*
-Cesonia
ha partorito l’ennesimo figlio morto. Claudio è il parente più prossimo
dell’Imperatore e non ha moglie.
Dove
volevano arrivare? Era da tanto tempo che Valeria aveva intuito le loro
intenzioni, anche se si era sempre rifiutata di crederci. Poi, troppo presto,
era giunto il momento di pagare il tributo al sangue che le scorreva nelle
vene. Il sangue maledetto degli Dei.
-E’
un brav’uomo, ed è meno stupido di quanto sembra.
-Accettando
la sua proposta di matrimonio, un giorno potresti sedere al suo fianco sul
trono imperiale.
Ha
cinquant’anni, e io sedici soltanto; è bavoso, balbuziente,zoppo, ha già
ripudiato due mogli…Perfino colei che l’ha messo al mondo lo definiva un
idiota. Oh, Dei, che ho fatto di male per meritarmi un simile destino?
-Nelle
tue vene scorre il sangue di Cesare Ottaviano Augusto, Valeria.
Non
me ne importa niente di quale sangue mi scorre nelle vene, madre, padre. Non me
ne importa niente del trono, voglio vivere la mia vita, voglio andarmene
lontano da qui, voglio tornare a stare in campagna, voglio cavalcare a gambe
aperte come un maschio, voglio correre nella notte con Anthaeus dagli occhi verdi e dal collare irto di punte,
voglio sentire ancora il vento nei capelli, e le storie di Canidia e il lamento
della civetta…
-Ubbidirai
a tuo padre e a tua madre, Valeria Messalina. Lo sposerai, perché così è
deciso.
La
giovane si alzò dal suo seggio coperto di broccato. Strinse forte nel pugno il
fascinum che portava al collo e, sforzandosi di non piangere, piantò i suoi
occhi in quelli gelidi di Domizia.
-Preferirei
giacere con la morte.
La
mano carica di anelli le calò sulla guancia, lasciandovi impresso il segno livido delle cinque dita.
-Tu
sposerai Claudio, ti piaccia o non ti piaccia. E non uscirai da questa stanza
finché non acconsentirai, dovessi restarci per tutto il tempo che ti rimane da
vivere.
*
Ne
era uscita appena tre giorni dopo, tutta avvolta nel velo giallo delle spose,
per dividere con Claudio il pane e pronunciare i voti nuziali: Ubi Gaius, ego
Gaia. A sedici anni, Valeria si
ritrovava sposata a quel cinquantenne che trascinava sulle gambette sinistrate
il corpaccione panciuto, sputacchiava in faccia ai suoi interlocutori mentre
parlava, aveva gli angoli delle labbra sempre bianchi di saliva rappresa e il
naso rosso e spugnoso da avvinazzato. Claudio aveva promesso ai Numi e ai
genitori della sposa che l’avrebbe amata e rispettata. E non ne avrebbe fatto
soltanto la sua regina, Domizia ne era più che sicura: tra i figli di Cesonia e
di Caligola, solo una bambina era riuscita a sopravvivere e Claudio era il
parente più prossimo dell’Imperatore. C’era solo da augurarsi, senza farsi
sentire da nessuno, che i Numi, o se non loro qualcun altro, si prendessero al
più presto la vita di quel pazzo.
*
-Finalmente
soli, mia dolce sposa…
Che
cosa avrebbe potuto dirle, di diverso, quel lurido vecchio bavoso? Che cosa
avrebbe potuto darle di diverso da un dolore forte come trafittura di spada,
nel momento della deflorazione, a cui non sarebbe seguito il piacere acuto e
ubriacante di cui le avevano detto le serve?Valeria sapeva tutto. Sapeva che da quel vecchio non avrebbe avuto nulla
di ciò che una ragazza si aspetta dall’amore, per come l’ha sognato. Quel
vecchio sbevazzone dall’aria scimunita
e giuliva la baciò sulle labbra, e le promise che le avrebbe insegnato l’amore.
Poi furono il sangue e il dolore: quelli, e quelli soltanto. La lingua vinosa
di Claudio, il nauseante ed oleoso aroma dell’essenza di violetta che si era
versato sui capelli, le fecero sentire
in gola l’urto del vomito.
-Sarai
la compagna della mia vita, la madre dei miei figli…
No,
sarò odio e odio soltanto. Sarò l’ortica che cresce nel tuo giardino, sarò la
mota che imbratterà in maniera indelebile il tuo onore, Claudio Tiberio Druso
Nerone Germanico: mi sottometterò a te quando vorrai, ti darò dei figli, ma ti
farò pentire amaramente d’aver preteso d’arrestare il tempo che passa legando a
te una giovinetta.Una che non ti voleva. Una che avrebbe preferito giacere con
la morte piuttosto che con te.
*
Invece
aveva continuato a giacere con lui, a sottometterglisi senza provare niente e
senza sforzarsi neppure di fingere. E, a un anno dalle nozze, gli aveva dato
anche un figlio, un bel bambino che era stato chiamato Britannico.
Fu
quello stesso anno, che Cassio Cherea,
il Prefetto del Pretorio, assassinò l’Imperatore.
Era
una nottataccia di temporale, loro avevano appena preso sonno, quando erano
stati svegliati dal clangore delle armi e dalle urla dementi di Caligola. Claudio aveva trascinato fuori dal letto sua moglie che tremava in
una striminzita vesticciola da camera e si era nascosto con lei dietro una
tenda. Ma le guardie li avevano scovati lo stesso.
-Cesare…
Claudio
aveva sempre temuto il momento,la daga
alzata sulla sua testa, il baluginio corrusco delle torce sul metallo, l’
ultimo respiro, l’ultimo battito del
cuore impazzito. Invece il Pretoriano aveva riposto la daga nel fodero e l’aveva chiamato Cesare. Quindi
si era tolto il lungo mantello nero e, con un gesto quasi gentile, l’aveva
drappeggiato intorno alle spalle tremanti dell’Imperatrice. Era caldo, e
odorava di cuoio e di lana. L’orlo, che toccava quasi terra, era umido e zuppo.
Forse, quel Pretoriano lo aveva trascinato con lui dentro qualche pozzanghera,
mentre correva in quella nottataccia folle, agitata e piovosa. Ma ciò che le
scivolava denso e viscido lungo il malleolo e sul piccolo piede scalzo non era
acqua: era il sangue di Gaio, di Cesonia e della loro figlioletta.
*
Hai
avuto il potere, Claudio.Non ho mai capito se era quello ciò che volevi o se
era altro, e ti ci sei ritrovato in mezzo per caso. So invece per certo che era
me che volevi, quando i nostri sguardi si sono incrociati per la prima volta,
nella casa di mio padre, anche se tu eri un vecchio e io solo una bambina. Io non
ti volevo, e tutto quello che ho fatto con te è stato solamente per dovere,
perché nelle mie vene scorre il sangue di Giulio Cesare e d’Ottaviano Augusto,
e non poteva essere altrimenti. Ho sopportato la tua bava, il tuo puzzo di vino
e le tue carni flaccide, ti ho dato due figli…Anche se avevo giurato che avrei
preferito giacere con la morte, piuttosto che con te. Sarò l’ortica che cresce
nel tuo giardino, il disonore che macchierà la tua esistenza in vita e la tua
memoria quando non ci sarai più. Guardami, servo, facchino, guardami soldato:
sono Licisca, la puttana dalle chiome rosse che puoi avere per quattro assi nel
più scalcinato bordello della Suburra. Licisca, la Lupa, che giace con te come
un altro si stordirebbe di vino, per dimenticare soltanto. La Lupa che puoi
avere anche per niente, se passerai tra le tombe dell’Esquilino in qualche
notte senza luna: Licisca, la Lupa rossa del sepolcro diroccato, che adesca i
più miserabili tra i miserabili perché detesta il suo vecchio sposo, colui che stringe in pugno i destini del mondo e
che ha ucciso i suoi sogni, colui al quale l’hanno legata gli inganni e i
calcoli degli altri. Ha gli occhi bistrati e un’ordinaria parrucca rossa le
nasconde i capelli. Non porta gioielli, solo un fascinum che pende da una
cordicella, per tenere lontani gli spiriti nefasti. Non la riconosceresti,
quando passeggia tra i sepolcri avvolta in un mantello nero da soldato. E’ una
vedova? Una prefica, forse? Ha perso qualcuno e lo piange tra le tombe? No, è solo una miserabile puttana di
infima categoria, in cerca di clienti da adescare. E’ Licisca, la Lupa dalle
chiome rosse e dalle vesti stracciate. Non lo diresti che nel suo palazzo d’oro
e di marmo ha vesti di seta e gioielli preziosi e che, sotto la parrucca
ordinaria, i suoi riccioli corvini profumano di mirra e di sandalo. Non lo
diresti che Licisca, la Lupa della Suburra e dell’Esquilino e Valeria
Messalina, l’Imperatrice, la madre dei figli di Claudio Tiberio Druso Nerone
Germanico, sono la stessa persona.
*
L’uomo
sommariamente coperto da una pelle mal conciata di vacca rossa si guardò
intorno. Anche se da quella distanza
non sarebbe stato possibile fissarlo
negli occhi, Valeria sapeva cosa avrebbe potuto leggerci dentro: terrore, e
terrore soltanto. Era magro e sparuto, scuro di carnagione come un siriano o un
egizio e stringeva nervosamente nella
mano un lungo fuscino.
-Teseo
riuscì ad uccidere il Minotauro.
Questo
qui non so, non credo proprio. Chi è, aveva domandato Valeria a Gaio Silio, che
sedeva alla sua destra, elegante e profumato, sorridente, giovane e bello. Un
condannato a morte, uno di quei ribelli ebrei, uno zelota. La carne da macello
scarseggia, e bisogna importarla dalle Province. Guardalo come trema, l’ebreo
pidocchioso, non sa cosa spunterà fuori da lì dietro, sa che dovrà morire ma
non di che morte. Guarda, Augusta, guarda la porta del bestiario…
Un’enorme
massa di muscoli, nera come una notte senza stelle si catapultò sbuffando e
muggendo nell’arena: un uro, il toro selvaggio delle contrade del Nord, la
fiera più grossa, dopo l’elefante, e una delle più pericolose.
Per
un istante, l’animale e l’uomo si fronteggiarono fissandosi. L’uro sbuffò,
scalciò il terreno sollevando la sabbia rossa con il suo grosso zoccolo
anteriore e caricò a testa bassa. Il condannato lasciò cadere il fuscino. La
fine, la sua fine, adesso il condannato lo sapeva, era quel mostro nero dalle
lunghe corna falcate che stavano per trafiggerlo. Erano il suo sangue e suoi
visceri, era il profumo acuto delle foglie di menta e dei petali delle rose che
scendevano dall’alto come una pioggia, perché solo ai condannati e non agli
spettatori fosse dato d’essere offesi dall’odore della morte.
*
-Uno
spee…ttacolo per nulla en…tusiasmante…
Claudio
sputacchiò dentro il fazzoletto senza distogliere gli occhi dall’arena
dell’anfiteatro. Lo zelota ebreo, un poveraccio che in vita sua non doveva mai
aver maneggiato un’arma diversa da un bastone o da un falcetto, e che non si
capiva di quale colpa potesse essersi
macchiato per meritare una fine tanto orrenda, si era lasciato ammazzare troppo in fretta. Meglio i gladiatori,
almeno impiegavano più tempo a morire.
Al
centro dell’arena, si fronteggiavano un andabato e un sannita. Non era
difficile prevedere come sarebbe andata a finire, perché gli andabati, che
venivano per il solito reclutati tra i condannati alla pena capitale per i
delitti più abbietti, portavano una maschera priva delle fessure per gli occhi,
quindi menavano i loro colpi alla cieca.
Lo
strepito della folla divenne boato, quando il sannita parò il colpo e con un
fendente della sua spada mandò l’avversario a giacere supino sulla sabbia.
-Iugula.-borbottò
l’Imperatore raccogliendo il desiderio della folla e puntando il pollice verso
il suolo.Quel vigliacco dell’andabato, un ladrone di strada, gli era stato
detto, non si era portato con coraggio e non meritava di vivere. Anzi, da come
si dibatteva e urlava, non era neanche capace di morire con l’irridente
indifferenza che il pubblico si aspettava da uno come lui.
Il
sannita lasciò cadere lo scudo e sollevò al cielo la spada gocciolante del
sangue sgorgato dalla gola recisa dell’avversario. Indossava un giustacuore di
cuoio da cui spuntavano brandelli di maglia d’acciaio. Era abbastanza vicino al
seggio imperiale e Valeria notò i graffi sulle
braccia e l’ansimare affannoso del
petto. Aveva un teschio di bronzo applicato sulla corazza e a un teschio
faceva pensare la sua testa, completamente nascosta da un casco aderente e da
una maschera grottesca che non si tolse, come facevano di solito i combattenti
che uscivano vincitori da quei duelli.
-Chi
è?
-Lo
chiamano Thanatos. La Morte.
*
Licisca,
la puttana dai capelli rossi, ha lo stesso viso dell’Imperatrice Messalina. E’
lei quella che si aggira nottetempo tra le tombe dell’Esquilino, lei che nei
bordelli della Suburra giace tra le braccia della feccia plebea, del servo, del
facchino, del soldato, dell’ex gladiatore che ha la faccia sconvolta dalle
cicatrici. E’ lei quella che da anni
scava con le unghie nel fango, per gettarlo addosso a chi le ha negato la
felicità. Suo padre ha saputo, ed è morto dal dolore. Sua madre ha saputo e
l’ha rinnegata. Claudio sa, e ostenta indifferenza. Silio, l’ultimo dei suoi
amanti, sa, e vuole farne lo strumento della sua ambizione.
Valeria
ripose nella cassapanca il mantello e la parrucca. Quella notte, sarebbe uscita
e sarebbe stata lei, non Licisca la Lupa. Avrebbe indossato stola e dalmatica
bianche e nascosto il viso dietro una maschera d’argento. Come Thanatos, il
gladiatore.
*
Thanatos.
Nell’arena, con la spada in pugno e l’elmo scintillante, le era apparso
circonfuso da un alone di potenza, selvaggio e terribile come l’uro che aveva
maciullato sotto i suoi zoccoli lo zelota ebreo condannato a morte. In fondo
alla cella, illuminato dalla torcia tenuta in mano dall’inserviente, Thanatos
la Morte era solo un ragazzone biondo e smandrappato con la barba incolta, i
capelli lunghi e unti e un raccapricciante squarcio ricucito alla bell’e meglio
sulla coscia, a filo con l’orlo della tunica corta di sacco piena di strappi.
Un barbaro del Nord, doveva essere quello, un Germano, un Gallo o un Britanno,
o magari veniva ancora più da lontano,dalle selve della Tracia, dalle steppe
battute dal vento gelido della Pianura Sarmata. Corrucciato e silenzioso, la
fissava con i suoi occhi infossati, chiari, indifferenti e freddi come due
schegge di ghiaccio. Era incatenato alla parete per le mani e per i piedi.
-Sciogli
quest’uomo dalle catene, servo.
-Potrebbe
essere pericoloso, domina. Ha mani capaci di spaccare il cranio d’ un uomo.
-Però
non spaccherebbe mai quello di una donna.
-E’
un assassino, domina…
-Taci
e vattene.
L’uomo
si era chinato a raccattare da terra la moneta d’oro lanciatagli dalla dama
mascherata e li aveva lasciati soli, nella penombra di quel cubicolo che
puzzava d’umido e di muffa. Non era la prima e non sarebbe stata l’ultima. Gli
uomini pagano, quando non possono avere amore. Perché non poteva farlo una
donna? Thanatos, chissà qual era il suo vero nome, odorava ancora di sudore e
di sangue. Il sesso e la morte non sono forse le due facce di un’unica moneta?
*
Il
gladiatore aveva un corpo possente, abbronzato e un volto belloccio, dai
lineamenti regolari. L’elmo e la maschera che non si era tolto al termine del
combattimento con l’andabato non servivano a nascondere cicatrici ripugnanti,
come capitava di frequente e come Valeria aveva temuto.
-E’
la Vergine Vestale che mi onora della sua presenza?
-Solo
una bambola della notte, Thanatos.
La
solita, pensava l’uomo strofinandosi i polsi. Pagavano, e pagavano
profumatamente per spassarsela una notte con la feccia degli schiavi, gente
senza domani,ma circonfusa da un manto di voluttà e di morte che la rendeva
irresistibile agli occhi di quelle matrone che, dalla vita, avevano avuto tutto
quanto. Anche quella che gli stava davanti, alta, slanciata e sottile, con i
polsi ingioiellati e una maschera d’argento che le nascondeva la metà superiore
della faccia, era la solita gran dama che aveva perso ogni
ritegno pur di concedersi quel piacere perverso. Buon per il lanista, dannato
maiale. Si sarebbe arricchito anche speculando sulla lussuria,oltre che sul
sangue, come il lenone di un bordello della Suburra.
-Mi
darai quello che ti chiedo…Thanatos?
Le
sorrise. Aveva denti bianchi, quadrati e un ventaglio di rughe sottili come
graffi agli angoli degli occhi.
-Butta
via quella maschera che ti sei messa, domina.
-Tu
non hai gettato la tua, l’altro giorno, dopo aver vinto il combattimento con
l’andabato.
-Quel
maledetto. Se mi prendeva un po’ più su mi castrava.
E
si tastò con la mano aperta la ferita
violacea e gonfia, una bruttura oscena che, al pari della tunica
sbrindellata e dei segni delle
catene lo marchiava per quello che era,
deturpando dolorosamente la sua selvatica bellezza bionda.
-Manderò
il mio medico personale a curarti.
-Finché
la ferita resta aperta non potrò combattere, domina. Più tempo impiegherà a
guarire, più giorni mi rimarranno da vivere.
-Potrei…riscattarti.
-In
cambio di qualcosa.
-Naturalmente.
-Del
piacere per te…o della morte per qualcuno che odi?
-Ti
ho già visto ammazzare e ho sentito come la gente ti applaudiva. Ti amano
perché riesci ad appagare la loro sete di sangue. Ma io ho sete di vita,
dovresti averlo capito.
-Hai
un marito, domina?
-Sono
stata costretta da mio padre a sposare un vecchio.
Valeria
accostò la mano al viso, fece per liberarlo dalla maschera. E sentì le
dita del gladiatore sfiorarle il polso
con una carezza insolitamente tenera.
-Quando
combatto nell’arena, nascondo la faccia perché non voglio che qualcuno mi
guardi e pensi a come sono caduto in basso. Tienila, domina. Tanto ti lascia
libera la bocca.
*
La
luce della torcia illuminava di riflessi iridescenti il volto d’argento della
donna, immobile ed inespressivo come la faccia impassibile della luna. La
maschera aveva nascosto agli occhi di Thanatos tutto quello che lei non aveva
voluto mostrargli:la sua identità imbarazzante,aldilà di qualsiasi mancanza di
pudore; gli occhi rovesciati all’indietro, la fronte contratta, mentre la bocca gemeva nell’attimo culminante del
godimento. Come ci rende brutti il piacere, animaleschi e ridicoli. Sei stata fortunata, domina,le aveva detto
con la sua voce lenta e grave.Non sai quanti sfregi e quante mutilazioni e
quanti denti rotti nascondono i nostri elmi e le nostre maschere. Non ho ancora
capito cosa ci trovano le signore come te in quelli come noi. L’idea di
sentirsi sfondare da un corpo che oggi è vivo e pulsante e che domani potrebbe
essere solo ossa rosicchiate dalle belve. O dormire avvinghiata a un uomo, che
tanfa di sangue e di sudore, che non è chi tuo padre ha scelto per te, il tempo
che resta di qui a un sorgere del sole che per lui potrebbe essere l’ultimo e
per te è solo uno come un altro.
-Quello
che cercavi l’hai avuto, bambola della notte.
La
mano ingioiellata di Valeria gli
accarezzò la peluria del petto, fitta e sottile e bionda come l’oro, le grosse
spalle muscolose spruzzate di piccole lentiggini chiare.
-Mi
piacerebbe sapere chi sei.
-Un
miserabile schiavo per il quale ogni giorno potrebbe essere l’ultimo, domina.
-Adesso
sono io a chiederti di gettare la maschera, gladiatore.
Lui
si sollevò dal giaciglio puntellandosi sui gomiti e guardò fisso fisso il suo
volto impassibile d’argento, aggrottando le sopracciglia bionde.
-Chi
credi che io sia?
-Un
barbaro del Nord, un Germano, forse un Britanno. Magari un cavaliere delle
Pianure, un Sarmata. Non credo che tu sia un Romano, anche se parli bene la mia
lingua come se lo fossi.