Trecentoottantotto
Гражданская Война
Сибирячка
Graždanskaja Vojna
Sibirjačka
La guerra civile
siberiana
Четвёртая
Часть
Čitvjortaya
Čast’
Parte Quarta
Il tempo di morire
Stai nei miei occhi e racconti le
sirene e gli inganni del tuo sogno che va
Tu, ragazzo dell'Europa
Tu non perdi mai la strada
Tu che prendi a calci la notte
Bevi fiumi di vodka e poi ti infili i miei jeans
Tu, col cuore fuori strada...
(Ragazzo dell’Europa,
Gianna Nannini)
-Riferito a Feri-
[...]
Ieri sì, da giovane
La luce di ogni giorno portava una pazzia
La forza dell'età riempiva i giorni miei
E non vedevo mai il vuoto che c'è in lei
(Ieri sì, Charles Aznavour)
Krasnojarsk, 17 Marzo 1844
Venticinquesimo compleanno di Feri
Desztor
Come una malattia
Qualcosa entrò nel cuore
Che neanche il sole mai guarì
E cresce a non finire
Brucia da morire
Un giorno come un fior svanirò
Perché ormai
Non si cura
Questo
amor
(Come una malattia, Charles Aznavour)
Era tutta una questione di
tempo, in quei momenti.
Il tempo di risalire sul
cavallo, il tempo di trovare la forza d’ignorare le fitte delle ferite, e
inventare una nuova gravità.
Sebbene la volta
cristallina del cielo sia sempre troppo in alto, quando una lama o un
proiettile squarcia la carne, e la sella del cavallo paia quasi insormontabile,
se da lì dove sei caduto vedi solo gli zoccoli, e il solo strisciare sulla neve
per mezzo sazhen’ ti costringa a soffocare un grido...
Ѐ sempre una
questione di tempo, il tempo di morire
per sopravvivere.
Feri sentiva le mani nivee
e i capelli d’oro di Natal’ja sulla pelle, e invece era solo il suo sangue.
Feri ce l’aveva, la forza
di rialzarsi.
Era lei che gliela toglieva.
-Capitano! Tutto bene?-
gridò Innokentij, preoccupato dal tempo che impiegava a riprendersi, troppo tempo, e preoccupandosi si distrasse.
-Nočen’ka...-
Feri lo vide bene, lo
Zarista alle spalle del suo amico.
Lo sfidò con lo sguardo, certo
che sarebbe stato veramente capace di un gesto così meschino, del resto era uno
di loro, ma, come tutte le altre
volte, sperò ugualmente con tutte le sue forze che almeno uno di loro fosse un uomo d’onore.
Poi sentì lo sparo, e gli
sembrò di sprofondare nella neve più di quanto non avesse già fatto.
-Solo gli Zaristi
colpiscono alle spalle, Nočen’ka. Solo
gli Zaristi e quelli come loro.
Ma tu non preoccuparti,
no... Sei più forte di me, in questo
momento.
Dio, Nočen’ka, quando
t’innamorerai... Ti prego, non soffrire
mai così-
-Мой
Капитан...- mormorò il ragazzino,
senza fiato, con una smorfia di dolore.
Feri lo incoraggiò con gli
occhi, e lui non perse altro tempo.
Lo inseguì, quel tempo che
avrebbe potuto non bastargli, quel tempo ch’era sempre maledettamente poco, in quei momenti.
Si rialzò, Innokentij,
lottando con tutte le sue forze col bruciore del sangue che gli scorreva sulla
schiena, trattenendo le lacrime che mai come quel giorno avevano minacciato di
bucargli le palpebre, di farlo nel vero senso della parola, da tanto ch’era
violento il dolore.
Si rialzò e fece una cosa
straordinaria, quel minuscolo, giovanissimo Pietroburghese:
Innokentij Savel’evič Kovalev, studente
diciassettenne d’ingegneria militare al Genio Militare di San Pietroburgo, tese
una mano a Feri Desztor, venticinquenne terrorista ungherese ed eroe della
Rivoluzione.
-Io non lo so,
мой Капитан, quando m’innamorerò... Ma spero di riuscire ad amare tanto quanto
te-
Feri lo ringraziò con un
sorriso ed una pacca sulla spalla, stando ovviamente attento a non dargliela
troppo forte, considerata la ferita che aveva poco più giù.
Non c’erano parole per descrivere la stima che
aveva per quel ragazzino.
Ma il soldato zarista che
gli aveva sparato, evidentemente, non era altrettanto soddisfatto di quella
scena così meravigliosa.
-Ehi, Nočen’ka... Sei
tu, il minore dei Kovalev, no? Hai saputo di tua sorella e dei tuoi genitori?
Non ti hanno ancora scritto dalla loro cella ad
Omsk? O forse hanno troppo da lavorare?-
Nočen’ka sgranò gli
occhi smeraldini, a quelle parole.
Fece un passo indietro, e
non riuscì a rispondere nemmeno allo sguardo interrogativo del Capitano, in
realtà non riuscì nemmeno più a guardarlo, il Capitano.
Tenne gli occhi verdissimi
spalancati sulle punte dei suoi stivali neri, mentre ogni singola sfumatura
sarcastica delle parole dello Zarista gli scavava il cuore.
-Lidija...- sussurrò soltanto, con un fil di voce e l’aria persa, di feroce
impotenza che gli graffiava i bei lineamenti del volto, facendolo sembrare
ancora più giovane e terribilmente smarrito.
-Lidija? Oh, certo. Una vera bellezza, la tua Lidija.
Con quei lunghi capelli
proprio d’oro e quei begli occhioni grigi...
Peccato solo che sian
sempre così tristi! Dev’essere di gusti difficili, la piccina...
Nessun carceriere è ancora riuscito a farglieli
illuminare!
Ti saluta caramente, la
piccola Lidočka... Ma farnetica spesso, poverina, dice che tu la salverai...-
-Lidočka... Lidočka...- ripeteva sommessamente il nome della sorella,
Innokentij, e non riusciva a rispondere allo Zarista che lo sfidava con un
sorriso fin troppo soddisfatto, fin troppo odioso.
-Non rispondevi alle mie
lettere... E io pensavo semplicemente che ci fosse un ritardo delle poste, o
che tu fossi arrabbiata con me perché sono andato con Feri e ti ho lasciata da
sola...
Lo facevi anche quando
stavo in Accademia e avevamo litigato quando ero venuto a casa in licenza... Tu
non mi hai scritto per mesi per ripicca, e io un po’ ci stavo male, però ti
conoscevo, e... Lo sapevo, com’eri
tu... E invece tu... Non eri a casa, in questi mesi... Ti hanno portata via...
Ti hanno portata lì...-
Elena aveva Savelij.
Elena avrebbe sempre avuto
Savelij, perché l’aveva sempre amata troppo,
suo marito.
Ma Lidija...
Lidija, certo, aveva loro, la mamma e il papà, i suoi
genitori.
Aveva diciotto anni, poi,
non è che fosse proprio una bambina.
Era la figlia più grande,
sapeva darsi un contegno, sapeva responsabilizzarsi alla perfezione.
Ma era quell’implicita
complicità con Nočen’ka che scintillava in ogni sguardo, a darle la forza.
Lidočka senza di lui...
Innoček non riusciva
ad immaginarsela.
E gli faceva male, troppo male, immaginarsela.
Poi, d’un tratto, alzò
repentinamente la testa e puntò i suoi lucenti e fieri occhioni di smeraldo sul
volto sardonico dello Zarista.
Imbracciò il fucile e,
senza smettere di guardarlo negli occhi, gli sparò fino a fargli perdere quel
dannato sorriso, fino a vederlo
stramazzare nella neve.
Feri lo guardava
accigliato, ma orgoglioso.
Era preoccupato per lui, soltanto questo.
-Nočen’ka...-
-Va tutto bene, Capitano. Distruggiamo questi bastardi, ci medichiamo le ferite e
poi andiamo ad Omsk. Andiamo a prendere
Lidija-
Mi
basta il tempo di morire...
(Il tempo di morire, Lucio Battisti)
Note
Il tempo di morire, Lucio
Battisti.
Questo capitolo lo dedico
a George Harrison, il magnifico chitarrista dei Beatles che mi ha fatta
innamorare del nome “George”, che è morto da undici anni, e ieri era
l’anniversario della sua morte.
Quanto al capitolo,
preferisco lasciarlo commentare a voi ;)
A presto!
Marty