Capitolo 2: Amici come prima
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A volte
sentire i commenti acidi delle mie amiche (perlomeno coloro che avrebbero
dovuto esserlo) su di me e su come mi comportassi mi faceva stare male, soprattutto
perché ero stata io stessa ad ispirarli.
Gli avevo
raccontato ogni piccola porzione della mia vita e delle mia storia perché
volevo essere sorretta, aiutata, confortata, da qualcuno.
Tutte quelle
cose brutte, tutte quelle voci non le venivano mai a dire alla sottoscritta:
buon viso a cattivo gioco, proprio come faceva quella faccia d'angelo per cui
avevo tradito Marco.
Bastò un
finto sorriso e un paio di finte parole carine e io mi buttai in quello che
sarebbe stato poi il più grande casino della mia vita.
Sesso senza
amore,
così dicevano.
Tutte le mie
amiche erano convinte che fossi una specie di puttanella a comando. Lui
chiamava io andavo, e facevo tutto quello che voleva, ogni volta.
Effettivamente questo era proprio quello che succedeva, tranne un particolare,
un piccolo particolare che non si poteva di certo considerare insignificante:
Io lo amavo.
Amavo, non
facevo solamente sesso. L'amore che sentivo dentro in quei minuti in cui lui si
divertiva ad annullarmi e mortificarmi potevo sentirlo esplodere e crescere
come un tumore che si stava espandendo, impadronendosi di quel poco che ancora
era rimasto sano in me.
Violando le
regole che io stessa mi ero imposta riguardo al fatto di farmi sentire al
massimo un paio di volte a settimana, lo chiamai:
"Cucciola,
come mai questa telefonata improvvisa?
Già ti
manco?"
"Si"
"Anche
tu, se potessi correrei subito da te, sul tuo letto, ora"
La solita
storia, bastavano due parole e io impazzivo. Morivo dalla voglia di farlo mio
ancora una volta, anche se, a pensarci bene,
davvero mio non era mai stato.
"Vorrei
che lo facessi"
"Lo so
cucciola ma sono a Praga fino alla settimana prossima"
"A
Praga?"
"Si,
non te l'avevo detto?"
"No"
No non l'hai fatto, me ne
ricorderei, no te non parli con me, non senti minimamente il bisogno di dirmi
cosa cazzo fai quando non sei con me, non ti passa nemmeno lontanamente per
l'anticamera del cervello, no. Io non esisto. Quando non sono con te sotto le
lenzuola, non esisto.
"Credevo
di si, comunque va beh non tornerò prima di lunedì prossimo"
mancavano nove fottuti giorni.
Ero incapace
di parlare, troppo concentrata a reprimere una sfuriata che sarebbe sfociata in
tanti insulti e un pianto isterico.
"Ce la
farai senza di me fino a lunedì?"
"Si, mi
inventerò qualcosa"
Mentivo, non
potevo dargliela vinta.
"Brava,
esci piccola, divertiti. Ma ricorda che sarai mia quando torno. Devo scappare.
Un bacio. Ciao"
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Mi prese in
giro in macchina da casa mia al bar, rideva e mi prendeva in giro.
Ordinò i due
caffè, si mise di fronte a me e si accese una sigaretta.
Era una
tipica giornata autunnale, ma dietro quelle nuvole scure che ormai stazionavano
lì in cielo da giorni si intravedeva un po’ la luce del sole.
L'idea che fosse li e che si potesse intravedere mi faceva stare bene,
sarebbero spuntati presto i primi raggi e la giornata sarebbe migliorata,
come la mia
vita, con Alessandro vicino.
Il mio
sguardo passò dal grigiore del cielo al fumo della sigaretta, al suo cappotto
nero e alla sua espressione pensierosa prima di confondersi con il suo.
Osservare è
sempre stato quello che sapevo fare meglio, adoravo spalancare i miei occhi
castani e sbirciare il mondo,
sempre con
una bella dose di fantasia, dipingendolo a volte migliore di quello che era.
Emozioni e attimi si confondevano e gli occhi cercavano di parlare per me e di
farmi capire mentre spesso le parole restavano bloccate ancora prima di lasciare
l'angolo ignoto del cervello in cui venivano generate.
Adoravo
guardare intensamente gli occhi di qualcun altro, soprattutto quando riuscivo a
leggere cosa volevano raccontarmi:
Con Ale ci riuscivo, gli sguardi tra noi erano sempre più eloquenti
di ogni spiegazione, battuta, discorso.
In quel
pomeriggio mi parlò degli ultimi mesi che aveva trascorso, in cui non ci
eravamo sentiti:
Aveva
litigato con suo fratello perché voleva trasferirsi a Berlino da una ragazza
che aveva conosciuto ormai da un paio di anni, lasciando suo padre a casa da
solo con lui.
"Ele io non ce la faccio da solo, lui ha bisogno di aiuto e
io non so come…"
Gli avevano
diagnosticato una forma di leucemia senile, aveva bisogno di trasfusioni una o
due volte al mese, peggiorava di giorno in giorno…
parlò
prevalentemente lui, della sua famiglia, di come stesse crollando poco a poco
tutto e di come fino al mese scorso non si sarebbe mai aspettato di ritrovarsi
in questa brutta situazione, si scusò con me per non essersi fatto sentire, sapeva
che era colpa sua e anche se non l'aveva mai ammesso ne l'avrebbe ammesso oggi,
domani, o dopodomani, mi considerava davvero importante.
Quest'ultima
cosa, che ovviamente non mi disse, la colsi, ne ero sicura,
parlarono i suoi occhi.
Mi sentì in
colpa per averlo giudicato, per aver pensato in quest'ultimo mese che lui mi
avesse usato come e quando gli era stato comodo per poi salutarmi quando non
voleva avermi intorno. Ora che sapevo che non era mai stato così avrei voluto sapermi
esprimere meglio, sorridergli e
dirgli che gli volevo bene e che gli sarei sempre stata vicina, che anche lui
era importante per me e che insieme, come avevamo fatto fin'ora avremmo potuto
affrontare tutti i mali del mondo.
Ma non lo amavo? Non era questo
che gli volevo dire?
Forse no…
Ci stavo pensando mentre lo
sentivo parlare dell'ultima figuraccia che aveva fatto con il padre di un suo
amico,
che forse era davvero tutto li, e
lo era sempre stato, incredibilmente vicino quanto incredibilmente lontano.
Non sentivo il minimo bisogno di
sfiorarlo, ne di baciarlo,
di abbracciarlo si, ma come un amico, un caro
amico,
il più caro al mondo.
A casa quella sera stessa gli
scrissi un messaggio che non avrei mai inviato:
"Ero arrabbiata con te solo perché
ho avevo paura di perderti,
ora non ne ho più,
Amico mio ti voglio bene,
come prima,
come sempre."
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