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Autore: Aelle Amazon    01/12/2012    8 recensioni
Evangeline Smith ha diciassette anni e pensa che la sua vita sia una vera merda. Odia tutti, odia anche se stessa.
Quando scoppia un improvviso temporale le cose cominciano a cambiare. Scopre che gli dèi Olimpi esistono e che sono stati imprigionati dai terribili Titani. Gettati in gabbie sporche, gli dèi hanno deciso di privarsi dei loro poteri per darli ad un mortale prescelto. I Discendenti- così sono chiamati i mortali prescelti- devono risvegliarsi e salvare gli dèi, altrimenti per il mondo sarà la fine.
Ed Evangeline è una di loro.
[STORIA MOMENTANEAMENTE SOSPESA]
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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volcano 11
Avevo detto che sarei tornata, vero? Ed eccomi qui, sperando che qualcuno ancora si ricordi della mia presenza.
Vi ricordate il teaser che avevo messo? Beh, ecco, dimenticatelo. Mi sono accorta che questa parte stava meglio se messa in questo punto, perciò eccola qui, pronta per essere letta. Prima o poi comunque avrei dovuto metterla, comunque.
Sono un po’ di fretta, ma ci terrei a ringraziare tutti coloro che hanno recensito lo scordo capitolo, ovvero: Ailea Elisewin, Dafne Rheb Ariadne, Ryo13, FherEyala, AleJackson, La sposa di Ade e Ahrya. Un grazie va anche a chi ha messo la storia fra le preferite, seguite e ricordate. Veramente grazie!
Concludo dicendo un’ultima cosa: questa storia è frutto della mia fantasia, è stata scritta da me e viene pubblicata solamente su EFP. Pertanto se la vedete pubblicata da qualche altra parte, avvisatemi e prenderò i giusti provvedimenti. 
Grazie mille!
Un bacio e alla prossima!
Aelle
 
 



Volcano



11

 
 
 
 
Preghiere di dèi
 
 
 
 





Apollo lottò con la stanchezza e si sollevò a sedere in quello spazio angusto e opprimente. Tuttavia non osò appoggiarsi alle sbarre della gabbia in cui era rinchiuso. Sapeva che se l’avesse fatto sarebbe stato fulminato fino a perdere i sensi.

Eppure non riusciva ad ignorare le grida disperate di sua sorella. Dall’altra parte del muro, Artemide lottava, scalciava e si dibatteva come un’indemoniata, pronta, se avesse potuto farlo, anche ad uccidersi piuttosto che ad essere violentata.
Sentiva il disgusto che quelle mani brutali le provocavano ogni volta che la toccavano, il vomito che le attanagliava lo stomaco e la paura le faceva battere il cuore all’impazzata. Erano le stesse emozioni che provava lui. Collegato alla sua gemella tramite un legame indissolubile, Apollo era persino in grado di vedere attraverso i suoi occhi. Condivideva con lei pensieri di cui altri nemmeno conoscevano l’esistenza ed era vittima delle stesse emozioni. Erano felici insieme, tristi insieme, arrabbiati insieme.
E il dolore che lei pativa in quel momento si riversava nelle sue vene con la forza di un uragano. Artemide era uno spirito libero, selvaggio, poco incline alle regole. Viveva nella natura incontaminata, lontana dall’Olimpo, dove tutti gli altri dèi, fatta eccezione per Demetra, Poseidone e Ade, risiedevano.
Apollo si abbracciò e lentamente infuse quel calore alla sorella, tentando di sovrastare le impronte sudice che quel mostro le aveva lasciato sulla pelle. Seppur impercettibilmente, i muscoli della dea si rilassarono, ma lei non smise un attimo di mordere e graffiare furiosa.
Artemide era una dea vergine. Non era mai stata toccata dall’amore, tantomeno aveva mai provato desiderio per un uomo. Era stata una delle sue prime decisioni e non era mai venuta meno al suo voto di castità. Orione, Atteone e tutti coloro che l’avevano anche solo guardata erano andati incontro a fini terribili. Per lei lo stupro era una violenza malsana, ripugnante, e il fatto di poterne vivere una in qualsiasi momento l’aveva terrorizzata a tal punto che non distingueva più ciò che accadeva realmente da ciò che, insano, germogliava nella sua testa. Era sull’orlo della pazzia.
Era stata l’ultima ad essere rapita e da allora ogni giorno era stato una lotta continua. Si ribellava al suo destino con tutta la forza che aveva, scrollandosi di dosso i corpi che si distendevano vogliosi sul suo.
Era una gabbia aperta, la sua. Qualsiasi depravato poteva entrarvi e attentare alla sua verginità. Fortunatamente non ci erano ancora riusciti.
Percependo la follia della gemella, Apollo non poteva fare altro che addolorarsi per lei. Come dio della ragione, la pazzia era per lui insopportabile, oscura tanto quanto luminosa era la sua luce. Non sarebbe riuscito a resisterle a lungo, era certo che presto vi avrebbe ceduto. Tutto quello che doveva fare era ritardare quel momento. Un mondo senza ragione sarebbe precipitato nel caos.
Uno strillo più acuto degli altri lo fece rabbrividire. Spaventato, avvicinò la propria mente a quella di Artemide, fondendosi con lei fin quando non riuscì a vedere con i suoi occhi.
Un braccio circondò la vita sottile della dea e una mano impaziente le strappò la veste, palpandole la coscia. La sollevò senza sforzo, incurante dei suoi morsi e delle sue grida, e la sbatté malamente sulla pietra. Le spalancò le gambe e vi si piazzò in mezzo. Chiunque stesse tentando di violentarla, rideva, godendo del suo terrore. Lui lo riconobbe: era il carceriere, l’umano.
Agli strilli si unirono i singhiozzi. Apollo interruppe il contatto e preso dalla furia si gettò sulle sbarre, cercando in tutti i modi di uscire.
Doveva salvarla. Era un suo dovere.
-Artemide!-
Urlò quando la prima scossa lo trafisse. L’elettricità salì vorace lungo le sue braccia, gli bruciò il volto e arrivò alla schiena, che rischiò di spezzarsi. Ma Apollo non lasciò andare le sbarre. Anzi, vi si aggrappò con più forza.
Fu una tortura. L’icore sgorgava a fiotti dalle ferite, le grida gli uscivano spontanee dalla bocca, ma ottenne quello che voleva.
Con uno sbuffo scocciato per non essere riuscito a concludere, il mostro si alzò dal corpo di Artemide. A passi pesanti si avvicinò alla sua gabbia, chinandosi per guardarlo in volto.
-Taci- ringhiò, il volto sfigurato dalla rabbia. –Taci, se non vuoi che torni di là e oltre a violentarla la torturi anche. Per quella puttana di tua sorella lo stupro non è una punizione adeguata.-
Fulmineo, Apollo tese un braccio e lo agguantò alla gola con una mano. Le scosse che stava ricevendo si trasmisero attraverso il legame che aveva creato e lo stesero.
Guardando quell’ammasso di carne bruciata, Apollo provò soddisfazione. Sapeva che da lì a poco sarebbe crollato, ma la consapevolezza di essere riuscito a salvare Artemide lo rese felice.
Poi sprofondò nel buio.
 
Non doveva piangere. La Regina dei Cieli non poteva permetterselo.
Rannicchiata in un angolo di quella gabbia soffocante, le gambe strette al petto e il mento appoggiato sulle ginocchia, la dea Hera cercava di trattenere le lacrime che premevano per uscire.
Un singhiozzo sfuggì al suo controllo, ribelle. La dea alzò una mano e la premette contro la bocca, reprimendo gli altri singhiozzi che volevano scapparle dalle labbra.
Si fece forza. Doveva resistere, come aveva sempre fatto. Doveva persistere nel credere che tutto sarebbe andato a finire bene. Eppure, dopo tutto quel tempo in cui era rimasta prigioniera … .
In realtà non sapeva quanto tempo fosse trascorso dal giorno in cui era stata strappata dalla sua casa sull’Olimpo e trascinata fino a lì, in quell’orrido luogo così poco consono ad una personalità importante come la sua.
Potevano essere passati solo alcuni minuti, o poche ore, o addirittura mesi. Pregò con tutto il cuore la madre Rea, sperando di non essere rimasta abbandonata lì per anni o, peggio, secoli.
Non che potesse continuare a illudersi ancora per molto. Come prigioniera non distingueva il giorno dalla notte, mangiava solo quando vi era costretta e dormiva raramente. I suoi carcerieri stavano bene attenti a tenere l’ambrosia lontana da lei perché avevano visto quanto diventava aggressiva anche solo sentendone il profumo. Ma Hera non poteva farne a meno: l’ambrosia era il nettare degli dèi, l’unico cibo in grado di risanare qualsiasi ferita. Di certo i suoi aggressori non potevano rischiare un pericolo del genere, così le gettavano un pezzo di pane secco attraverso le sbarre e si divertivano a posizionare una caraffa d’acqua putrida esattamente dove sapevano che non sarebbe riuscita ad arrivare. E più si sforzava, più diventava debole.
Era in quei momenti che si domandava in quali condizioni si trovasse Zeus, suo marito. Quell’uomo che per secoli e secoli aveva odiato per i suoi continui tradimenti e di cui ora sentiva la mancanza. Alzare la voce contro di lui, litigare e fare pace per le cose più impensabili: persino quei piccoli aspetti di quotidianità che prima riteneva snervanti le mancavano.
Ma non era quell’assenza a farle più male, erano gli abusi. Non sapeva con esattezza quanto tempo passasse tra uno e l’altro, ma periodicamente i suoi carcerieri umani –razza ignobile- venivano a visitarla, e non per portarle del cibo. Si infilavano in quella piccola gabbia, le sorridevano crudeli, si calavano in fretta i pantaloni e la violentavano. E lei subiva, stringendo i denti finché non li sentiva scricchiolare.
Hera non era una dea vergine. No, assolutamente. Aveva sedotto così tante volte il marito che a malapena se le ricordava tutte. Ma Hera era soprattutto la dea del matrimonio e dal momento in cui si era sposata con Zeus ogni forma di tradimento le era proibita, vietata nel senso più assoluto. Ogni volta che quegli uomini spregevoli abusavano del suo corpo una mano estranea le catturava il cuore in una morsa dalla quale non riusciva a liberarsi. E stringeva, stringeva finché le unghie non lo perforavano, facendolo sanguinare copiosamente. Sulla pelle altrimenti liscia e bianca spuntavano strisce dorate, profonde e terrificanti a vedersi. Il respiro le veniva meno e cominciava a sentire freddo. Sempre più freddo, sempre più gelo, fino a quando non le pareva di annegare in un oscuro abisso di dolore.
Era sporca, sapeva di esserlo.
-Maledetti- gorgogliò mentre le lacrime prendevano il sopravvento e le bagnavano le guance. –Maledetti dagli dèi, per l’eternità. Vi ucciderò. Avrete una morte lenta, dolorosa, non veloce come si addice agli eroi. Finirete nelle tenebre più buie del Tartaro.-
 
Il corpo pieno di bruciature e tagli profondi, Poseidone sognava il mare, lo sciabordio delle onde che si infrangevano sulla costa.
Non era più in grado di controllarlo a suo piacimento, non lo sentiva più adattarsi ai suoi stati d’animo, perlomeno non da quando aveva ceduto i suoi poteri ad un mortale. Qualcuno in cui aveva riposto tutte le sue speranze, qualcuno che ancora non era venuto a salvarlo.
E in certi istanti si domandava il perché. Perché gli dèi si ostinassero tanto ad aiutare il genere umano se quando avevano bisogno non venivano mai ricambiati. Perché esistessero persone così malvagie da voler rapire gli dèi, loro creatori, e torturarli.
In verità, la lista di domande che gli vorticavano in mente era infinita. Erano pensieri confusi, indistinti, ma Poseidone conosceva se stesso da troppo tempo e troppo bene per non sapere cosa aveva in testa. Distingueva quelle domande, se le era poste tutte ogni giorno da quando era stato rapito, una per una. Mai una volta era riuscito a rispondere.
Cercò di sgranchirsi le braccia, ma legate com’erano alle sbarre della gabbia era impossibile. Le ossa gli dolevano, i muscoli tiravano, i tagli bruciavano e le ustioni lo consumavano.
Era un vero e proprio strazio. Uno che non sarebbe finito entro poco, ma sarebbe andato avanti per l’eternità, a meno che qualcuno, il suo Discendente magari, non lo avesse tirato fuori. Se doveva essere sincero si sentiva un po’ come Prometeo, che incatenato alla cima del Caucaso attendeva con orrore il ritorno dell’aquila che avrebbe divorato il suo fegato che, immortale, sarebbe ricresciuto.
Gli dèi spesso avevano punito gli uomini, ma mai avevano provato sulla loro pelle la durezza di quei castighi. E forse era per quel motivo che Poseidone sapeva di aver superato la sua soglia di sopportazione del dolore. Non avrebbe retto per molto tempo ancora.
In quel momento il pavimento della sua prigione scricchiolò, poi, lentamente, cominciò ad aprirsi. Con un rombo assordante, le fiamme divamparono alte, lambendogli i piedi in una carezza bruciante. Poseidone tentò di sfuggire al fuoco, rintanandosi sul fondo della gabbia, ma poi comprese di non aver scampo. Quando il pavimento si fosse spalancato del tutto lui sarebbe precipitato.
Guardò quel mare di fuoco con occhi annebbiati, deglutì per farsi coraggio e si lasciò cadere.
Aiutami, Brianna.
 
 






Icore
: fluido che si credeva che scorresse nelle vene degli dèi. Le ferite di Hera sono tagli dorati appunto per questo motivo, perché l’icore è color oro.












  
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