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Autore: Ranessa    18/06/2007    4 recensioni
Nei tarocchi marsigliesi "La Casa di Dio" indica catastrofi, disturbi psichici ed incoscienza.«Io morirò prima di te, ovviamente».
«Ovviamente?»
«Lo dicono le carte».
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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[ La Maison Dieu ]


Notai che le mancava un dito.
Quando era entrata nel negozio il campanello aveva emesso il solito, fastidioso tintinnio. Era zuppa di pioggia e aveva richiuso velocemente la porta alle sue spalle, appoggiandovisi poi pesantemente con tutto il corpo. Guardava fuori dalla finestra accanto alla porta, verso la strada grigia e trafficata della sera.
«Sta chiudendo?» mi chiese strizzandosi con la mano monca una parte dei capelli bagnati.
Era quella destra.
«Sì».
Solo allora si voltò a guardarmi, e ricordo che di lei mi colpirono il trucco sfatto e due lunghe rughe che le solcavano la fronte, nonostante fosse giovanissima, quasi una bambina.
«Posso restare qui per un po'?» domandò, lanciando un'occhiata al negozio intorno a sè e ancora oggi non so se, col senno di poi, preferirei averle detto di no.

Che non cercasse riparo dalla pioggia, ma rifugio da qualcuno, era chiaro. Si muoveva nervosamente, tenendo d'occhio di continuo le alte finestre mentre si spostava senza sosta nel negozio.
«Vendi delle cose proprio strane» furono le sue prime parole dopo avermi chiesto asilo. «E c'è chi le compra?» domandò poi, in maniera secondo me del tutto maleducata. Annuii nonostante lei, di spalle, non potesse vedermi.
«Come ti chiami?»
Ci pensò su per un po', rigirandosi tra le mani un piccolo quaderno rilegato in pelle, arancione. Osservai attentamente le sue mani, per vedere se le mancassero altre dita.
«Puoi chiamarmi Amelia».
«E' il tuo vero nome?»
«Tu come ti chiami?»
«Alfredo».
«E' il tuo vero nome?»
Rise, posando il quaderno sulla mensola dalla quale lo aveva preso. Aveva una risata estremamente sgradevole, che coprì per un attimo il rumore insistente della pioggia contro i vetri. In qualche modo mi ricordò della mia Isabella.
«Quanto costa?»
«Cosa?»
«Il quaderno».
«Diciotto».
«E' tanto».
«E' pelle».
Mi mossi da dietro il bancone per la prima volta da quando era entrata. Avevo in mano un piccolo straccio di stoffa e finsi di usarlo per spolverare qualche scaffale qua e là. Non fu l'imbarazzo a spingermi a farlo, non sentivo il bisogno di svolgere una qualsiasi attività per proteggermi dalla presenza di lei. Credo fosse semplice curiosità, l'idea di muovermi per il negozio esattamente come aveva fatto Amelia, provare a vederlo come doveva essere attraverso i suoi occhi.
«Ti piace?»
«Cosa?» era andata a prendere il mio posto dietro al bancone, quasi non volesse occupare la stessa parte del negozio in cui mi trovavo io.
«Il quaderno».
«Se dico di sì me lo regali?»
«Forse».
«No».
«No non ti piace?»
«No non voglio che me lo regali».
Non suonò maleducato, e nemmeno fuori luogo, ma mi spinse a tacere per un po', concentrandomi unicamente sui miei pensieri. E sulla pioggia.

«Pronto?»
«Alfredo».
«Maria».
«Si tratta di Isabella».
«Cosa è successo?».
«Le hanno sparato».


Decisi di osservarla quando ormai non avevo più mensole da spolverare o oggetti a cui cambiare di posto senza alcun motivo. Non le davo più di diciotto o diciannove anni e i vestiti che indossava, insieme alla pettinatura estremamente infantile, non aiutavano a farla apparire più grande. Non ricordo affatto i suoi lineamenti. Anche sul momento, mentre la fioca luce del sole che era sopravvissuta alla pioggia cominciava a scomparire portando con sé le ombre delle cose, non riuscivo a imprimerli nella mia mente. Appena distoglievo lo sguardo dal suo viso, già lo avevo dimenticato, ad eccezione del trucco, le due rughe e i codini infantili. Quando oggi ripenso al suo viso è solo una macchia di colore, ma non saprei dire quale. So però che i numerosi braccialetti che indossava sarebbero piaciuti alla mia Isabella. Tintinnavano ad ogni suo movimento, ma senza mai risultare fastidiosi come lo era il campanello alla porta. Quando accesi l'unica luce del negozio, mandarono bagliori argentati per tutta la stanza.
Iniziai a chiudere le imposte delle finestre e il cigolio improvviso dei cardini la fece trasalire.
«Stai chiudendo le finestre?» mi chiese.
Io feci scattare la maniglia dell'ultima prima di risponderle: «Lascio aperta la porta, per quando dovrai andartene». Lo dissi senza sapere se la scelta del termine dovere sottintendesse un mio futuro ordine perentorio o una sua autonoma decisione. Chiusi anche la saracinesca per metà e quando la strada su cui dava il negozio non fu più visibile da alcuna parte, Amelia parve più serena, come se nascondere la via alla vista equivalesse a cancellarla istantaneamente dalla realtà, insieme ad ogni edificio che vi si affacciasse e ad ogni individuo che la percorresse.
«Da chi stai scappando, Amelia?»
«Non sto scappando».
Infilò la mano destra in una tasca e ne estrasse una sigaretta estremamente sottile.
«Ho solo bisogno di riposare un po'».
Teneva la sigaretta stretta tra il pollice e il medio, perchè era l'indice che le mancava, questo lo ricordo molto bene.
«Cosa hai fatto alla mano?» le domandai, non provando nemmeno ad impedire che la mia voce si velasse di morbosa curiosità.
«Non sei affatto gentile a chiederlo» replicò, poggiando i gomiti sul ripiano polveroso del bancone.
«Scusa». Mi stupii di sentirmelo dire, perchè in fondo, analizzando la situazione, era chiaro che la ragazza mi dovesse come minimo delle risposte, anche alle domande più stupide ed indiscrete.
«Hai fame?» Speravo che dicesse di sì. Io ne avevo parecchia e volevo che venisse con me a comprare qualcosa al bar dall'altra parte della strada perchè non mi fidavo a lasciarla sola nel negozio, ma lei scosse la testa. Del resto dovevo immaginare che non sarebbe stata disposta a uscire di lì così presto.
Presi la sedia che stava vicino alla porta e andai a sedermi alla cassa, a pochi metri da lei. Amelia alzò la mano monca sventolandola nella mia direzione.
«E' stato un cane» spiegò, ridendo della sua risata cupa e sgraziata.
Ancora non aveva acceso la sigaretta che stringeva tra le dita.

«Dovresti smetterla».
«Di fare cosa?»
«Di fumare».
«Isabella...»
«Ne riparleremo quando sarai stecchito, stupido. Morto di cancro come un ratto malato per la strada».
«E come faremo a parlarne, di grazia, se sarò morto?»
«Ma io morirò prima di te, Alfredo, ovviamente».
«Ovviamente?»
«Lo dicono le carte».
«Sono tutte sciocchezze, mia cara».
«Oh, non lo sono affatto, invece, proprio per niente».
«D'accordo, Isabella».


Amelia si alzò all'improvviso, quasi fosse stata punta da un insetto infido e velenoso.
«Tu non lo sai, ma io ho dei poteri» mi confessò in tono cristallino, sorridendomi con aria inspiegabilmente complice.
Quel tu non lo sai iniziale mi colpì più dell'affermazione che lo aveva seguito. Mi chiedevo come avrei potuto sapere qualcosa, una qualsiasi cosa, su di lei.
«Davvero» si premurò di sottolineare, probabilmente scambiando il mio silenzio per scetticismo, o derisione persino.
«Non mi credi?»
«La gente ti crede di solito, quando glielo dici?»
«Non l'ho mai detto a nessuno, prima d'ora».
«Dovrei sentirmi lusingato?»
«Non lo so. Ti senti lusingato?»
«Non lo so».
«Hai delle carte?»
Ripose la sigaretta ancora intatta nella tasca da cui l'aveva presa e tornò a muoversi per il negozio.
«Carte?»
«Carte» confermò. «Tarocchi».
Mi sistemai più comodamente sulla sedia prima di indicare uno scaffale alla sua sinistra. Amelia mi incuriosiva, e l'avrei assecondata, perchè non riuscivo a rendermi conto dell'assurdità di quella situazione.
Si alzò sulla punta dei piedi per raggiungere la piccola scatola di legno dove conservavo le carte della mia Isabella. Speravo che un giorno qualcuno le comprasse, liberandomi della loro opprimente presenza, per questo le tenevo nel negozio, eppure sapevo che non sarei mai riuscito a separarmene. Le rare volte in cui qualche cliente le prendeva in mano mi venivano le lacrime agli occhi, come se avessi paura che lui o lei potesse guardarmi un istante per poi decidere di mettersi a correre verso la porta, scappare con le carte della mia Isabella ancora in mano e non farmele rivedere o toccare mai più.
Amelia tornò al bancone con la scatola in una mano. Le fece posto tra i fogli e le cianfrusaglie che ricoprivano il ripiano. Quando l'aprì con delicatezza, non un granello di polvere si alzò dal legno antico, cosa che stupì notevolmente la ragazza. Si voltò a guardarmi con occhi scintillanti di gioia. Tirò fuori le carte e iniziò a mischiarle con la mano destra, girandole sul bancone in cerchi concentrici in senso antiorario. Osservai a lungo, senza rendermene conto, l'ampio spazio che la mancanza del dito indice lasciava tra pollice e medio mentre lei continuava a smazzare le carte.
«Così non si neutralizzano i fluidi» disse. «Non bisogna contrariarli».
Iniziò a estrarre le carte con estrema cautela, posizionandole sul banco a formare una figura geometrica che non avevo mai visto utilizzare dalla mia Isabella. Le scoprì rapidamente, come quando si deve togliere un cerotto e lo si fa con un unico colpo deciso, perchè il dolore arrivi e passi in un istante.
«Sono per me?» le domandai, non particolarmente interessato al loro responso. Non credevo a quelle sciocchezze allora come non ci credo adesso, ma capivo perchè potessero essere prese così sul serio da alcune persone. Credo che questo sia piaciuto ad Amelia, come alla mia Isabella prima di lei. Il fatto che le rispettassi.
«No» rispose lei, scuotendo impercettibilmente la testa. «Sono per me».
Scoprì l'ultima carta, quella al centro della figura, e quando i suoi occhi individuarono le linee nere e nette che creavano l'immagine del tarocco, tirò un lungo fischio, carezzando amorevolmente la carta.
«La Torre» sussurrò.
«No» la corressi immediatamente quasi sovrappensiero, senza realmente pensarci. «La Casa di Dio».
Amelia mi guardò con occhi carichi di stupore, scostandosi i capelli ancora fradici di pioggia dalla fronte con un gesto secco della mano monca.
«Sono Marsigliesi» sottolineai con falsa competenza. «Non è la Torre, è la Maison Dieu».
«Li conosci».
«Poco».
«La Casa di Dio. Guarda» mi indicò ad una ad una le altre carte scoperte, in un ordine che non era quello in cui le aveva estratte. «Sai cosa significa?»
«No».
«Che sto per morire».
«Quando?»
«Oggi. Ci credi?»
«No».
«E' sempre così quando le previsioni sono brutte. Sei come tutti gli altri».
«Non si può prevedere la propria morte con le carte».
«Ne sembri convinto».
«Se hai davvero questo potere perchè non lo hai usato per proteggerti?»
Attesi che mi rispondesse, ma lei si limitava ad osservarmi smarrita, senza comprendere il senso della mia domanda.
«Il cane. Perchè non l'hai visto, il cane che ti portava via un dito? Puoi prevedere la tua morte, ma non questo?»
«Non l'avevo ancora il potere, è venuto soltanto dopo. Dopo che ho perso il dito».
«E' venuto perchè lo hai perso?»
«Bisogna rinunciare a qualcosa, se si vuole possedere qualcos'altro».
Scoppiai a ridere, senza riuscire a trattenermi nemmeno di fronte alla sua sconvolgente serietà e per un momento, uno soltanto, mi domandai che fine avesse fatto il mio rispetto.
«A questo hai rinunciato?» le domandai, con una cattiveria che non era nelle mie intenzioni e di cui in seguito mi sono sempre profondamente pentito.
«E' bastato un dito?»
«No».
Un rumore metallico provenne dalla strada. Apparentemente un oggetto che scorreva sul legno delle imposte al di fuori del negozio.
«Non soltanto quello».
E poi Amelia mi diede le spalle, voltandosi a guardare verso la porta. Si alzò, per dirigersi lentamente al centro del negozio. Capii che si aspettava di veder entrare qualcuno da un momento all'altro.

«Alfredo? Ci sei ancora?»
«Chi è stato?»
«Siamo in ospedale».
«Chi è stato?»
«Alfredo?»
«Sì?»
«Vieni».


Entrò. Abbassandosi per riuscire a passare sotto alla saracinesca chiusa per metà. Oggi non ricordo nemmeno il suo viso, tranne il naso adunco e un neo particolarmente grande che aveva sulla fronte, vicino alla tempia sinistra. Le sue scarpe lasciavano sul pavimento le tracce della pioggia che ancora non aveva smesso di cadere lugubre e fitta.
Pensai di chiedergli chi fosse, ma lui tolse la sicura alla pistola e sparò.

«Visto?»
«Che cosa?»
«La carta risultante, Alfredo. La Casa di Dio».
«Che carta è?»
«Indica catastrofi».
«Ma non puoi prevedere la tua morte con le carte, me lo hai detto tu».
«Quando?»
«Non lo ricordo».
«Ti ho preso in giro».
«Chi mi dice che non lo stai facendo adesso?»
«Le carte».
«La Casa di Dio?».
«La Maison Dieu».


Amelia si era accasciata al suolo, il sangue che già le scorreva addosso, impregnando i suoi vestiti e allargandosi inquietante sul pavimento intorno a lei. Mi ritrovai stranamente a pensare che nulla di ciò che stava accadendo mi riguardasse, nonostante quello fosse il mio pavimento e l'espositore a cui lei si era aggrappata ferocemente scivolando a terra, e che giaceva ora alle sue spalle, fosse il mio espositore.
Amelia non emise neanche un suono, non un sibilo, non un sussurro né una parola. Guardava l'uomo, mentre lui nascondeva la pistola tra le pieghe del suo lungo cappotto e percorreva con lo sguardo l'intero negozio. Sfiorò con le mani guantate di nero qualche oggetto. Desideravo che dicesse qualcosa. Volevo sentire la sua voce, perchè aveva ucciso Amelia e il minimo che potesse fare, pensai, era farmi sentire la sua voce. La immaginai roca, modulata dal fumo, perchè un uomo così doveva per forza fumare, e distante. Ma non disse niente, guardò la ragazza un'ultima volta e poi si diresse verso la porta. Fuori, sulla strada, armeggiò qualche istante con la saracinesca e poi riuscì a tirarla giù fino a farle incontrare l'asfalto del marciapiede, vincendo la ruggine e chissà quali altri ostacoli.
Solo quando fui sicuro che se ne fosse andato lasciai il bancone per andare a sedermi in terra, con molta calma, per poi sollevare la ragazza da dietro le spalle e abbracciarla.
«Amelia...» iniziai, e non piansi alcuna lacrima, ma lei mi zittì all'istante, portando una mano sporca di sangue scuro a coprirmi le labbra. Fece un ultimo sforzo per confessarmi il suo vero nome mentre spirava tra le mie braccia.
«Grazie» le dissi, prendendole con delicatezza la mano che mi impediva di parlare. Quella a cui mancava un dito, credo, ma non ne sono più tanto sicuro, e che stringeva ancora con decisione la Casa di Dio.
«Grazie per la verità».
Mi domando se l'abbia sentito.

   
 
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