e croce, di
bestseller,
aveva più di settant’anni.
Bèh,
almeno era sabato. Lele aveva detto che ci andava spesso al pub, no?
Magari
sarebbe tornata quella sera. Magari...
Concentrarmi
sui libri di diritto amministrativo era già
un’impresa di per sé, ma con lei,
la mia piccola ossessione, in
testa... bèh, farlo si rivelò una vera e popria
sfida. In tre ore riuscii a
leggere credo quattro pagine, solo per rendermi conto all’ora
di pranzo che me
ne ricordavo a malapena mezza. L’attesa fino
all’orario di apertura dell’Hooligans
si prospettava molto, molto
lunga.
La
giornata, alla fine, volò via relativamente in fretta, a
dispetto di ogni mia
più rosea aspettativa. Mia madre mi aveva incastrato ad
andare a “far compere”
con lei, e l’innocuo salto al supermercato si era ben presto
tramutato in un
giro di quattro ore per tutto il centro commerciale. La scusa era stata
che
“lei mica ce la faceva, a portare le borse”.
Comunque era stato un bene
– anche se non
glielo avrei mai detto – tanto che mi ritrovai quella sera ad
iniziare il mio
turno al pub, il mio cervello ancora miracolosamente intatto nella
scatola
cranica; mi resi conto allora di essere riuscito, grazie a mia madre e
al suo
benedettissimo shopping del sabato, a non pensare alla mia piccola
ossessione
per gran parte del pomeriggio. L’idea mi mise di buon umore.
Appena
arrivato all’Hooligans,
immancabilmente mi ritrovai a pensare a lei, ma questo me lo aspettavo.
Non
c’era, ma d’altro canto era ancora presto. Quella
sera dovevo rivederla, o sarei
seriamente impazzito. Qualcosa in lei mi
attirava come una falena al fuoco, e, dannazione, avrei scoperto cosa.
Che poi
magari le avrei parlato e nemmeno mi sarebbe piaciuta –
però un tentativo,
quantomeno per togliermela dalla testa, dovevo farlo.
Cominciavo
seriamente a disperare che sarebbe venuta al pub quella sera, quando ad
un
tratto la vidi. Si era mossa in perfetto silenzio: un momento non
c’era
nessuno, al piccolo tavolo all’angolo, e quello dopo... lei.
Per un attimo, un
attimo solo, non riuscii a staccare gli occhi dalla sua figura. Volevo
capire:
ero impazzito, la sera prima? Dovevo
rivedere quello sguardo, ma lei teneva gli occhi fissi su quel quaderno
del
cavolo, e... Lele le stava dicendo qualcosa. Lei sorrise appena ed
annuì, ed
eccolo, quel guizzo di turchese, che ebbe il potere di farmi trattenere
il
respiro per un lungo, interminabile momento.
Cazzo.
Mi diedi, probabilmente per la
milionesima volta nel giro di due sere, del cretino da solo.
Stavo
pulendo un tavolo, ma quando, con la coda dell’occhio, vidi
Daniele dirigersi
verso l’angolo del pub – quell’angolo
– mollai lo straccio ed intercettai il mio migliore amico.
–
Lele, faccio io, okay? –
Lui
mi fissò per un attimo, prima di lasciarmi il vassoio con un
sorriso ironico.
–
Prego, Romeo. Ah, e vedi di non romperle troppo le palle quando nemmeno
si
accorgerà che esisti. –
Sbuffai, ma sorridevo. Mica
poteva ignorarmi,
no?
Mi
accostai al suo tavolo, ma anche quando le fui accanto lei non
alzò lo sguardo.
Poggiai con lentezza la coppa gelato – pistacchio e cocco, a
giudicare dal
colore – sul tavolo, poi la caraffa piena d’acqua,
ma, diamine, nemmeno si era
accorta che fossi lì. Era sorda o cosa? Forse misi un
po’ troppa forza nel
posare il bicchiere accanto all’acqua, ma nemmeno allora lei
alzò gli occhi.
Amen.
Stavo per metterci una croce
sopra, davvero. Ci avrei riprovato più tardi, mi dissi,
magari con il conto.
Poi, però, colsi con la coda dell’occhio Lele che,
dal bancone, si godeva la
scena, sghignazzando come un demente. Eh no... Quello proprio no.
Presi
un respiro, chiudendo un attimo gli
occhi. In fondo, se la montagna non va a Maometto... O qualcosa del
genere.
Le
sfiorai con la
punta delle dita una
spalla – di certo non volevo farle prendere un accidenti. Lei
sobbalzò, poi
accadde: sollevò la testa, ed i suoi occhi –
quegli assurdi occhi, grandi ed un
po’ sgranati, che non erano azzurri, ma turchesi, veramente
turchesi – si
immersero nei miei.
Se
rimasi lì come un fesso a guardarla? Sì, almeno
per un lunghissimo paio di
secondi. Poi, grazie al cielo, mi riscossi, e riuscii quantomeno a
salutarla –
anche se sentivo la gola secca, e, per qualche strana ragione, la testa
leggera.
–
Ehi, ciao, – le sorrisi, cercando di tranquillizzarla,
– sono il nuovo
cameriere qui al pub, volevo presentarmi. Mi chiamo Nathaniel.
–
Caden. Cosa... Cosa ci
faceva lì? Un’allucinazione? Oddio, era lui. Quel
viso... Era il suo: quel viso
perfetto, che avevo visto centinaia di volte nella mia mente; ed erano
sue quelle
labbra, carnose ed appena piegate in un sorriso, a metà tra
l’ironico ed il
rassicurante. Seguii con gli occhi la linea di quella mandibola fine e
poi su,
fino agli zigomi alti.
Era lui,
e mi guardava con occhi celesti
circondati da ciglia chiare, uno sguardo curioso e affascinante al
tempo stesso.
Fissai rapita una ciocca di capelli scivolargli davanti al viso, e le
sue dita
scostarla rapide dietro all’orecchio, quasi con stizza.
Fu come una doccia
fredda.
Vidi rosso, e per un
istante non afferrai, ma poi mi fu chiaro: l’uomo, il
ragazzo, che era davanti
a me aveva una cascata di capelli rossi che gli sfioravano appena le
spalle, alcune
ciocche ribelli sfuggite all’elastico che li teneva in parte
legati.
Non era lui.
Che sciocca... Certo che non poteva
essere Caden. Si trattava o no di un frutto della mia immaginazione, in
fondo?
Sbattei le palpebre, e
mi accorsi allora che mi aveva detto qualcosa – qualcosa che
non avevo per
nulla afferrato. Mi stava chiedendo se... stessi bene? Sì,
sì che stavo bene.
Riuscii ad annuire alla
sua domanda, ma ancora sentivo la mia mente andare a rallentatore.
Era... Era
solo un malaugurato scherzo del destino, ecco cosa. Sì,
perché anche in quel
momento, mentre lo osservavo, non potevo fare a meno di pensare: Caden.
Notai le piccole
lentiggini chiare, spruzzate appena sulla pelle chiara degli zigomi e
del naso,
e questo mi aiutò a porre una nuova barriera mentale tra il
mio Caden e questo
ragazzo.
Chiusi gli occhi,
decisa a riprendere il controllo delle mie facoltà mentali.
Ce la potevo fare.
Sì, potevo. Eppure, quando li riaprii, fu un nuovo tuffo al
cuore vedere ancora
quel viso, quei lineamenti che sembravano strappati alla mia fantasia.
Deglutii, ma avevo la gola secca. Desiderai un sorso d’acqua,
ma non riuscii a
staccare gli occhi da lui nemmeno per versarmi da bere.
- Sto bene, - riuscii a
parlare, dopo quell’interminabile pausa. La mia voce era
bassa, e mi chiesi per
un istante se mi avesse sentito, ma lui non si scompose e mi sorrise
ancora.
Sentivo il cuore martellarmi in petto, e per un attimo mi
mancò il fiato.
Dio...
- Ah, volevo solo
presentarmi. Nuovo cameriere qui, sai, e Daniele mi ha detto che vieni
abbastanza spesso. –
Come dovevo rispondere?
Mi morsi le labbra, incerta. Cercai di pensare a parole, parole
qualsiasi con
le quali parlare, ma la mia mente era convenientemente vuota. La
frustrazione
ebbe la meglio su di me, e chiusi gli occhi, aggrottando la fronte. Non
mi
odiai mai tanto quanto in quel momento. Volevo rispondergli, ed aprii
la bocca
per farlo, ma nulla ne uscì. Sospirai.
Riaprendo gli occhi
vidi che mi osservava, probabilmente pensando che fossi pazza.
Bèh, nemmeno
tanto lontano dal vero.
Volevo ringraziarlo.
Ecco. Quello potevo farlo, no? Mi aveva portato l’ordine, e
si era preoccupato
di parlarmi. Era stato... gentile.
Mi tirai indietro i
capelli con una mano, aggrottando la fronte. Potevo farlo. Grazie. Dovevo solo dirgli grazie. E...
lo feci. La parola mi uscì
un po’ gracchiante, e mi schiarii la gola. Dio, avevo bisogno
di quell’acqua.
Lui mi guardò curiosamente, e capii di dover elaborare.
Aprii la bocca per
farlo, ma... nulla ne uscì. Frustrata, con me stessa e con
il mio sciocco
blocco, indicai le cose che mi aveva portato, sperando comprendesse che
l’avevo
ringraziato per quelle.
E... fu quasi un
miracolo, ma lui comprese. Sorrise ancora, e mi sentii avvampare.
Era bello. Lo pensai,
poi mi diedi della sciocca. Certo che era bello, poteva essere il
fratello
gemello di Caden!
Caden... L’avevo
creato
pensando al mio ideale di bellezza, e questo ragazzo... Sì,
toglieva il fiato –
anche se i suoi capelli erano rossi, e la sua pelle non era dorata, e
le sue
ciglia non erano nere e folte.
Notai per la prima
volta che indossava la divisa dei camerieri del pub – una
maglia nera a mezze
maniche e un grembiule dello stesso colore scuro – un bel
contrasto per la sua
carnagione chiara.
– Nathaniel,
– mi disse,
porgendomi la mano; aveva dita affusolate, longilinee come il resto del
suo
corpo che, potevo vedere, era alto e slanciato, ma con spalle larghe
abbastanza,
e braccia forti abbastanza, da non sfiorarmi nemmeno per un istante
l’idea di descriverlo
come allampanato.
Sollevai piano una
mano, e quando strinsi la sua nella mia notai come fosse coperta di una
spruzzata di lentiggini chiare. Sorrisi, in qualche modo divertita, e
mentre
alzavo gli occhi sui suoi riuscii a dirgli: – Arianna.
–
Se il mio parlare a
monosillabi lo disturbava, allora non ne diede segno – ed io
gliene fui grata.
Mi accorsi della morsa che attanagliava il mio stomaco solo quando
questa
cominciò ad allentarsi, lasciando spazio ad un placido
sollievo.
Il sorriso non
abbandonò
mai le sue labbra mentre, scuotendo la mia mano, mi diceva: –
Piacere di
conoscerti, Arianna. –
Abbassai gli occhi sul
mio taccuino, ancora aperto sul tavolo, la penna dimenticata
lì accanto, cercando
le parole adatte per rispondere. Non seppi cosa, nel mio sguardo, lo
portò ad
aggrottare la fronte, preoccupato, ma, qualsiasi cosa fosse, la odiai.
– Ascolta,
– mi disse, quel
sorriso luminoso ormai affievolito. – Francamente... Ti do
fastidio? Daniele mi
ha detto che non ti piace essere disturbata. Soprattutto per parlare.
–
Sgranai gli occhi,
sbigottita. Io... Mi sentii come un pesce fuor d’acqua, e non
seppi cosa dire.
Idiota, povera idiota con non ero altro.
– Io...
– Presi un
profondo respiro, aggrottando la fronte per concentrarmi su
ciò che stavo per
dire. – No. – Scossi il capo. E ancora: –
No, non mi... disturbi. –
Lo vidi sorridere, e
questo mi diede quella spinta di cui avevo bisogno per continuare.
Presi un
profondo respiro, fermai i nervi e, per la prima volta in anni, dissi
qualcosa
di mia iniziativa ad un estraneo.
– Scusa, io... non
sono
brava con le persone. Non sono brava a... parlare. –
– Ah! Ma io parlo
abbastanza per entrambi! – Rise, e sentii le mie labbra
curvarsi in un sorriso
spontaneo. Lui era così... solare.
– Nate!
– Sentii il mio
cameriere, quello che, prima di quel giorno, mi aveva sempre portato
gli
ordini, chiamare Nathaniel. Lui si voltò, facendo un segno
in direzione del
bancone, prima di rivolgersi ancora a me.
– Daniele... Il
lavoro
chiama, temo. A presto! – Mi lanciò un occhiolino,
ed io abbassai il capo
frettolosamente, nascondendo il mio rossore dietro una coltre di
capelli
castani.
Scoprii così che
il mio
cameriere si chiamava Daniele, e questo mi fece sorridere – e
mi diede qualcos’altro
a cui pensare piuttosto che quel sorriso.
Il mio gelato era mezzo
sciolto, ma a quello ero abituata. Ne mangiai una cucchiaiata, prima di
cercare
– inutilmente, avrei scoperto dopo poco – di
concentrarmi sulla scena che stavo
scrivendo.
I miei pensieri non ne
volevano sapere di rimanere immobili. Nathaniel... Dal mio piccolo
tavolo nell’angolo,
da quel piccolo guscio d’esistenza, lo potevo vedere
destreggiarsi nel locale,
che era ormai quasi pieno. Aveva un bel portamento, notai, con la
schiena
dritta di chi cammina sicuro di sé, ma non era rigido, e
anzi i suoi modi
gridavano familiarità.
Un paio di volte,
alzando lo sguardo dal mio quaderno, lo trovai intendo ad osservarmi, e
questo
fece arrossire me e sorridere lui.
Capii che, quella sera,
non avrei scritto una sola parola di più. Finii il gelato,
lasciai i soldi sul
tavolo e mi diressi silenziosamente all’uscita.
Quella notte sognai
Caden, come tante altre volte era successo – ma i suoi
capelli, avrei potuto
giurare, a volte divenivano rossi, e sulle sue mani, in un paio di
occasioni,
colsi una spruzzata di lentiggini chiare che ebbe il potere di
togliermi il
fiato.