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Autore: xkalouis    29/11/2012    4 recensioni
«Sapete, mia cugina è proprio figa! Non vedo l'ora di farvela conoscere.» disse Niall, con un ampio sorriso tra le labbra, parlando ai tre ragazzi seduti sul divano color crema davanti a lui. «È assolutamente perfetta, e non lo dico solo perché sono suo cugino, lei lo è davvero.» concluse dando una spinta ad Harry che, seduto accanto a lui su un divano in pelle identico a quello di fronte a se, lo infastidiva da una buona manciata di minuti torturandogli i capelli.
«Vacci piano irlandese; niente in contrario con tua cugina, ma, per quanto può essere bella, la perfezione non esiste.» Aggiunse Louis con una leggera scrollata di spalle, guardando la figura accanto a sé. «Fatta eccezione per te.. Tu sei perfetto Bradford Bad Boi.» e, scherzando, tirò un bacio in direzione di Zayn.
Qualche secondo di risate e poi il silenzio calò tra i cinque membri degli One Direction.
«Pensi questo perché ancora non la conosci. Fidati di me, cambierai idea amico.» Harry ruppe quel breve silenzio, lo sguardo fisso su Louis che in quel momento scuoteva la testa sorridendo incredulo. «Scommetti?» continuò Harry in tono di sfida, tendendo la mano verso di lui.
«Ci sto.» concluse Louis.
Genere: Commedia, Fluff, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo
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   La festa per la mia partenza si faceva ancora sentire nella mia testa. Ogni minimo fruscio nella mia stanza silenziosa mi provocava tremende fitte alle tempie. Forse avevo esagerato col bere, o forse è stata semplicemente la notte insonne per via di quelle fastidiose lacrime che sembravano essere ancora lì, pronte per essere versate ancora. Ero stanca. Stanca di cambiare casa per l’ennesima volta, di cambiare di nuovo città e, per la terza volta, nazione  . Stanca di lasciarmi gli amici alle spalle, di lasciarmi Alex alle spalle. Proprio quando tutto andava nella giusta direzione, quando sembrava che il lavoro di mio padre non ci costringeva a trasferirci ancora, eccoli che si presentano alla nostra porta con una promozione. Secondo me fanno semplicemente prima a sbatterci in faccia un cartello con su scritto “Non servite più qui, dovete sloggiare.” Sarebbe più onesto di un cestino di congratulazioni, per una di quelle stupide promozioni di lavoro che, ovviamente, condizionano l’intera famiglia ad anni di instabilità. Per fortuna i 18 anni erano sempre più vicini. In realtà ne avevo ancora 17, ma la prospettiva del “mancano solo 6 mesi ai 18 anni” mi faceva sentire meglio.

  Il telefono iniziò a vibrare, ed ecco un’ondata di martelli pneumatici iniziarono a tartassarmi il cervello. La mia mano andò istintivamente su un comodino che ormai non c’era più. Sconsolata, abbassai la mano di qualche decina di centimetri e trovai l’Iphone posato sulla mia valigia che si illuminava a tratti. C’era un nuovo messaggio di Alex, quello che fino al giorno prima era stato il mio ragazzo: “posso venire da te? Anche solo per cinque minuti? Ho bisogno di vederti. Non posso credere che tu te ne stia andando davvero. Voglio solo abbracciarti.. ti amo <3 ”. Sospirai, rileggendo il messaggio prima di rispondere. Sentii svariati passi per il corridoio. Ormai si erano tutti svegliati, e tra più o meno un’ora sarei dovuta salire in macchina e dire addio a San Francisco per un bel po’ di tempo, se non per sempre. “Sono tutti svegli ormai e tra poco dobbiamo partire, Alex. Mi dispiace non poterci vedere un’ultima volta, ma credo che ormai sia troppo tardi. Ricorda quello che ti ho detto, troverai qualcuna migliore di me, perché meriti di stare bene. Grazie per quest’ultimo anno, l’hai reso indimenticabile. Non dimenticarmi troppo in fretta, ti amo <3.” Scrissi di fretta, cancellando alla fine le ultime due parole. Un “ti amo” rendeva tutto ancora più doloroso. Altri passi, questa volta più vicini.

  «Hellen, alzati immediatamente da quel letto che è già abbastanza tardi. So che non vuoi partire, ma non mi sembra il caso di farci perdere l’aereo.» la delicatezza nello svegliare di mia madre mi ricordò che in borsa avrei dovuto avere qualche medicinale per la testa che, una volta alzata dal letto, non smetteva di pulsare. Tirai debolmente la tenda, un piccolo raggio del sole di San Francisco bastava per illuminare metà della mia camera. Ecco un’altra cosa che mi sarebbe mancata della California, il sole (cosa che Londra, come tutti sappiamo, non vedeva molto spesso).

  Mi diressi scalza in bagno, fiondandomi direttamente sotto la doccia buttando il pigiama chissà dove. L’acqua tiepida che scivolava sul mio corpo mi dava sollievo, perfino la testa sembrava fare meno male. Era rilassante stare sotto quel getto d’acqua, mi faceva dimenticare momentaneamente dei miei problemi. Insaponai con cura i miei lunghi capelli color miele, per poi passare ad insaponarmi il resto del mio esile corpo. Altri passi, altre grida «Non perdere tempo, Hellen!». Secondo me avevamo delle telecamere nascoste, perché mia madre riusciva a sapere sempre tutto. Uscita dalla doccia, misi un filo di correttore, giusto per coprire le occhiaie dovute a quella notte, ed un po’ di mascara per mettere in risalto i miei grandi occhi color ghiaccio. Il trucco sinceramente era l’ultimo dei miei pensieri in quel momento. Notai che le lentiggini sul naso e sulle guance si erano accentuate per via dell’abbronzatura, feci una smorfia di disappunto e lasciai perdere. Asciugai appena i capelli con il phon, lasciando che il resto si asciugasse naturalmente e mi diressi di nuovo in camera.

  La luce amplificava la malinconia che provavo in quel momento. Quella che era stata per ben 7 anni la mia camera, ora era vuota, o per lo meno solo esteriormente. In realtà quella stanza era piena di ricordi: la mia prima insufficienza a scuola, la prima volta che ero stata rifiutata da un ragazzo, la prima volta che ero stata tradita, usata, sopravvalutata. La mia prima volta. La prima volta che delle mie amiche erano rimaste a dormire da me, tutte le volte che ci eravamo preparate insieme per uscire, il primo ballo del liceo, il diploma. Le risate, i pianti.. Tutti i miei ricordi sarebbero rimasti qui, a centinaia di migliaia di chilometri da me. Sospirai, mentre mi infilavo la biancheria intima.
  La porta si spalancò di colpo. «La mamma si sta chiedendo quanto ancora ci vuoi mettere per scendere a fare colazione. Stiamo aspettando solo te, siamo tutti pronti.» Eileen, la mia sorella di 15 anni, mi guardò sgranando gli occhi. Si stava preparando alla mia reazione.

  «Quante cazzo di volte ti ho detto di bussar… » incominciai io,  mentre allacciavo gli shorts voltandomi verso di lei, ma fui interrotta dalle sue parole.

  «Scusa, scusa!» gesticolava lei, cercando in qualche modo di calmarmi sventolandomi le mani davanti al viso. «Non volevo, è solo che me lo dimentico sempre! Non lo faccio apposta!» continuava in tono di scuse. Mi infilai di fretta il maglioncino bianco. In realtà in California faceva davvero caldo, sopratutto se in pieno giugno. In Inghilterra fa sempre freddo, e visto che l’atterraggio era previsto per quella stessa sera, era meglio essere muniti di maglione e giacca.

  «Di alla mamma che sto scendendo.» le dissi accennandole un piccolo sorriso. In fondo, anche se a volte mi mandava davvero fuori di testa, le volevo bene e in lei riuscivo a rivedere la me stessa di qualche anno fa. Eravamo molto simili esteticamente, eppure così diverse caratterialmente. Lei era meglio di me. Lei era più dolce, buffa, simpatica di me. Lei era tutto quello che non ero io, ed era questo a renderla perfetta.

  Le persone ormai tendevano troppo a paragonarmi alla perfezione, ma si sbagliavano. Io non sono come tutti credono perché un bel viso ed un bel corpo non rendono una persona perfetta. C’è molto di più oltre l’aspetto fisico, ma la gente non riesce a capirlo.

  «Ah, mentre stavi facendo la doccia è passato Alex… Ti ha lasciato questo.» mi porse un piccolo pacchetto con un grande sorriso tra le labbra, interrompendo il filo dei miei pensieri. Sussurrai un grazie, e buttai il pacchetto di fretta sul letto, visto che mia madre stava salendo le scale. Ormai ne riconoscevo il passo pesante. Misi le converse bianche e mi sbrigai ad uscire dalla camera con Eileen al mio seguito. Corsi al piano terra, dove vidi mio padre seduto al bancone della cucina preso a leggere il giornale. Dalla sua tranquillità poteva sembrare che fosse un giorno qualsiasi. Gli diedi un piccolo bacio sulla guancia e mi andai a sedere a quello che era stato “il mio solito posto”.

  «Questo lo chiamo sabotaggio, Nolan. Tua figlia Hellen ancora non ha sistemato le ultime cose in valigia! Ha perso tempo sotto la doccia, la signorina! E per fortuna che era ancora lì sotto quando è passato quel tipo! Non oso immaginare il ritardo che avremmo fatto se si fossero incrociati!» mia madre, maniaca del controllo e della puntualità, stava dando di matto. Scambiai uno sguardo complice con Eileen, nascondendo un mezzo sorriso in boccone di pancake.

  «Aghata, va tutto bene. Non siamo assolutamente in ritardo.» le disse mio padre in tono calmo. «Respira... Vuoi del caffè?» con uno sbuffo mia madre se ne andò al piano di sopra, probabilmente a sistemare altre cianfrusaglie, «facciamo un decaffeinato, allora». Scoppiammo tutti e tre a ridere, finendo di fare colazione. Corsi di nuovo in bagno, a lavarmi i denti e a mettere le ultime cose in valigia. Guardai il pacchetto “Ad Hellen Horan. Con affetto, Alex”. Misi il pacchetto nella borsa, dove presi anche la pasticca per il mal di testa, quando il telefono iniziò a squillare.

  «Pronto, chi è?» chiesi perplessa, il numero era sconosciuto.
 
  «Come chi è? Ti scordi così in fretta del tuo cugino preferito?Mi deludi, irlandesina!» la voce familiare di Niall mi fece scordare di tutta la tristezza che avevo provato di lì ad una settimana.
 
  «Vorrei potermi ricordare di te, caro il mio irlandese preferito, solo che da quando sei famoso cambi numero di cellulare ogni volta che lo salvo in rubrica!» dissi accennando una leggera risata.
 
  «Anche tu hai ragione, ti chiedo umilmente perdono. Zia mi ha detto che oggi arrivate a Londra, che ne dici se ci vediamo in settimana? O quando ti rimane più comodo a te, non ci vediamo da davvero troppo tempo» in sottofondo sentii un sonoro “Hellen mi manchi” che fu stoppato da qualcosa, poi sentii solo risate. «Harry non vede l’ora di rivederti!» risi nuovamente anche io. In pochi minuti mi avevano fatto tornare di buon umore.
 
  «Per me va benissimo, poi ti farò sapere se trovo un buco per voi, sai, tra tutti i miei impegni… Sarò strapiena tra le uscite con tutti i miei amici immaginari , perciò… Dì ad Harry che non vedo l’ora di rasargli a zero i capelli.» sentii un’altra risata, ed era l’inconfondibile risata di Niall. Sorrisi, chiudendo definitivamente l’ultima valigia. «Niall, ora devo scappare che dobbiamo caricare le valigie nel taxi… Non cambiare numero nel frattempo!» spinsi la valigia più grande a pedate fuori la porta.
 
  «Non ti deluderò, ci sentiamo! Salutami tutti!» ed attaccò.

  Il resto della giornata passò velocemente. Partimmo di corsa tormentati dall’ansia di mia madre del fare tardi e di perdere il volo. Arrivati all’aeroporto lasciammo subito le valige e prendemmo i biglietti. Ormai mi ero abituata e non avevo neanche più paura che perdessero le nostre valigie, al contrario di Eileen che ne era terrorizzata. Dopo il check-in passarono sì e no trenta minuti prima di imbarcarsi che, insieme a mia sorella, passai per i negozi dell’aeroporto. Di solito era in quel momento che i nostri genitori ci concedevano di comprare qualcosa, come per compensare un altro trasferimento. Come sempre, ne approfittai per comprarmi qualche sciocchezza, come una maglietta ed un maglione.

  Solo quando mia madre cominciò ad urlare che eravamo in ritardo, la consapevolezza della partenza mi piombò addosso. Ci imbarcammo sull’aereo e, dopo le spiegazioni delle hostess, guardai fuori dal finestrino. Erano appena le dieci di mattina, il sole era splendente sul mare che si intravedeva oltre San Francisco. Iniziò il decollo. Guardai un'ultima volta fuori dal finestrino e sospirai. “Addio California” pensai abbassando l’oscurante del finestrino e chiudendo gli occhiPassai il resto delle 11 ore a recuperare il sonno mancato quella notte.
  
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