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Autore: Ronnie02    28/11/2012    2 recensioni
(Sequel "One Day Maybe We'll Meet Again)
Ormai le famiglie dei nostri pazzi marziani sono stabilite e la normalità regna nella loro vita. Tra famiglia, album e concerti, però Jeremy, come l'ultima volta, si ritrova a sfogliare un vecchio album fotografico. Cosa scoprirà attraverso quelle foto? Che ricordi nascondo quegli scatti?
*slide of life della storia principale*
Genere: Romantico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jared Leto, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'One Day Maybe We'll Meet Again'
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Ok vediamo se riuscite a capire questi due ricordi. Sono estremamente importanti per me, soprattutto il secondo (che è anche importante per la storia in generale :D)
1. scusate per il ritardo ma ieri mi sono addormentata due volte in classe, una volta sul pullman, una volta mentre studiavo e appena sono riuscita a liberarmi ho dormito xD La scuola mi uccide, SALVATEMI!
2. ora sono qui quindi eccovi il capitolo
Spero vi piaccia.
Buona lettura




Chapter 9. I know who I am




 
I surrender.
Questa frase ormai era diventata la mia fissa ed era orribile, davvero. Come riuscissi ad andare avanti ancora come un tempo non lo sapevo; era come vivere in un’altra persona, di cui non sai nulla, e magari nemmeno ti importa.
Forse l’unica cosa che mi spingeva a vivere era quello che tutti definivano amore. Ma amore per chi?
Per la vita? No. Per la mia famiglia? Non era vero. Per  Colin?
Non che non l’amassi, anzi. Quando mia sorella mi aveva fatto visita l’ultima volta, le avevo detto che mi sarebbe tanto piaciuto sposarlo.
Ma non era affatto la pura verità: sognavo davvero di vestirmi di bianco, tutto pizzi e lustrini e camminare verso di lui, bello come il sole in smoking.
Però era solo uno degli innumerevoli modi di accontentare tutti gli altri tranne che me stessa. Io in realtà stavo morendo pian piano, giorno dopo giorno, marcendo nell’anima e guandando gli altri riuscire in tutto ciò che desideravano, al contrario mio.
Io che stavo qui a fare?
“Hey baby”, mi chiamò Colin, capendo che ero sveglia. Si avvicinò tra le coperte bianche e sentii il suo corpo caldo schiacciarsi contro il mio.
Mi strinsi alle lenzuola, come se fossero il mio unico appiglio, e chiusi gli occhi tanto fortemente da farmi male. Lui non doveva scendere nel baratro con me; lui era bravo, talentuoso, si sarebbe di certo fatto una bella vita come tutti. Non potevo trascinarlo nel buio.
“Hey”, cercai di dire con voce strozzata. Inutile che continuassi a fingere, sapevo da come si comportava che qualcosa l’aveva già intuito. Ma questo non cambiava le cose.
“Come stai oggi? Ti va di uscire un po’?”, mi chiese cercando di farmi stare meglio, come ogni giorno.
“C’è brutto tempo”, dissi senza nemmeno controllare fuori dalla finestra. Ma intendevo davvero parlare di questo?
“Fuori o dentro la tua testa?”, indovinò lui, facendomi capire che sapeva più di quanto avrebbe dovuto. Cercò di stringermi ancora di più contro di lui, in un caldo abbraccio, ma mi divincolai per restare libera e riuscire a respirare.
Era da un po’ che toccarci era diventata una rarità. Sentirlo vicino mi faceva piacere, mi risollevava l’animo, ma appena sentivo le sue mani cercare il mio corpo i brividi cominciavano ad impossessarsi della mia pelle e della mia mente.
Stavo dimagrendo a vista d’occhio, farmi toccare e fargli sentire con evidenza cosa stavo diventando era come ammettere di avere un problema. Un problema che ero convinta di non avere.
“Non c’è niente che non vada nella mia testa”, ribattei convinta girandomi sul suo lato, lontana qualche centimetro. Vidi i suoi occhi scuri cercare una risposta veritiera nei miei, altrettanto marroni, ma nessuna risposta degna della sua attenzione.
“Io invece non la penso così. Almeno da quando tua sorella ha deciso di trasferirsi di nuovo da Veronica”, mi ricordò e io mi rabbuiai, allontanandomi ancora e guardandolo bieca. Non avrebbe dovuto dirlo, era una brutta mossa da parte sua. Il discorso di mia sorella e dalla sua amica non doveva essere portato a galla. Mai.
“Non è vero!”.
“Ammettilo Lucy, sei gelosa marcia perché ha una vita più avvincente della tua”, disse cercando di non avere un tono troppo perfido. Poi continuò, più dolce. “Ma non è vero! Ha solo vissuto in posti diversi, non c’è questa grande differenza tra voi”.
“Lei ha viaggiato, mentre io sono sempre stata rinchiusa qui. Ecco la differenza!”, dissi sprezzante come un tempo, anche se me ne pentii un secondo dopo, vedendo il suo volto intristirsi e i suoi occhi abbassarsi a causa di un insulto non voluto.
“Non credevo di averti obbligata a rinchiuderti quando accettasti la mia proposta di venire a vivere insieme a me”, mi lasciò vuota dentro, evitandomi con i suoi occhi abbassati.
Ad un tratto sospirò e si staccò completamente da me, mettendosi seduto e guardando il probabile sole fuori dalla finestra.
Orribile sole: lo odiavo. Era solo una stupida palla di fuoco che ispirava troppa felicità.
“Credi che ti deciderai mai ad uscire da questa casa?”, mi domandò di punto in bianco, dopo almeno cinque minuti di silenzio da parte di entrambi, in cui si limitò a non guardarmi. Fissava il vuoto, sulla finestra, senza dare segno di qualsiasi emozione.
E io? Cosa provavo in quel momento?
Avrei voluto alzarmi dal letto, guardare insieme il sole e chiedergli di uscire ancora, per poi assicurargli che tutto sarebbe andato bene e che volevo migliorare.
Ma poi ripensai alla sua domanda: volevo uscire da quella casa?
“Non lo so…”, sussurrai. Abbassai gli occhi sulle coperte, quelle coperte che raramente abbandonavo. Uscivo dal letto solo per mangiare e andare in bagno, oppure mi mettevo seduta sul divano, impassibile, facendo finta di leggere un libro.
Odiavo leggere: tutti i personaggi, alla fine, sebbene fossero anche i più sfigati del mondo, trovavano la speranza, la forza e soprattutto la fortuna per andare avanti e avere il loro lieto fine.
Leggere era peggio che vedere il mondo andare avanti felice, al contrario mio, perché perfino le persone inventate avevano più fortuna di me.
“Io non ti lascerò per una stupida depressione, Lucy”, cominciò di nuovo Colin, girandosi e guardandomi seduta sul letto, attaccata alle lenzuola.
“Non sono depressa”, commentai, ma lui non mi sentii nemmeno, o forse non volle farlo.
“Ma tu non sei la ragazza di cui mi sono innamorato perdutamente anni fa e per cui ho lottato, anche nel vero senso della parola”, continuò, ricordandomi quel ballo di Halloween della cittadina finito a botte tra Colin, Brad e per un momento anche dal ragazzo dell’amica di Vicky. Lo capivo, ma non riuscivo a farci nulla. “Lo sai? Mi manca quella ragazza, anche perché stravedevo per lei, era il mio tutto. Era divertente, rompiscatole e parecchio maliziosa. Però con me era tanto dolce e amorevole, sebbene gli stupidi anni che ci separavano”.
“Sono ancora qui”, piagnucolai. Anche a me mancava la vera me stessa, quella ragazza che lui amava tanto e che dal sentirlo parlare sembrava scomparsa. Mi ritrovai ad essere gelosa marcia della ragazza che descriveva, tanto vivevo come un’altra persona.
“No, non del tutto, Lucy. Quella ragazza c’è ancora, so che c’è, dentro di te, ma non le permetti mai di portarla da me. La rinchiudi, la soffochi e la uccidi sotto il tuo insensato dolore e non la fai mai vivere al posto di quella te che ora ti sta portando nel buio”, mi spiegò. Avrei dovuto capirlo prima che lui ormai ci era arrivato, ed ora era oltre l’ovvio.
“Prima hai detto che non mi avresti lasciato”, ricordai cercando di trattenere le lacrime.
“Infatti voglio portarti da uno specialista. Mia madre conosce questo tipo che…”.
“Chi? Specialista?! Toglitelo dalla mente, Colin! E poi che vuoi dire? Hai spifferato a tua madre che… che non sto bene da un po’ di tempo?!”, urlai scioccata. Come si era permesso di farlo?
“Tu sei malata, Lucy, non è che non stai bene! E non è da un po’ di tempo, ma da quasi due anni, e lo sai benissimo”, cercò di farmi ragionare. “Sei depressa e lo capisco, quindi cerca di aiutarmi. Possiamo farcela insieme, non devi tenerti tutto dentro”.
Non potevo crederci, come poteva dire certe cose?!
Ero scioccata, scuotevo la testa a scatti e mi guardavo intorno, cercando di fare qualcosa. Così mi alzai e cominciai a vestirmi, mentre lui mi guardava stupito.
“Io… non sono… malata. Io… io…”.
“Tu lo sei, invece, ed è per questo che non sai come ribattere. Capisci che ho pienamente ragione”, disse venendomi incontro. Oh, Colin, perché mi sento così morta dentro da non sentirmi nemmeno alla tua altezza?
“No, smettila!”, urlai impazzita ancora una volta.
“Lucy, può succedere. Guarirai e staremo tutti meglio”, mi sussurrò piano per calmarmi, ma appena provò ad abbracciami scoppiai.
“No. No, Colin, no”, dissi voltandomi di scatto per prendere una valigia e infilarci dentro tutto ciò che trovavo nel mio armadio.
“E ora che fai?”, mi chiese cercando di fermarmi. Ma più le sue mani toccavano le mie, più andavo svelta, comandata da una stupida paura.
“Vado a casa, Colin”, sussurrai. “Ho bisogno di spazio per respirare”.
Gli presi veloce il viso e, senza provare a scappare, gli diedi una bacio veloce, piangendo. Mi dispiace Colin, davvero.
 
“Non sapevo che zia Vicky avesse una sorella”, dissi curioso.
Mia madre stava toccando una foto di tanto tempo prima, dove lei e Vicky, entrambe sui vent’anni o meno, stavano festeggiando Halloween. Dietro di loro, con un ragazzone che sembrava quasi un armadio, c’era la ragazza di cui mamma aveva deciso di parlarmi.
“Non vuole farsi vedere molto. Ma ora sta bene e ha un bimbo di cinque anni che è una meraviglia”, mi rivelò sorridendo.
“Con Colin?”, chiesi io.
“No, lui si è sposato due anni dopo di me e tuo padre con la ragazza che ha conosciuto dopo Lucy, ma non l’ho più sentito dal matrimonio”, mi rispose ambigua, lasciando cadere il discorso.
“Quindi che successe alla sorella di zia Vicky?”, domandai sempre più curioso.
“Arrivò per il momento in cui ritornarono a splendere i raggi del Sole”, sorrise. Ed ero certo che intendesse ripetere il titolo del suo vecchio secondo album, Sunshine.
 
‘I surrender’ormai era solo un ricordo. Chiusi gli occhi e respirai forte, prendendo più aria possibile da trasmettere ai miei polmoni.
Tre… due… uno…
Aprii gli occhi di nuovo e guardai davanti a me. La strada asfaltata mi circondava, con i suoi marciapiedi e qualche alberello intorno per renderla più sana.
Wow, stavo davvero camminando il giro per Bossier City! Erano passati almeno cinque anni da quando l’avevo fatto per l’ultima volta. Cinque anni da quando ero entrata, distrutta e anoressica, in quello stupidissimo centro di recupero che, in fondo, mi aveva aiutato a salvarmi. Ma ora ero uscita.
Respirai di nuovo.
Oh, era un giorno di sole, un bellissimo sole caldo che trapassava la mia pelle più resistente e il mio corpo quasi normale per arrivare fino alle fragili ossa. Era bellissimo.
“Tesoro mio!”, urlò mia madre vedendomi davanti alla macchina. Macchina… avevano cambiato auto in questi anni per caso?!
Sorrisi e corsi ad abbracciarla. Ronnie aveva ragione, totalmente ragione: c’era sempre qualcosa o qualcuno per cui lottare.
“Oh tesoro”, mi disse mio padre sorridendomi e aspettando il suo turno per stringermi forte. Ma mancava qualcuno…
“Vicky?”, chiesi senza pensare. Forse aveva impegni, o doveva tenere a bada la sua famiglia…
“Non è potuta venire, ma dice che ti manda un superabbraccio e il regalo che c’è in macchina”, mi fece l’occhiolino mia madre. Allora non si era dimenticata di me. E regalo? …che aveva fatto quella pazza di mia sorella?
Lasciai che entrambi mi avessero stretto abbastanza e poi salimmo tutti in auto per tornare a casa. Casa mia, quella vera, quella che non vedevo da almeno sette anni, quella che mi era mancata da morire.
Mi sedetti e di fianco a me, sui sedili posteriori, c’era un album fotografico e un biglietto.
Bentornata alla vita!, diceva l’evidente scrittura di Vicky, con la sua firma e quella di tutti i suoi amici. Vicino ai nomi di mia sorella e Tomo c’erano due manine verdi, nominate Astrid e Liam. Avevano avuto un secondo figlio? Oppure quella pazza aveva sfornato due gemelli?
Invece sotto le firme di Ronnie e Jared c’era una sola manina blu, che portava il nome di Jeremy. Dopo di loro le firme di Shannon e una certa Andy, senza nessuna manina in giro.
Sorrisi e rimisi il biglietto al suo posto, prendendo in mano l’album mentre mio padre sfrecciava per le vie di Bossier City.
La prima foto era di Vicky che mi faceva la linguaccia, con gli occhi storti e i palmi aperti di fianco alle orecchie. Scoppiai a ridere. Di fianco a Vicky c’era poi Ronnie con una faccia da te l’avevo detto, che mi salutava con la mano, sorridendo. Sotto di loro, sulla carta, la scritta ‘You find the reason’.
Dopo la prima c’era una montagna di foto, tutte di loro insieme oppure singole: Vicky appena sveglia, Tomo che suona la chitarra, entrambi con i loro figli mentre cercano di farli mangiare (erano identici quindi dovevano essere gemelli), i piccoli che giocavano. Oppure i concerti di Ronnie, quelli dei Mars, alcuni Meet&Greet, Ronnie che gioca con un bimbo e un gattino marroncino, color sabbia, Jared che fa l’idiota con Shannon. E ancora Vicky, Ronnie e una ragazza (la stessa Andy del biglietto) che scherzano, Ronnie e Andy che si abbracciano, Shannon che bacia la ragazza e lui infradiciato nella piscina della loro casa. Foto dei bambini, delle due gravidanze, dei matrimoni…
Era un album così perfetto che arrivati a casa, dovetti chiudere gli occhi e trattenere le lacrime. Me lo strinsi contro e uscii dall’auto.
Ciao casa. Lucy è tornata, sei contenta? Hai visto che bel regalo? Vicky è pazza….
 
Controllai la prima foto dell’album che stavo sfogliando e che avevo preso quel pomeriggio per guardarlo con tutta la famiglia. Le smorfie di zia Vicky e la faccia di mia madre abbellivano la scritta ‘You find the reason’.
“Non l’ha tenuto?”, chiesi scioccato.
“L’ha fatto per parecchi anni, ma poi decise di riconsegnarcelo. Voleva che fosse un regalo anche per voi e ormai lei aveva visto quelle foto così tante volte da averle impresse nella sua mente”, mi spiegò Vicky con un sorriso, magari pensando a sua sorella.
“Tornò mai in clinica?”, domandai.
“No, rimase sempre sana”, rispose fiera. “Ricominciò a studiare e incontrò Dan, suo marito e padre del suo bimbo. Stanno ancora  a Bossier City, perché in fondo quella è la sua vera casa”.
“Il perfetto lieto fine”, sussurrai.
“Così sembra”, sorrise lei coccolando quella stupida gatta di Sandy. Un piccolo ciuffo scuro le cadde sugli occhi e un  gran sorriso si stampò sul suo viso.
 
Seduta sul letto stavo per cadere nel vuoto. Di nuovo.
La musica mi riempiva il cervello così violentemente che prima o poi sia lo stereo che la mia testa sarebbe scoppiata. La mia mano si chiuse a pugno e mi impedivano di fare pazzie mentre mia madre, per l’ennesima volta litigava con mio padre.
Urla che superavano lo stereo, già al massimo, e che ovviamente tutto il vicinato avrebbe sentito, ingombrarono la mia testa.
Ma i vicini sentivano le vere parole, per lo meno, i veri insulti che si lanciavano tra di loro come se si odiassero da una vita. Io invece ero costretta a impazzire, sentendo quei toni vocali cambiare e diventare pian piano sussurri maniacali che dicevano il mio nome, accompagnato a orribili accuse.
Avevo spento il telefono. L’avevo nascosto. Mi ero fottuta il cervello con la musica talmente alta per ore che avevo dimenticato dove l’avevo messo.
Missione considerata compiuta.
Non potevo permettere a me stessa di contattare nessuno. Nemmeno Andy o Marco.
Dovevo proteggerli, quindi dovevo occuparmene io. Da sola. Come sempre.
Un attimo di vuoto, cambio della canzone. Un tintinnio di pianoforte cominciò a crescere dentro le casse del mio stereo che chiedeva pietà da quanto era alto il volume.
Riconobbi subito la canzone e sapevo l’effetto che aveva su di me in questi momenti.
Il tintinnio continuò a diventare sempre più potente, fino a che arrivarono le chitarre elettriche e la batteria a tenergli compagnia. Il mio cuore scoppiò a ritmo della musica e il respiro si fece affannoso.
L’apatia conquistata con tanta fatica nelle ultime due ore si andò a benedire e, senza rendermene conto, ero in piedi.
Non ero una debole, ero cattiva e sapevo quale sarebbe stato il prezzo da pagare per questo.
Mi mossi a tempo di batteria, come se l’orologio andasse a tempo della musica e il resto fosse al rallentatore. Andai verso la porta, presi la maniglia in mano e cominciai piano ad aprirla.
Farlo avrebbe scatenato la guerra. E io ero pronta ad essere chiamata alle armi. Non potevano continuare così, ne avevo sentite troppe e quelle voci che cambiavano mi stavano facendo diventare matta. Sarei andata in battaglia.
“Finitela!”, urlai uscendo dalla mia camera. Ero arrabbiata, delusa, sfinita. Volevo smetterla con questa storia.
 
“Vedrai che tutto andrà per il meglio”, mi disse mia nonna dopo qualche giorno dal mio trasferimento. Ero stesa sul letto a guardare il soffitto marrone a cassoni della mia nuova stanza.
“Troppa gente me l’ha promesso”, risposi evitando di guardarla. Sapevo che era di fianco a me, seduta sulle coperte e mi guardava compassionevole. Ma non riuscivo a voltarmi per ricambiare lo sguardo.
“Cosa ci faceva qui papà quando sono arrivata?”, mi venne di nuovo in mente.
“Mi parlava del divorzio e del trasferimento. Quando tu cambierai casa a tua volta – perché tutti sappiamo che accadrà – vorrebbe che cambiassi casa per stare con lui”, mi spiegò.
“Addirittura”, commentai ironica.
“E’ mio figlio”, si giustificò, segno che avrebbe fatto ciò che mio padre le chiedeva.
“Ed è anche mio padre, ma nessuno dice che lo perdonerò per quello che entrambi mi hanno fatto”, risposi apatica.
“E lui non si aspetta che tu lo faccia”, mi sorprese. Mi misi seduta e alzai un sopracciglio. “Ha detto che se vorrai sparirà dalla tua vita e attenderà che tu sia pronta”.
“Allora puoi digli che può scomparire”, risposi di botto, senza nemmeno prendere in considerazione la cosa.
“Tra qualche anno non la penserai così”, mi disse dolce, cercando di farmi cambiare idea.
“Vedrai che tra qualche anno la penserò allo stesso modo”, risposi guardandola alzarsi e sorridere come per scusarsi. E scusarsi di che? Lei era l’unica persona sana in quella famiglia di matti, me compresa.
“Nonna”, la richiamai un secondo prima che uscisse dalla mia nuova stanza.
“Sì, tesoro?”, mi chiese voltandosi.
“Tu pensi che io sia…”, cominciai, ma poi un ricordò mi fermò. Io, ferma sul letto, che giuravo a me stessa di farcela da sola. “Che io sia in grado di perdonare i miei?”.
Sapevo la risposta alla mia domanda, perché era no, e nemmeno voglio, ma dovevo sviare la richiesta precendente. Non potevo rivelarle che credevo di essere pazza. Quella realtà sarebbe morta con me. Nessuno l’avrebbe saputo. Nessuno.
Mia nonna si morse il labbro e così io mi voltai. Lei non sapeva ciò che era successo, mi avrebbe risposto di sì. Così capii che non volevo sentire davvero la risposta e se ne andò.
Quando fui da sola mi alzai e andai alla finestra, dove sul davanzale troneggiava in bella vista una lettera.
Nonna l’aveva appoggiata lì appena era arrivata nella mia camera da letto, nella speranza che mi sarei affacciata per pensare a cosa mi aveva detto.
Presi la lettera evitando di darmi comunque ragione, perché sapevo che mai li avrei perdonati. Ne ora, ne tra qualche anno, ne mai.
La girai in mano e vidi il mio nome come destinatario e quello di mio fratello come mittente. Marco mi aveva mandato una lettera, datata di qualche giorno fa. Perché?
Un colpo al cuore mi colpì mentre leggevo il suo nome e il mio, troppo vicini mentre noi eravamo così distanti.
 
Cara Veronica,
ho saputo della tua nuova avventura e della tua nuova ‘casa’. Mamma mi ha detto ciò che hai combinato e in realtà la cosa non mi stupisce molto. Sapevo che prima o poi l’avresti fatto, tutt’al più ora che eri in quella casa da sola.
Cosa ne penso? Non  lo so.
Sento che l’hai fatto per lo stesso motivo per cui me ne sono andato io anni fa e quindi non posso giudicarti.
Ma non pensare di non poter riallacciare mai più i rapporti perché è stupido e infantile, e so quanto a te dia fastidio che qualcuno ti attribuisca questi aggettivi. Ma è così, perché tutti noi, prima o poi, che ci piaccia o meno, abbiamo bisogno dei nostri genitori.
Non si possono rimpiazzare, non si possono dimenticare… per sfortuna o fortuna, decidi tu.
Prima o poi te ne accorgerai.
Marco.
 
Finii di leggere con le lacrime agli occhi. Per quanto mi comprendesse mi stava giudicando. Anche lui, il mio unico appoggio in questi anni.
Era come se stessi scalando una montagna e dopo quello che era successo con i miei avevo fatto una caduta quasi mortale.
Poi però ero riuscita a risalire un po’, con fatica e dolori solo miei. Ma ancora una volta, in quel momento, con in mano quella lettera, era come se fossi caduta di nuovo.
“No, tu non sai niente”, sussurrai guardandomi il polso ancora fasciato.
Lui non poteva capire, sapere o comprendere. Lui era lontano, non aveva vissuto con loro come me, negli ultimi anni. Lui non moriva ogni volta che i loro urli di tramutavano nel suo nome.
 
“Devi stare tranquilla, Ron”, sentii sussurrare da papà.
Erano in camera loro da qualche ora, dopo che mamma era scappata lì dentro con un’espressione strana.
Era stato un attimo.
Qualcuno aveva telefonato e io – che ora avevo la fissa del ‘magico telefono’ – avevo risposto. Una voce anziana aveva chiesto chi fossi e le avevo detto, anonimo, Casa Leto.
Un sussurro di sollievo che non avevo capito e vidi mia madre correre verso di me, staccandomi la mano dal telefono. Mio padre mi aveva preso in braccio e mi aveva portato in camera mia, dicendomi che andava tutto bene e mi aveva passato alcuni miei giochi.
Poi era tornato da mamma, che stava gridando nel soggiorno, e alla fine erano andati in camera, dove ora sentivo la mamma piangere.
“Le piace rovinarmi la vita, vero? E ora vuole distruggere anche quella di Jeremy”, la sentii mugolare con il fiato rotto dal pianto. Mi sedetti contro la porta per non fare rumore. Ero piccolo, non mi avrebbero né visto né sentito.
“Non lo toccherà, Ronnie. Non lo vedrà nemmeno, a meno che non lo permetta tu”, sentii papà consolarla. Ma chi era quella donna anziana che aveva chiamato? Che voleva da me? Perché aveva fatto piangere mamma?
“Non avrebbe nemmeno dovuto sapere della sua esistenza! Chi è stato a dirgli di Jeremy?!”, gracchiò scioccata.
“Ronnie, siamo rockstar. Basta una foto di Jeremy al nostro fianco o del nostro matrimonio. E poi tutti gli Echelon sanno di nostro figlio”, le disse papà dolce, cercando di farla ragionare.
“Hai ragione, devo calmarmi. Ma non volevo che lo venisse a sapere, non volevo che tornasse ancora”, singhiozzò mia mamma. “Ha rovinato me, non permetterò a nessuno di torturare mio figlio nello stesso modo”.
Torturare? Rovinare? Chi era quella donna?
Nella mia curiosità avrei voluto richiamare quel numero, ma mamma era ossessionata dal pensiero che non la dovessi conoscere e non volevo che piangesse ancora.
“Lo difenderemo anche con i denti, Ronnie. Non le permetterò  di avvicinarsi, lo sai”, sentii la voce decisa di mio padre. “E’ la nostra possibilità sempre sognata, la nostra cura. Nessuno potrà fargli del male finchè io sono qui”.
Mia madre non rispose e io colsi l’occasione di alzarmi e mettermi sulle punte per afferrare la maniglia. Entrai nella loro camera li guardai abbracciati, mamma con le guance e gli occhi rossi di pianto.
“Jeremy”, mi chiamò papà, alzandosi in piedi e prendendomi in bracco, con un sorriso tirato. “Cosa ci fai qui? Gli incubi fanno i cattivi?”.
“Voglio solo stare con voi”, sussurrai stringendomi al suo collo.
“Per l’età che hai sei il miglior figlio del mondo”, disse mia madre sorridendo davvero e asciugandosi gli occhi con le mani.
Mamma mi abbracciò forte e papà strinse tutti e due. Era una bella sensazione. Sensazione di casa, di amore.


....
Note dell'Autrice:
La canzone che fa scattare Ronnie è NIGHTMARE, degli Avenged Sevenfold (i miei amati dopo i Mars e i The Pretty Reckless). Da una carica assurda, se non l'avete mai sentita fatelo... ecco perchè lei impazzisce. Lo faccio anche io (e qui notiamo quanto di me potete trovare in Ronnie, oltre al nome ovviamente).
Riguardo Lucy... be a volte mi sento anche io depressa, non a questi livelli, ma volevo esplorare un pò il campo che già avevo mostrato nella vera storia. Nella prima parte Lucy era la stronzetta di turno, nella seconda era la sorella disastrata di Vicky. qui la troviamo a metà e mi piace da morire :)

Infine... be nulla spero vi sia piaciuto.
Un bacio, Ronnie02
   
 
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