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Autore: lalla    04/07/2004    1 recensioni
Valeria Messalina: il suo nome è divenuto sinonimo di nera perfidia e lussuria sfrenata. Ma è andata veramente così?
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità greco/romana
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-Cesonia ha partorito l’ennesimo figlio morto

*

 

-Cesonia ha partorito l’ennesimo figlio morto. Claudio è il parente più prossimo dell’Imperatore e non ha moglie.

Dove volevano arrivare? Era da tanto tempo che Valeria aveva intuito le loro intenzioni, anche se si era sempre rifiutata di crederci. Poi, troppo presto, era giunto il momento di pagare il tributo al sangue che le scorreva nelle vene. Il sangue maledetto degli Dei.

-E’ un brav’uomo, ed è meno stupido di quanto sembra.

-Accettando la sua proposta di matrimonio, un giorno potresti sedere al suo fianco sul trono imperiale.

Ha cinquant’anni, e io sedici soltanto; è bavoso, balbuziente,zoppo, ha già ripudiato due mogli…Perfino colei che l’ha messo al mondo lo definiva un idiota. Oh, Dei, che ho fatto di male per meritarmi un simile destino?

-Nelle tue vene scorre il sangue di Cesare Ottaviano Augusto, Valeria.

Non me ne importa niente di quale sangue mi scorre nelle vene, madre, padre. Non me ne importa niente del trono, voglio vivere la mia vita, voglio andarmene lontano da qui, voglio tornare a stare in campagna, voglio cavalcare a gambe aperte come un maschio, voglio correre nella notte  con Anthaeus dagli occhi verdi e dal collare irto di punte, voglio sentire ancora il vento nei capelli, e le storie di Canidia e il lamento della civetta…

-Ubbidirai a tuo padre e a tua madre, Valeria Messalina. Lo sposerai, perché così è deciso.

La giovane si alzò dal suo seggio coperto di broccato. Strinse forte nel pugno il fascinum che portava al collo e, sforzandosi di non piangere, piantò i suoi occhi in quelli gelidi di Domizia.

-Preferirei giacere con la morte.

La mano carica di anelli le calò sulla guancia, lasciandovi impresso il segno   livido delle cinque dita.

-Tu sposerai Claudio, ti piaccia o non ti piaccia. E non uscirai da questa stanza finché non acconsentirai, dovessi restarci per tutto il tempo che ti rimane da vivere.

*

Ne era uscita appena tre giorni dopo, tutta avvolta nel velo giallo delle spose, per dividere con Claudio il pane e pronunciare i voti nuziali: Ubi Gaius, ego Gaia. A sedici anni,  Valeria si ritrovava sposata a quel cinquantenne che trascinava sulle gambette sinistrate il corpaccione panciuto, sputacchiava in faccia ai suoi interlocutori mentre parlava, aveva gli angoli delle labbra sempre bianchi di saliva rappresa e il naso rosso e spugnoso da avvinazzato. Claudio aveva promesso ai Numi e ai genitori della sposa che l’avrebbe amata e rispettata. E non ne avrebbe fatto soltanto la sua regina, Domizia ne era più che sicura: tra i figli di Cesonia e di Caligola, solo una bambina era riuscita a sopravvivere e Claudio era il parente più prossimo dell’Imperatore. C’era solo da augurarsi, senza farsi sentire da nessuno, che i Numi, o se non loro qualcun altro, si prendessero al più presto la vita di quel pazzo.

*

-Finalmente soli, mia dolce sposa…

Che cosa avrebbe potuto dirle, di diverso, quel lurido vecchio bavoso? Che cosa avrebbe potuto darle di diverso da un dolore forte come trafittura di spada, nel momento della deflorazione, a cui non sarebbe seguito il piacere acuto e ubriacante di cui le avevano detto le serve?Valeria  sapeva tutto. Sapeva che da quel vecchio non avrebbe avuto nulla di ciò che una ragazza si aspetta dall’amore, per come l’ha sognato. Quel vecchio  sbevazzone dall’aria scimunita e giuliva la baciò sulle labbra, e le promise che le avrebbe insegnato l’amore. Poi furono il sangue e il dolore: quelli, e quelli soltanto. La lingua vinosa di Claudio, il nauseante ed oleoso aroma dell’essenza di violetta che si era versato sui capelli,  le fecero sentire in gola l’urto del vomito.

-Sarai la compagna della mia vita, la madre dei miei figli…

No, sarò odio e odio soltanto. Sarò l’ortica che cresce nel tuo giardino, sarò la mota che imbratterà in maniera indelebile il tuo onore, Claudio Tiberio Druso Nerone Germanico: mi sottometterò a te quando vorrai, ti darò dei figli, ma ti farò pentire amaramente d’aver preteso d’arrestare il tempo che passa legando a te una giovinetta.Una che non ti voleva. Una che avrebbe preferito giacere con la morte piuttosto che con te.

 

*

 

Invece aveva continuato a giacere con lui, a sottometterglisi senza provare niente e senza sforzarsi neppure di fingere. E, a un anno dalle nozze, gli aveva dato anche un figlio, un bel bambino che era stato chiamato Britannico.

Fu quello stesso anno, che  Cassio Cherea, il Prefetto del Pretorio, assassinò l’Imperatore.

Era una nottataccia di temporale, loro avevano appena preso sonno, quando erano stati svegliati dal clangore delle armi e dalle urla dementi di Caligola.  Claudio aveva trascinato  fuori dal letto sua moglie che tremava in una striminzita vesticciola da camera e si era nascosto con lei dietro una tenda. Ma le guardie li avevano scovati lo stesso.

-Cesare…

Claudio aveva  sempre temuto il momento,la daga alzata sulla sua testa, il baluginio corrusco delle torce sul metallo, l’ ultimo respiro, l’ultimo battito del  cuore impazzito. Invece il Pretoriano aveva riposto la daga  nel fodero e l’aveva chiamato Cesare. Quindi si era tolto il lungo mantello nero e, con un gesto quasi gentile, l’aveva drappeggiato intorno alle spalle tremanti dell’Imperatrice. Era caldo, e odorava di cuoio e di lana. L’orlo, che toccava quasi terra, era umido e zuppo. Forse, quel Pretoriano lo aveva trascinato con lui dentro qualche pozzanghera, mentre correva in quella nottataccia folle, agitata e piovosa. Ma ciò che le scivolava denso e viscido lungo il malleolo e sul piccolo piede scalzo non era acqua: era il sangue di Gaio, di Cesonia e della loro figlioletta.

 

*

 

Hai avuto il potere, Claudio.Non ho mai capito se era quello ciò che volevi o se era altro, e ti ci sei ritrovato in mezzo per caso. So invece per certo che era me che volevi, quando i nostri sguardi si sono incrociati per la prima volta, nella casa di mio padre, anche se tu eri un vecchio e io solo una bambina. Io non ti volevo, e tutto quello che ho fatto con te è stato solamente per dovere, perché nelle mie vene scorre il sangue di Giulio Cesare e d’Ottaviano Augusto, e non poteva essere altrimenti. Ho sopportato la tua bava, il tuo puzzo di vino e le tue carni flaccide, ti ho dato due figli…Anche se avevo giurato che avrei preferito giacere con la morte, piuttosto che con te. Sarò l’ortica che cresce nel tuo giardino, il disonore che macchierà la tua esistenza in vita e la tua memoria quando non ci sarai più. Guardami, servo, facchino, guardami soldato: sono Licisca, la puttana dalle chiome rosse che puoi avere per quattro assi nel più scalcinato bordello della Suburra. Licisca, la Lupa, che giace con te come un altro si stordirebbe di vino, per dimenticare soltanto. La Lupa che puoi avere anche per niente, se passerai tra le tombe dell’Esquilino in qualche notte senza luna: Licisca, la Lupa rossa del sepolcro diroccato, che adesca i più miserabili tra i miserabili perché detesta il suo  vecchio sposo, colui che stringe in pugno i destini del mondo e che ha ucciso i suoi sogni, colui al quale l’hanno legata gli inganni e i calcoli degli altri. Ha gli occhi bistrati e un’ordinaria parrucca rossa le nasconde i capelli. Non porta gioielli, solo un fascinum che pende da una cordicella, per tenere lontani gli spiriti nefasti. Non la riconosceresti, quando passeggia tra i sepolcri avvolta in un mantello nero da soldato. E’ una vedova? Una prefica, forse? Ha perso qualcuno e lo piange tra le  tombe? No, è solo una miserabile puttana di infima categoria, in cerca di clienti da adescare. E’ Licisca, la Lupa dalle chiome rosse e dalle vesti stracciate. Non lo diresti che nel suo palazzo d’oro e di marmo ha vesti di seta e gioielli preziosi e che, sotto la parrucca ordinaria, i suoi riccioli corvini profumano di mirra e di sandalo. Non lo diresti che Licisca, la Lupa della Suburra e dell’Esquilino e Valeria Messalina, l’Imperatrice, la madre dei figli di Claudio Tiberio Druso Nerone Germanico, sono la stessa persona.

 

*

L’uomo sommariamente coperto da una pelle mal conciata di vacca rossa si guardò intorno. Anche se  da quella distanza non sarebbe stato possibile  fissarlo negli occhi, Valeria sapeva cosa avrebbe potuto leggerci dentro: terrore, e terrore soltanto. Era magro e sparuto, scuro di carnagione come un siriano o un egizio e stringeva nervosamente  nella mano un lungo fuscino.

-Teseo riuscì ad uccidere il Minotauro.

Questo qui non so, non credo proprio. Chi è, aveva domandato Valeria a Gaio Silio, che sedeva alla sua destra, elegante e profumato, sorridente, giovane e bello. Un condannato a morte, uno di quei ribelli ebrei, uno zelota. La carne da macello scarseggia, e bisogna importarla dalle Province. Guardalo come trema, l’ebreo pidocchioso, non sa cosa spunterà fuori da lì dietro, sa che dovrà morire ma non di che morte. Guarda, Augusta, guarda la porta del bestiario…

Un’enorme massa di muscoli, nera come una notte senza stelle si catapultò sbuffando e muggendo nell’arena: un uro, il toro selvaggio delle contrade del Nord, la fiera più grossa, dopo l’elefante, e una delle più pericolose.

Per un istante, l’animale e l’uomo si fronteggiarono fissandosi. L’uro sbuffò, scalciò il terreno sollevando la sabbia rossa con il suo grosso zoccolo anteriore e caricò a testa bassa. Il condannato lasciò cadere il fuscino. La fine, la sua fine, adesso il condannato lo sapeva, era quel mostro nero dalle lunghe corna falcate che stavano per trafiggerlo. Erano il suo sangue e suoi visceri, era il profumo acuto delle foglie di menta e dei petali delle rose che scendevano dall’alto come una pioggia, perché solo ai condannati e non agli spettatori fosse dato d’essere offesi dall’odore della morte.

*

 

-Uno spee…ttacolo per nulla en…tusiasmante…

Claudio sputacchiò dentro il fazzoletto senza distogliere gli occhi dall’arena dell’anfiteatro. Lo zelota ebreo, un poveraccio che in vita sua non doveva mai aver maneggiato un’arma diversa da un bastone o da un falcetto, e che non si capiva  di quale colpa potesse essersi macchiato per meritare una fine tanto orrenda, si era lasciato ammazzare  troppo in fretta. Meglio i gladiatori, almeno impiegavano più tempo a morire.

Al centro dell’arena, si fronteggiavano un andabato e un sannita. Non era difficile prevedere come sarebbe andata a finire, perché gli andabati, che venivano per il solito reclutati tra i condannati alla pena capitale per i delitti più abbietti, portavano una maschera priva delle fessure per gli occhi, quindi menavano i loro colpi alla cieca.

Lo strepito della folla divenne boato, quando il sannita parò il colpo e con un fendente della sua spada mandò l’avversario a giacere supino sulla sabbia.

-Iugula.-borbottò l’Imperatore raccogliendo il desiderio della folla e puntando il pollice verso il suolo.Quel vigliacco dell’andabato, un ladrone di strada, gli era stato detto, non si era portato con coraggio e non meritava di vivere. Anzi, da come si dibatteva e urlava, non era neanche capace di morire con l’irridente indifferenza che il pubblico si aspettava da uno come lui.

Il sannita lasciò cadere lo scudo e sollevò al cielo la spada gocciolante del sangue sgorgato dalla gola recisa dell’avversario. Indossava un giustacuore di cuoio da cui spuntavano brandelli di maglia d’acciaio. Era abbastanza vicino al seggio imperiale e Valeria notò i graffi sulle  braccia e l’ansimare affannoso del  petto. Aveva un teschio di bronzo applicato sulla corazza e a un teschio faceva pensare la sua testa, completamente nascosta da un casco aderente e da una maschera grottesca che non si tolse, come facevano di solito i combattenti che uscivano vincitori da quei duelli.

-Chi è?

-Lo chiamano Thanatos. La Morte.

*

Licisca, la puttana dai capelli rossi, ha lo stesso viso dell’Imperatrice Messalina. E’ lei quella che si aggira nottetempo tra le tombe dell’Esquilino, lei che nei bordelli della Suburra giace tra le braccia della feccia plebea, del servo, del facchino, del soldato, dell’ex gladiatore che ha la faccia sconvolta dalle cicatrici. E’ lei  quella che da anni scava con le unghie nel fango, per gettarlo addosso a chi le ha negato la felicità. Suo padre ha saputo, ed è morto dal dolore. Sua madre ha saputo e l’ha rinnegata. Claudio sa, e ostenta indifferenza. Silio, l’ultimo dei suoi amanti, sa, e vuole farne lo strumento della sua ambizione.

Valeria ripose nella cassapanca il mantello e la parrucca. Quella notte, sarebbe uscita e sarebbe stata lei, non Licisca la Lupa. Avrebbe indossato stola e dalmatica bianche e nascosto il viso dietro una maschera d’argento. Come Thanatos, il gladiatore.

*

Thanatos. Nell’arena, con la spada in pugno e l’elmo scintillante, le era apparso circonfuso da un alone di potenza, selvaggio e terribile come l’uro che aveva maciullato sotto i suoi zoccoli lo zelota ebreo condannato a morte. In fondo alla cella, illuminato dalla torcia tenuta in mano dall’inserviente, Thanatos la Morte era solo un ragazzone biondo e smandrappato con la barba incolta, i capelli lunghi e unti e un raccapricciante squarcio ricucito alla bell’e meglio sulla coscia, a filo con l’orlo della tunica corta di sacco piena di strappi. Un barbaro del Nord, doveva essere quello, un Germano, un Gallo o un Britanno, o magari veniva ancora più da lontano,dalle selve della Tracia, dalle steppe battute dal vento gelido della Pianura Sarmata. Corrucciato e silenzioso, la fissava con i suoi occhi infossati, chiari, indifferenti e freddi come due schegge di ghiaccio. Era incatenato alla parete per le mani e per i piedi.

-Sciogli quest’uomo dalle catene, servo.

-Potrebbe essere pericoloso, domina. Ha mani capaci di spaccare il cranio d’ un uomo.

-Però non spaccherebbe mai quello di una donna.

-E’ un assassino, domina…

-Taci e vattene.

L’uomo si era chinato a raccattare da terra la moneta d’oro lanciatagli dalla dama mascherata e li aveva lasciati soli, nella penombra di quel cubicolo che puzzava d’umido e di muffa. Non era la prima e non sarebbe stata l’ultima. Gli uomini pagano, quando non possono avere amore. Perché non poteva farlo una donna? Thanatos, chissà qual era il suo vero nome, odorava ancora di sudore e di sangue. Il sesso e la morte non sono forse le due facce di un’unica moneta?

 

*

Il gladiatore aveva un corpo possente, abbronzato e un volto belloccio, dai lineamenti regolari. L’elmo e la maschera che non si era tolto al termine del combattimento con l’andabato non servivano a nascondere cicatrici ripugnanti, come capitava di frequente e come Valeria aveva temuto.

-E’ la Vergine Vestale che mi onora della sua presenza?

-Solo una  bambola della notte, Thanatos.

La solita, pensava l’uomo strofinandosi i polsi. Pagavano, e pagavano profumatamente per spassarsela una notte con la feccia degli schiavi, gente senza domani,ma circonfusa da un manto di voluttà e di morte che la rendeva irresistibile agli occhi di quelle matrone che, dalla vita, avevano avuto tutto quanto. Anche quella che gli stava davanti, alta, slanciata e sottile, con i polsi ingioiellati e una maschera d’argento che le nascondeva la metà superiore della faccia,  era  la solita gran dama che aveva perso ogni ritegno pur di concedersi quel piacere perverso. Buon per il lanista, dannato maiale. Si sarebbe arricchito anche speculando sulla lussuria,oltre che sul sangue, come il lenone di un bordello della Suburra.

-Mi darai quello che ti chiedo…Thanatos?

Le sorrise. Aveva denti bianchi, quadrati e un ventaglio di rughe sottili come graffi agli angoli degli occhi.

-Butta via quella maschera che ti sei messa, domina.

-Tu non hai gettato la tua, l’altro giorno, dopo aver vinto il combattimento con l’andabato.

-Quel maledetto. Se mi prendeva un po’ più su mi castrava.

E si tastò con la mano aperta la ferita  violacea e gonfia, una bruttura oscena che, al pari della tunica sbrindellata e  dei segni delle catene  lo marchiava per quello che era, deturpando dolorosamente la sua selvatica bellezza bionda.

-Manderò il mio medico personale a curarti.

-Finché la ferita resta aperta non potrò combattere, domina. Più tempo impiegherà a guarire, più giorni mi rimarranno da vivere.

-Potrei…riscattarti.

-In cambio di qualcosa.

-Naturalmente.

-Del piacere per te…o della morte per qualcuno che odi?

-Ti ho già visto ammazzare e ho sentito come la gente ti applaudiva. Ti amano perché riesci ad appagare la loro sete di sangue. Ma io ho sete di vita, dovresti averlo capito.

-Hai un marito, domina?

-Sono stata costretta da mio padre a sposare un vecchio.

Valeria accostò la mano al viso, fece per liberarlo dalla maschera. E sentì le dita  del gladiatore sfiorarle il polso con una carezza insolitamente tenera.

-Quando combatto nell’arena, nascondo la faccia perché non voglio che qualcuno mi guardi e pensi a come sono caduto in basso. Tienila, domina. Tanto ti lascia libera la bocca.

 

*

 

La luce della torcia illuminava di riflessi iridescenti il volto d’argento della donna, immobile ed inespressivo come la faccia impassibile della luna. La maschera aveva nascosto agli occhi di Thanatos tutto quello che lei non aveva voluto mostrargli:la sua identità imbarazzante,aldilà di qualsiasi mancanza di pudore; gli occhi rovesciati all’indietro, la fronte contratta, mentre la bocca   gemeva nell’attimo culminante del godimento. Come ci rende brutti il piacere, animaleschi e ridicoli.  Sei stata fortunata, domina,le aveva detto con la sua voce lenta e grave.Non sai quanti sfregi e quante mutilazioni e quanti denti rotti nascondono i nostri elmi e le nostre maschere. Non ho ancora capito cosa ci trovano le signore come te in quelli come noi. L’idea di sentirsi sfondare da un corpo che oggi è vivo e pulsante e che domani potrebbe essere solo ossa rosicchiate dalle belve. O dormire avvinghiata a un uomo, che tanfa di sangue e di sudore, che non è chi tuo padre ha scelto per te, il tempo che resta di qui a un sorgere del sole che per lui potrebbe essere l’ultimo e per te  è solo uno come un altro.

-Quello che cercavi l’hai avuto, bambola della notte.

La mano  ingioiellata di Valeria gli accarezzò la peluria del petto, fitta e sottile e bionda come l’oro, le grosse spalle muscolose spruzzate di piccole lentiggini chiare.

-Mi piacerebbe sapere chi sei.

-Un miserabile schiavo per il quale ogni giorno potrebbe essere l’ultimo, domina.

-Adesso sono io a chiederti di gettare la maschera, gladiatore.

Lui si sollevò dal giaciglio puntellandosi sui gomiti e guardò fisso fisso il suo volto impassibile d’argento, aggrottando le sopracciglia bionde.

-Chi credi che io sia?

-Un barbaro del Nord, un Germano, forse un Britanno. Magari un cavaliere delle Pianure, un Sarmata. Non credo che tu sia un Romano, anche se parli bene la mia lingua come se lo fossi.

 

   
 
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