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Autore: e m m e    26/11/2012    14 recensioni
È opinione comune che, dopo il suo finto suicidio, Sherlock torni da John nel giro di tre anni.
La verità, però, è che non se n’è mai andato. Non realmente.
[Per il Big Bang Italia]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson , Mary Morstan, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Noticina iniziale: Qualche giorno fa era il compleanno di Joey Potter. Ergo, questo capitolo è completamente e amorevolmente dedicato a lei. *abbraccia*

 

Capitolo II

Se qualcuno avesse dovuto descrivere Harriet Watson, l’ultima parola che avrebbe scelto di usare sarebbe certo stata “ascoltatrice”.
Mettiamo le cose in chiaro, Harriet Watson era un’ottima ascoltatrice, tranne per il fatto che ascoltava solo ciò che le pareva o ciò che le interessava.
C’era chi avrebbe detto che anche per quel motivo tra lei e Clara era finita come era finita. Ovvero male.
Ma se non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, allora non c’è peggior non-ascoltatore di chi ascolta quando non è interpellato.
Ah, Harriet Watson era anche una frana nel fare le analogie.
Intendiamoci, era una ragazza estremamente interessata alla letteratura, ma il suo vocabolario – e soprattutto la sua capacità di usarlo – era limitato, e il più delle volte intervallato da quelli che suo fratello avrebbe definito “spropositi di livello universale”; ma che volete?! Era o non era lui il letterato della famiglia?!
In ogni caso, se Harriet non si era praticamente mai interessata della vita del suddetto fratello dacché lui era tornato dall’Afghanistan, certo non era stato per il poco amore fraterno che li legava. O almeno non del tutto a causa della – ormai quasi totale – mancanza di esso.
Il motivo principale era che Harriet era sempre stata la mela marcia della famiglia: lei era la lesbica dichiarata, lei aveva rovinato il suo – breve – matrimonio, lei non era andata al funerale di papà dopo la colossale litigata che li aveva visti divisi per sempre, lei beveva, lei non saltava una riunione degli A.A. e continuava comunque a bere.
John era il figlio perfetto, era il figlio-soldato-etero che torna dalla battaglia con una sindrome da stress post-traumatico ottenuta dopo aver servito il proprio paese, John era il bambino che da piccolo chiedeva il permesso di alzarsi da tavola, era quello che finiva le verdure, che studiava, che si laureava, che era un medico affermato, che aveva successo.
Tutto il successo che a Harriet era sempre mancato.
Per questo aveva deciso di non prendersi cura del proprio fratellino, di lasciare che per una volta se la cavasse da solo. Lui aveva sempre cercato di aiutarla: ebbene, era il momento di ripagarlo.
Ovviamente tutto questo non aveva un briciolo di senso, ma la mente delle donne raramente è governata dalla logica quando si tratta di sentimenti complessi quali la gelosia e un orgoglio difficile da combattere.
Perciò, quando John era andato a vivere con Sherlock Holmes, Harriet aveva fatto finta di nulla e si era voltata dall’altra parte.
Se suo fratello era gay, accidenti a lui, gliel’avrebbe fatta pagare cara: John non aveva dovuto sopportare le occhiate dei genitori, i pianti di sua madre, le sfuriate di suo padre.
Ma si era poi scoperto che non era gay. Non era gay affatto.
Certo.
E branchi di unicorni volavano fuori dal frigorifero di Harriet.
Li aveva visti insieme a malapena una volta ed era giunta alla conclusione che davanti a loro due l’eterosessualità sarebbe fuggita urlando.
Ma John non le aveva mai parlato e lei – che non era affatto una buona ascoltatrice, come abbiamo detto – non aveva mai fatto domande.
Che se la sbrigasse da solo con il suo coinquilino malato di mente.
Quando però Sherlock era morto e John era andato a stare da lei per qualche mese, Harriet si era riscoperta preoccupata per quel fratello verso il quale credeva di provare solo una fredda indifferenza, che mascherava con il finto affetto necessario per non ferire i sentimenti dei loro parenti.
Aveva fatto del suo meglio per sollevare John da quel baratro di infelicità in cui era piombato e lui, come un vero soldato – oh, il papà sarebbe stato così fiero! – si era risollevato davvero.
Era tornato al lavoro.
Aveva incontrato una donna incinta, era andato a vivere con lei e adesso era diventato padre.
Ora, Harriet non era certo una psicologa, ma questo non poteva essere considerato un comportamento del tutto normale in un uomo che pretendeva di aver ritrovato il proprio equilibrio mentale dopo aver subito il violento trauma della morte del migliore-amico-forse-qualcosa-di-più.
Harriet Watson non si reputava una delle persone più intelligenti del mondo, ma dagli occhi di John riusciva a capire praticamente tutto quello che il fratello stava provando.
Dopotutto quello era lo stesso fratellino a cui lei aveva incerottato le ginocchia, che aveva coperto quando i vasetti di marmellata continuavano a sparire dalla dispensa, a cui aveva insegnato a colorare gli album dentro le linee, la prima persona a cui aveva confessato le sue preferenze sessuali.
Per quanto fosse sfilacciato, quel legame che li congiungeva c’era ancora, da qualche parte.
E guardando gli occhi di John, le mani di John, la linea delle labbra di John, Harriet sapeva che qualcosa non andava, e lo sapeva da molto, molto tempo. Molto prima che il piccolo Harry – era inquietante quel nome, ma tutti lo chiamavano così e lei si era adeguata, nonostante gli sembrasse che si rivolgessero sempre a lei quando lo nominavano – nascesse, aveva provato a parlare con John.
Perché Harriet Watson era sì una pessima ascoltatrice, ma quando c’era da farsi gli affari degli altri, allora in quel campo non la batteva nessuno.

Era stata lei a invitarlo fuori a pranzo perché quella storia la rendeva nervosa.
Non essere sciocca Harry, si era detta, è andato a vivere con un uomo sconosciuto – e probabilmente pazzo – dopo quattro ore che lo conosceva senza che tu abbia mosso un muscolo per evitarlo: adesso non puoi spaventarti perché vuole mettere su famiglia!
Ma non era riuscita a tranquillizzarsi con queste parole e dopo un paio di brandy aveva deciso di telefonare a John per parlare con lui di quella Mary.
Non aveva niente contro di lei – bella ragazza, belle tette – ma tutta quella situazione era estremamente anomala, e non perché John stesse per mettere radici con una donna incinta di un altro uomo – diavolo, chi era lei per giudicare? – ma perché John stava per mettere radici con una donna a nemmeno un anno dalla morte del suo migliore-amico-quasi-ragazzo. E questo a Harriet proprio non tornava.
Così aveva invitato John a pranzo, con la speranza che non solo pagasse lui, ma che anche volesse provare a confidarsi con lei. Entrambe erano speranze vane, ma Harriet era ottimista per natura, più o meno.
Si era seduta in un punto un po’ in ombra, in modo da osservare come John sarebbe entrato nella stanza, se quella piega triste delle spalle fosse sparita, se i suoi occhi fossero di nuovo vigili e non persi nel vuoto per la maggior parte del tempo.
In effetti aveva avuto modo di osservarlo quando lui  aveva fatto la sua comparsa e si era stupita di quanto sembrasse migliorato dall’ultima volta che si erano incontrati:  in quel momento aveva un po’ dubitato del suo intuito che fino ad allora aveva giudicato infallibile.
John l’aveva notata e lei lo aveva salutato con un ampio gesto della mano.
La ragazza si era accorta che, mentre camminava, continuava a zoppicare leggermente: niente di vistoso, ma quando Sherlock Holmes era ancora vivo quel problema era stato ampiamente superato.
« Ciao, Harriet... » aveva detto con un sorriso obliquo sedendosi davanti a lei. « Come stai? »
« Come stai tu, pezzo di deficiente! »
Harriet Watson non era nemmeno il tipo da convenevoli.
« Che cosa avrei fatto stavolta? »
« Non saprei: mi hai mandato un messaggio dicendo che hai intenzione di andare a vivere con Mary, una ragazza che conosci da tre giorni- »
« Sette mesi, veramente. »
« Quel che è... che aspetta un bambino non tuo e della quale dovrai prenderti cura per il resto della vita. Ne sei consapevole? »
John si era stretto nelle spalle. « Devo stare a sentire una predica da te su quale sia il modo migliore per mettere su famiglia, Harriet? »
« Devi farti fare la predica da chi ha conservato un po’ di buon senso. Se ci fosse papà saprebbe che cosa dirti. »
« Tu?! Tu del buon senso? Per favore! »
Lo aveva guardato per un lungo momento; la cameriera si era avvicinata per prendere le ordinazioni ma lei l’aveva cacciata via in malo modo: non era certo il momento adatto per interrompere la conversazione.
« John, puoi fare quello che ti pare della tua vita. Per quanto mi riguarda puoi anche andare a vivere sull’Himalaya mangiando licheni e neve a colazione, se è quello che vuoi veramente, ma, cazzo, dimmi che non c’entra Sherlock! Dimmi che non stai facendo tutto questo per... per qualche motivo che necessiterebbe di un aiuto psichiatrico che non ti puoi permettere. Dimmelo e giuro che sarò felice e lieta di tutti i marmocchi che quella ragazza potrà mai sfornare nella sua lunga vita.»
Le dita di John, fino ad allora poggiate con tranquillità sul tavolino, avevano avuto uno spasmo e si erano contratte con forza l’una sull’altra.
« Sherlock è morto » aveva detto con tono piatto, come se stesse comunicando un dato di fatto a cui non poteva credere nemmeno se si fosse sforzato con tutto se stesso.
Decisamente, quell’uomo avrebbe fatto la gioia di qualsiasi psichiatra.
« John... »
« Se mi hai invitato a pranzo solo per parlare di queste sciocchezze... » la sua voce andò a morire, la sua mente si allontanò per qualche attimo, poi suo fratello tornò sulla terra, accanto a lei. « Tra un mese io e Mary andremo a vivere insieme e se non ti sta bene puoi anche- anche- »
« John, a me sta bene » si era affrettata a mentire Harriet, poi aveva continuato con la verità: « Mary mi è simpatica, ho solo- non vorrei che tu arrivassi a pentirtene, ecco. »
Lui aveva fatto un sorrisetto saputo, come se fosse arrivato a quella conclusione molto prima di Harriet e molto prima di chiunque altro.
« Non c’è niente di cui dovrei pentirmi. »
E poi se ne era andato, adducendo l’improvvisa perdita di appetito, annullando così la speranza della sorella di gustarsi un pranzo gratis.
Harriet era rimasta a fissarlo mentre usciva dal locale, poi aveva ordinato un cocktail e lo aveva sorseggiato per qualche minuto.
« Maledetto il giorno in cui Sherlock Holmes ha incrociato i suoi passi con i tuoi, stupido John. »

Adesso teneva in braccio il suo pseudo-nipote dal nome pseudo-normale e cercava di seguire con lo sguardo il proprio fratello che sembrava fluttuare, tanto sembrava euforico, dentro e fuori le – poche – stanze della casa con cui viveva con Mary.
Ma quando gli altri non lo guardavano era facile notare quel velo che gli copriva il volto e lo separava dal mondo dei vivi.
Poi Harriet lo perse all’improvviso di vista, prima di tutto perché l’adorabile nipote le aveva appena rigurgitato sul maglione nuovo, e poi perché il campanello aveva suonato e John era sceso a incontrare i nuovi ospiti giunti in ritardo alla festa per il battesimo del pupo.

***

Non si è travestito, questa volta.
John non si accorgerà comunque di lui, e lui potrà portare a termine il lavoro che ha progettato completamente a proprio agio negli abiti che gli sono più consoni.
Non può fare nulla per fermarlo. L’unica cosa è aspettare.
La fredda indifferenza dei suoi occhi è macchiata da qualche lampo d’ira davvero impossibile da trattenere.

***

La casa era stracolma di gente – non perché gli invitati fossero molti, ma perché le stanze erano ben poche – per cui John si domandò per quale caso fortuito lui fosse stato l’unico abbastanza vicino alla porta da sentire il trillo del campanello.
Si guardò intorno, confuso, chiedendosi chi potesse essere l’ospite ritardatario, ma quando contò le quindici persone che erano state invitate al battesimo di suo figlio e che erano già tutte presenti dentro casa a festeggiare aggrottò le sopracciglia.
Recentemente si era scoperto sospettoso.
Anche se forse “sospettoso” non era proprio la parola adatta. Meglio “speranzoso”, ecco.
Probabilmente quello fu il motivo che lo spinse ad aprire la porta e a scendere al piano terra del palazzo di persona, invece di far salire il visitatore, chiunque fosse.
« Salve, John. »
Era una voce che non sentiva da quasi due anni interi, una voce che a dirla tutta non si aspettava di sentire più e che sperava vivamente di non sentire più.
« Mycroft » rispose atono, chiudendosi la porta alle spalle.
La serata era fredda, più fredda di quanto si sarebbe aspettato, e John si infilò le mani in tasca, distogliendo lo sguardo dall’uomo che gli stava di fronte, appoggiato al suo immancabile ombrello, con, sullo sfondo, la macchina nera dai vetri oscurati che così tante volte in un’altra vita aveva significato guai.
« Vuole rapirmi di nuovo? »
« Sono lieto di trovarla in salute. »
John roteò gli occhi, scocciato. « Mi faccia il piacere. Scommetto che sono stato un sorvegliato speciale per tutti questi mesi. »
« Non sia sciocco John: dalla morte di mio fratello non mi risulta che lei abbia avuto a che fare con attività criminosa di alcun genere. Non avrei avuto il minimo interesse a sorvegliarla. Non io almeno. E proprio per questo oggi vengo come umile messaggero, niente di più. »
« M-messaggero? E di... chi? »
La portiera dalla macchina si aprì e uscì fuori Anthea – o come diavolo si chiamava – che, mantenendo gli occhi puntati sul suo immancabile Blackberry, porse a Mycroft un sacchetto di carta marrone. L’uomo lo prese e ringraziò la ragazza la quale, senza un’ulteriore parola, si infilò di nuovo nella vettura.
John era sempre più sconcertato.
« Da parte di mia madre, in verità » spiegò Mycroft Holmes con tono piatto, porgendo il sacchetto a John.
Quest’ultimo sollevò entrambe le sopracciglia e sgranò gli occhi.
« Prego? »
Mycroft sospirò come se la conversazione lo annoiasse a morte. « È un regalo. Per suo figlio. Oggi c’è stato il suo battesimo, no? E mia madre ha pensato di inviarle un regalo. »
John boccheggiò, senza accennare a prendere il pacchetto che l’uomo continuava a porgergli.
« Ma- ma io non ho mai conosciuto sua madre! » balbettò con voce sottile, di qualche nota più acuta del solito.
« Non ha importanza. Da tempo mia madre cercava un modo per ringraziarla di essere stato vicino a Sherlock per così tanto tempo. Si è sempre preoccupata molto per il suo essere così... solitario e quando seppe che lei era entrato nella sua vita ne fu molto felice. »
John avrebbe voluto dire qualcosa, qualcosa di intelligente e sagace, qualcosa come “fuori dai piedi! Lei e la sua maledetta famiglia mi avete già rovinato la vita abbastanza!”, ma l’unica cosa che seppe dire fu: « Capisco. »
Poi, del tutto indipendentemente dalla propria volontà, vide il proprio braccio allungarsi verso il sacchetto che Mycroft ancora gli porgeva e le proprie dita chiudersi attorno alla carta.
Sbirciò dentro e scorse un secondo pacchetto, rivestito di carta verde, con un bel nastro rosso ad ornarlo.
« Dubito che suo figlio sarà in grado di aprirlo, ma mia madre è sempre stata molto sentimentale e ligia alle consuetudini. »
John annuì, incapace di pensare razionalmente, incapace di credere che Mycroft e quella donna di cui mai Sherlock gli aveva fatto parola, a parte qualche vago accenno, avessero l’enorme faccia tosta di precipitarlo di nuovo nell’eterno vortice dei ricordi che disperatamente cercava di cancellare.
Avrebbe voluto lanciare quel pacchetto lontano da lui, in mezzo alla strada, cosicché il traffico lo portasse via, eliminandolo dalla faccia della terra, ma ciò che fece fu invece infilare una mano ed estrarre il regalo dalla sua protezione.
Sciolse il nastro e strappò la carta con le dita ferme che gli avevano permesso di uccidere più di un uomo in tutta la sua carriera di soldato e non solo.
Dal pacchetto uscì un orso di peluche.
« Mia madre ha provveduto a farlo lavare e renderlo sterile: è perfettamente sicuro, come se fosse uscito adesso dalla scatola. »
John passò le dita sulla peluria marrone e morbida del giocattolo: uno degli occhi di bottone era diverso dall’altro e l’imbottitura era fuoriuscita più volte e più volte la stoffa era stata ricucita.
« Era di Sherlock » disse, e non era una domanda.
Al di là del velo di lacrime che era andato a oscurargli lo sguardo vide Mycroft annuire. « L’unico giocattolo che non abbia mai utilizzato per uno dei suoi esperimenti. »
È troppo, pensò John, è troppo o troppo poco, non abbastanza, qualcosa di profondamente offensivo e dolce. Quell’oggetto che stringeva tra le dita era un ossimoro di pezza, proprio come Sherlock era stato un ossimoro vivente.
« È stato un piacere rivederla, John. »
Mycroft era già quasi salito in macchina quando John, o almeno la parte del suo cervello che ancora era connessa con la realtà e ricordava le buone maniere, quella parte tutta inglese in lui che mai si sarebbe spenta nonostante tutto il dolore, la solitudine, la mancanza e la malinconia che lo avevano appena avvolto come in un bozzolo di seta, disse: « Ringrazi sua madre, anche da parte di mia... di Mary. »
Mycroft lo fissò per un attimo, il volto aperto in uno dei suoi sorrisi privi di senso.
« Naturalmente. »
John rientrò in casa prima di vedere la macchina superare l’angolo della strada.
Gli tremavano le gambe e dovette mettersi a sedere sul secondo gradino della scale, boccheggiando.
Stringeva tra le dita qualcosa di talmente pesante che con tutta la buona volontà del mondo non sarebbe riuscito a portarlo in casa propria senza mettersi a piangere come un bambino.

***

Osserva la reazione di John con rabbia crescente.
Può vedere solo la nuca di suo fratello, ma quello che veramente gli interessa è il volto del suo migliore amico.
Come si è permesso Mycroft di fare quella cosa priva di senso logico?
Come si è permessa sua madre di anche solo pensare di avvicinarsi alla nuova vita di John?
Sta stringendo i pugni con così tanta forza che il sangue smette di fluire alle dita e per un po’ perde la sensibilità alle mani.
Rimane in piedi nell’ombra, davanti alla casa di John Watson e di Mary Morstan, incapace di fermare ciò che sta facendo del male a John.
Passano cinque minuti interi prima che Mycroft e la sua benedetta macchina scura si decidano a passarlo a prendere: John si è affacciato alla finestra due volte. La seconda con suo figlio in braccio.
La portiera si apre con uno scatto e lui salta dentro.
« Come è andata a Praga? »
« Sai benissimo come è andata a Praga, Mycroft. »
« Sei rimasto laggiù due mesi in più del previsto. »
Stringe i denti e tossisce, guarda avanti verso la nuca del guidatore, non rivolge nemmeno una volta lo sguardo verso il fratello. « Ho avuto le mie ragioni. »
« Mi hai chiesto di aiutarti, Sherlock, ma un aiuto del genere porta delle conseguenze. Se ti chiedo di tornare a Londra tu devi farlo. »
« Non sono il tuo galoppino. »
La voce è aspra, contrariata, sputa fuori le parole solo perché ne ha necessità, ma l’unica cosa che vorrebbe fare – e non per la prima volta nella propria vita – è tirare un pugno in piena faccia al fratello.
« La mamma è preoccupata per te. »
« Che vada al diavolo! » esplode con rabbia.
Mycroft scuote la testa e sospira. « Se fossi tornato quando ti ho chiesto di farlo non ci sarebbe stato bisogno di questo teatrino. »
« E adesso non fingere di esserti servito della mamma per i tuoi scopi: non sei così intelligente. »
Davanti a loro, nel sedile del passeggero, Anthea tossicchia.
« Ah, giusto! » fa Mycroft, come se si fosse appena ricordato qualcosa di importante, che invece è sempre stato ben presente nella sua mente. « Oggi siamo a cena da lei. »
Affonda ancora di più nel sedile e incrocia le braccia – Dio... vuole disperatamente una sigaretta – come un bambino imbronciato.
« Meraviglioso. »
« Cerca di essere gentile, Sherlock. »

La macchina si ferma in un quartiere rinomato del West End e Mycroft scende rapidamente.
« Muoviti Sherlock! »
Si china in avanti e scorge il minore ancora praticamente disteso sul sedile, le braccia incrociate sul petto e la testa rivolta verso il finestrino.
« Smettila di fare il bambino e scendi. »
Passa qualche altro secondo ma non c’è alcun modo di evitare quella tortura e lui apre lo sportello per scendere in modo indecoroso dall’auto, che riparte non appena i due fratelli hanno chiuso le rispettive portiere.
Il quartiere è silenzioso e quasi deserto, vista l’ora molto prossima alla cena, e i due salgono verso l’attico di un palazzo in stile post-moderno quasi passando inosservati.
« Avevo capito che non le piaceva vivere qui. »
« Ha cambiato idea » risponde Mycroft con una scrollata di spalle.
Rotea gli occhi, ben sapendo che quando sua madre cambia idea un motivo c’è sempre, e forse in quel caso ha a che fare con John.
Ma in che modo? E perché la mamma si sta immischiando in una storia che come unico protagonista avrebbe dovuto avere lui?
La porta dell’attico all’ultimo piano si apre prima che Mycroft abbia il tempo di suonare il campanello.
« Sei in ritardo di due mesi, Sherlock » sbotta sua madre con tono scocciato, ma immediatamente dopo il suo volto, ancora giovanile nonostante le rughe, si apre in un sorriso e la donna corre ad abbracciarlo.
Lui non risponde e si limita a rimanere immobile, come congelato sul posto.
« Sei arrabbiato con la tua mamma? » domanda allora lei con un broncio che se John fosse stato presente avrebbe immediatamente classificato come uno dei più tipici di Sherlock.
Vede Mycroft roteare gli occhi ed entrare in casa senza degnarli più di uno sguardo.
Si divincola dall’abbraccio soffocante di sua madre e segue il fratello: dei due mali, meglio scegliere il minore.
« Non tornavi più a casa tesoro, avevo bisogno di convincerti in qualche modo! » spiega lei chiudendosi la porta alle spalle e invitandoli con un gesto a sedersi e iniziare a gustare gli aperitivi già serviti sopra il basso tavolino di vetro nel centro dell’ampio salotto.
« È inutile mamma: non credo che abbia intenzione di rivolgere la parola a nessuno » spiega Mycroft, serafico.
« È così infantile, Sherlock! »
Lui cerca di dominarsi e non imita Mycroft, che si spoglia del cappotto e si siede prendendo un bicchiere di prosecco: rimane invece in piedi, con le mani strette dietro la schiena e le labbra serrate.
Sua madre, i suoi stessi occhi chiari, i suoi stessi capelli – un tempo scuri – arricciati in uno chignon alto sulla testa e un tailleur grigio fumo, lo guarda storta sedendosi a sua volta vicino al maggiore dei suoi figli.
Rimangono tutti e tre in silenzio per un lungo, lunghissimo momento, ma l’unico a non essere a proprio agio in quella situazione è proprio lui.
« Non fingere » dice infine, cedendo come aveva sempre ceduto alle silenziose occhiate deluse di sua madre, « di aver fatto tutto questo solo per farmi tornare a Londra, mamma. Un bieco ricatto non è affatto consono al tuo stile. »
« Sia lodato il cielo » dice Mycroft con un sogghigno. « Parla. »
Il cipiglio serio e compassato della mamma scompare, lasciando trasparire un’onda di soddisfazione. « Mi lusinghi, tesoro. »
« Perché? »
« Sherlock » inizia lei alzandosi in piedi e raggiungendolo. Fa per prendergli le mani, ma lui glielo impedisce. « Non conosci ancora niente dei sentimenti delle persone comuni, Sherlock. Lui ti dimenticherà se non sarai lì a ricordargli che hai fatto parte della sua vita. »
« No. »
« Credimi, tesoro. Ha già iniziato: si è costruito una famiglia, ha un figlio. Tu non fai più parte della sua vita. »
« È una cosa che riguarda solo me, mamma. »
« Non sai ancora come muoverti in questo campo. »
Ed eccola l’ultima goccia, quella che lo induce a guardare la donna negli occhi chiari come il cielo estivo, a fissarla con una freddezza e un disprezzo che davvero poche volte ha riservato a sua madre.
Fa un passo indietro e se ne va.
Nessuno dei due tenta di fermarlo.
Il campo dei sentimenti, quel sentiero inesplorato in cui mai si è avventurato e che John aveva solo iniziato a illustrargli, si sta srotolando davanti a lui, minaccioso.
Ma non può chiedere aiuto a John, questa volta, perché lui adesso fa parte proprio di quel campo minato che rischia di strappargli via parti di se stesso. L’unica cosa che può fare è aggrapparsi alle poche certezze che ancora fanno parte della sua vita.
La più importante di queste adesso è: “impedire che a John venga fatto del male”.
Se c’è una cosa che ha imparato in quell’anno e mezzo di convivenza con- anzi, meglio dire: se c’è qualcosa di cui finalmente ha capito il senso profondo in quell’anno e mezzo di convivenza con John Watson, è che le ferite fisiche fanno male fino ad un certo punto: è tutto il resto che ti schiaccia senza lasciarti respirare.

***

« Finalmente si è addormentato. »
Mary gli lanciò uno sguardo stanco, sfinito, dalla posizione raggomitolata – come un gatto assonnato – che aveva adottato sul divano. « Credevo che sarebbe crollato ore fa: è stata una giornata sfibrante eppure quella piccola peste sembra indistruttibile. »
John annuì, con la testa da un’altra parte, la mente confusa e rutilante di informazioni inutili.
Si sedette accanto a lei, passandole automaticamente il braccio dietro la testa e facendola appoggiare alla sua spalla.
« John... » esordì lei dopo qualche minuto di rilassante silenzio. « Sei certo di sentirti bene? »
Potrei mentirti, Mary, potrei farlo sul serio.
« No, non completamente... »
« È per via di quel giocattolo? Ti hanno colto di sorpresa, lo so... ma sono stati molto carini a pensare ad una cosa del genere. »
John scosse piano la testa. Non poteva vedere il volto della sua ragazza, ma lo conosceva talmente bene che gli bastava chiudere gli occhi per immaginare la sua espressione confusa.
Mary non era in grado di capire.
« Loro- lui... è una famiglia particolare. Non credo che abbiano mai fatto niente senza un secondo fine... io- »
Lei si mosse piano tra le sue braccia fino a voltarsi e poterlo guardare in volto.
« John, Sherlock Holmes è morto, ha lasciato un fratello e una madre. Non puoi dirmi che di fronte alla perdita che hanno subito siano disposti a regalare a tuo figlio uno dei giocattoli che appartenevano a Sherlock tutto per un secondo fine! » fece una pausa in cui scrutò con apprensione le sopracciglia aggrottate dell’uomo davanti a sé, poi aggiunse con un filo di voce e la certezza negli occhi: « Non è umano, John. »
John osservò con affetto il volto fiducioso di Mary: come poteva quella donna, che aveva studiato come giornalista, che era stata così crudelmente presa in giro dalla vita – prima di trovare lui, certo – essere allo stesso tempo così priva di cinismo e di dubbi o incertezze riguardo alle persone con cui si trovava ad avere a che fare?
E come poteva lui, John, esserne così colmo, di dubbi e incertezze, colmo fino a scoppiare?
Il fatto era che non riusciva a pensare a Mycroft o alla fantomatica madre di Sherlock come a persone capaci di fare qualcosa in modo disinteressato. Sherlock non aveva mai fatto niente in modo disinteressato e a John era sempre andata bene così. Ma adesso...
« John... » continuò Mary accoccolandosi di nuovo vicino a lui. « Non- Non te l’ho mai detto e... forse non dovrei nemmeno dirtelo. Ma non posso tenermi dentro quello che penso, non con te almeno. »
John sbatté le palpebre e percepì il proprio cuore aumentare i battiti.
Era una sensazione molto simile a quando un bambino sa di aver fatto una marachella che di certo la mamma scoprirà.
Solo che John non aveva fatto niente. Non ancora, almeno.
« Quando mi hai chiesto di andare a vivere insieme io ho- ho pensato di lasciarti. »
John bloccò il corso dei suoi pensieri, allibito: si era aspettato qualcosa di molto, molto diverso.
« Cosa? »
« Non prendertela, tesoro, ti prego. Devi ammettere che è strano che un uomo accetti di passare il resto della propria vita con una donna che ha avuto un bambino da un altro, un altro che nemmeno conosce. In effetti sono sempre rimasta stupita: non mi hai mai detto che cosa pensassi di me per aver scelto di non interrompere la gravidanza, o per essere stata così sciocca da rimanere incinta, o in generale che cosa trovassi in me per voler- »
John le avrebbe volentieri impedito di continuare quel discorso baciandola, ma la posizione glielo impediva, così si limitò a posarle due dita sulle labbra.
« Perché dici queste cose? Io ti amo. »
Ci fu qualche attimo di silenzio, poi Mary, la voce come un soffio di libellula, quasi impercettibile, disse: « Non me lo hai mai detto. »
« Come? »
« Non mi hai mai detto “ti amo”. Fino ad ora, mai, nemmeno quando facciamo l’amore. »
John deglutì, sentendosi scoperto, diviso in due, incapace di essere davvero partecipe di quella conversazione, come se in un certo senso fosse lontano anni luce e stesse osservando quelle due persone sedute su un divano, persone che avrebbero dovuto essere felici, ma tra le quali c’era una barriera, un vetro sottile e quasi impalpabile.
« Mary, io non- io credevo che fosse... »
« Sottinteso? John, come puoi pensare che una cosa del genere possa essere sottintesa? »
Adesso non penserai a Sherlock, non permetterai ai tuoi pensieri di intrufolarsi nella zona-Sherlock.
« Hai ragione, Mary... sono stato un idiota. Avrei dovuto dirtelo ogni giorno da quando ci siamo conosciuti. »
La ragazza allora si voltò a guardarlo e John si accorse che aveva il volto rigato di lacrime silenziose, ma adesso sorrideva.
Si baciarono su quel divano e John sperò davvero con tutto se stesso di essere in grado di meritarsi una ragazza come quella. Sperò che le cose andassero al loro posto da sole, per una volta, e che quello spettro di vita passata se ne andasse per sempre dalla sua visuale.

***

Messaggi: Ricevuti.

12 Marzo 2013, 23:54, da: Molly Hooper.
Tuo fratello mi ha detto che sei partito di nuovo.
Fai attenzione.

13 Marzo 2013, 10:04, da: Mycroft Holmes
Il nome che cerchi è Wilfred W. Nielsen
Buona fortuna.
P.s. la M. avverte di un brusco calo delle temperature nella zona in cui ti trovi. Indossa il maglione pesante.
MH

15 Marzo 2013, 12:02, da: Mycroft Holmes
Rispondi al telefono.
MH

19 Marzo 2013, 20:47, da: Mycroft Holmes
Sto perdendo la pazienza.
MH

22 Marzo 2013, 06:02, da: Mycroft Holmes
Tutto ciò è estremamente infantile, Sherlock.
Torna in Inghilterra prima di rovinare tutto.
MH

22 Marzo 2013, 23:46, da: Mycroft Holmes
Sherlock, sono tua madre. Smettila immediatamente con questa sciocca fissazione e torna subito a casa. Sai come la penso. Non ho intenzione di attraversare mezza Europa solo per te.
Torna. A. Casa.

Messaggi: Inviati.

25 Marzo 2013, 22:03, a: Molly Hooper.
Se necessario contattami dove sai.
Occupati di lui.
SH

Sim N°1 disattivata.
Attivazione Sim N°2 in corso.
Sim N°2 attivata.

Messaggi: Ricevuti.

28 Novembre 2011, 03:22, da: John Watson.
Sherlock.

28 Novembre 2011, 03:25, da: John Watson.
Ti prego, Sherlock.

28 Novembre 2011, 03:26, da: John Watson.
Rispondimi.

15 Dicembre 2011, 20:18, da: John Watson.
Harriet è più insopportabile di te.

15 Dicembre 2011, 20:24, da: John Watson.
Se la mia terapista sapesse che ti sto scrivendo ancora non direbbe che ho fatto così tanti progressi.

03 Gennaio 2012, 14:04, da: John Watson.
Oggi sono andato a prendere il tuo teschio.
Sembra che la sua nuova sistemazione gli piaccia.

03 Gennaio 2012, 15:20, da: John Watson.
Mi manchi e dovrei decisamente smettere di scrivere ad un cellulare senza più proprietario.

06 Marzo 2012, 12.00, da: John Watson.
Oggi ho ricominciato a lavorare.
Tutti mi guardano con pietà e posso assicurarti che non è piacevole.

15 Marzo 2012, 21.32, da: John Watson.
Sto uscendo con una ragazza, si chiama Mary...
Forse lei è l’unica donna al mondo (a parte Molly) che sarebbe stata in grado di sopportarti.
Mi sarebbe piaciuto presentartela.
A volte mi sento talmente solo che scriverti mi aiuta, per un po’.

18 Giugno 2012, 10.04, da: John Watson.
Le cose vanno bene.

20 Luglio 2012, 13.08, da: John Watson.
Le cose vanno bene.

06 Ottobre 2012, 15:49, da: John Watson.
Le cose vanno bene.

28 Novembre 2012, 03:21, da: John Watson.
Le cose vanno bene.
Tra poco sarò padre.

15 Febbraio 2013, 02:25, da: John Watson.
Sonata n°2 in LA minore.
Perché sei ancora qui?

Bozze:

19 Febbraio 2013, 02:31, a: John Watson.
Me ne vado, John.
SH

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Il messaggio è stato cancellato.
Sim n°2 disattivata.

 

 

Note:
Prima di tutto... grazie a tutti per il caloroso benvenuto che avete dato alla mia fic. A volte dimentico quanto questo fandom sia bello e amorevole.

Poi, un minuto di silenzio per la notizia che ha sconvolto il suddetto fandom, ovvero il fatto che dovremo aspettare fine 2013/inizio 2014 per la terza serie. *piange in un angolo*
Infine, un appunto sullo stile della storia: come avrete notato si ha costantemente un brusco cambio nei tempi verbali, ovvero quando il POV è quello di Sherlock ho scelto il presente, quando il POV è quello di John (e di tutti i restanti personaggi) ho scelto il passato remoto.
Il motivo è semplice: Sherlock è un osservatore, John è un narratore, il primo vive radicato nel suo presente, il secondo cerca di districarsi dal suo passato.
E se il risultato è parecchio straniante... be’, la cosa è voluta. XD
A martedì! <3

  
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