Da poco si è conclusa la
giornata internazionale della lotta contro la violenza sulle donne.
Un tema sempre troppo attuale,
purtroppo.
Parlarne quindi è sempre un bene. E
nella speranza che la violenza famigliare
diminuisca e che le pene verso chi si macchia di simili atrocità, siano
sempre
maggiori, dedico questo mia breve narrazione a tutte le Donne.
Innocenti Rose
Bianche
L'INGRANAGGIO IMPAZZITO
Il cielo plumbeo
invadeva la città e il freddo vento attanagliava nella sua spietata
morsa.
Era una giornata invernale come tante altre.
Il brusio del clacson in lontananza risuonava nell’aria.
Suo padre era a casa con lei.
Proprio come quella volta.
Non c’era nulla di cui preoccuparsi.
Voleva solo riposarsi.
Era stressato.
Era un uomo segnato dalla vita.
Quella volta, forse, era stata in parte colpa sua.
Le aveva risposto in malo modo, suscitando quella sua reazione.
Non era un padre cattivo, non lo era mai stato.
Non quando era bambina.
Sulla sua pelle le cicatrici di quel giorno erano solo
un ricordo lontano, seppur fossero ancora vivide nella
sua mente. – Aveva sbagliato lei.
I figli sbagliano sempre.
«Papà, avevo appena finito di riordinare! » lo riprese con fare
annoiato e
vagamente seccato. «Dovresti imparare a mettere i piatti sporchi nel
lavabo.
Sai che la mamma, poi si arrabbia.» aggiunse con pacatezza.
Era solo una discussione banale.
Senza rabbia e rancori.
Una normale disputa fra figli e genitori.
Nulla di più.
Eppure, senza un motivo, si ritrovò la figura di suo
padre, visibilmente adirato, a soli pochi centimetri dal
suo viso.
E senza che questi fiatò, le prese i polsi fra le mani e li strinse con
forza,
facendole male. E dopo qualche istante, trascorso in un silenzio quasi
surreale, percepì un dolore crescente invaderle il corpo.
Le sue mani stringevano e schiaffeggiavano la sua
candida
pelle, lasciandole intense macchie rossastre.
Faceva male.
Molto male.
Senza rendersene conto, tentando di divincolarsi dalla stretta delle
sue
vigorose mani, nettamente più grandi delle sue, si ritrovò a sbattere
la testa
sul divano del salotto sovrastata dalla figura di suo padre.
Di un padre furibondo.
Era stata sciocca – lo sapeva – non avrebbe dovuto
provocarlo
in quei giorni di forte stress.
Il dolore aumentava di secondo in secondo. Si sentiva bruciare, la
carne le
doleva profondamente.
«Perdonami. Ho sbagliato.» ammise fra le lacrime, trattenendo
l’ennesimo gemito
di dolore.
Non era cattivo. Suo padre non era cattivo. Era solamente molto
stanco.
A niente era valsa la
sua preghiera, aveva svegliato la
bestia dormiente, doveva subire
senza dir nulla. Le gambe le facevano un gran male. I colpi dei
suoi pugni
erano come lame acuminate che laceravano la sua debole carne.
Con le braccia cercava di farsi scudo, respingendo gli attacchi in
direzione
del suo volto.
Si sentiva come una preda nelle mani di un predatore.
E per quanto cercasse di proteggersi, rannicchiandosi su se stessa,
quella
figura che violentemente l’attaccava, era cento, mille volte più forte
di lei.
D’improvviso si sentì indifesa come una bambina e tremò soggiogata
dalla paura.
Non lo aveva mai visto così.
Colui che la picchiava con tanta ferocia, era davvero la stessa
persona che
chiamava “papà”?
La stessa che in tutti quegli anni aveva segretamente ammirato?
La stessa con la quale giocava quando aveva appena quattro anni?
E in quel momento, una
fredda e triste consapevolezza varcò le porte della sua mente:
In questo
stato, una
persona riuscirebbe ad ucciderne un’altra?
«Papà, arriveresti sino ad uccidermi?»
Un pensiero folle.
Folle come lo era quella terribile punizione.
Possibile che un gentile padre di famiglia, potesse arrivare ad
uccidere la
propria amata figliola?
No, quello era del tutto improbabile. Impossibile.
Eppure, per uno scherzo del destino, sua figlia si mise a credere a
quella
verità che gli mostrarono gli occhi.
Lei era lì, totalmente inerme, schiacciata dalla violenza di suo padre.
E per un breve istante la paura raggiunse il suo picco massimo, e
scongiurando
con tutta se stessa per la sua salvezza, morse avidamente la carne dura
del
pollice di quella mano gigante. Chiuse gli occhi, soffocando le lacrime
che
avevano preso a sgorgare senza ritegno e quando lì riaprì trovò il
modo e
la forza necessaria per divincolarsi e alzarsi.
Con velocità agguantò la propria borsa davanti all’uscio e se ne andò
da quella
casa, correndo più forte che le sue gambe doloranti
potessero.
Corse a per di fiato per le vie delle città consapevole che mai più
avrebbe
rimesso piede in quella casa. Non finché quella figura oscura si
sarebbe
impossessata di suo padre.
Perché quello non era suo padre. Ne era sicura. – E dopo minuti
interminabili spesi a correre e soprattutto a scappare, con
l’adrenalina in
cuore, si rifugiò a casa della sua migliore amica. L’unica persona che
avrebbe
potuto sorreggerla in una sua probabile quanto normale crisi di pianto.
Pianse così tanto da sentirsi svuotata.
Le braccia dell’amica l’attorniarono dolcemente, cullandola contro il
suo
prosperoso seno.
Inondandola di calore.
Era scappata senza dar spiegazioni, aveva pregato il cielo per non morire in
quel modo – picchiata dal padre – ma adesso, cosa avrebbe fatto?
Con un gesto spontaneo, estrasse dalla borsa il suo cellulare e chiamò
il primo
numero dell’agenda.
«Ciao tesoro, è successo qualcosa?» domandò la voce rassicurante
dall’altra
parte del telefono. E dopo qualche istante di smarrimento, intimorita
da quello
che sarebbe accaduto poi, prese a parlare.
«Mamma, devo parlarti.»
Glielo avrebbe confessato. Era stata quella la sua
decisione.
Cosciente che le sue parole avrebbero spezzato l’armonia famigliare, ed
intaccato in maniera pesante il rapporto fra i suoi genitori.
Non poteva stare zitta.
Non stavolta.
Quel dolce rapporto con suo padre era già stato spezzato tempo
addietro.
Niente sarebbe tornato come prima, lo aveva sempre saputo.
Il giorno che suo padre s’avventò su di lei picchiandola con la cinta
dei
pantaloni, era stato l’inizio di quell’incubo. La fine di quel dolce
sogno
durato diciassette anni.
Quell’uomo ormai non era
più suo padre.