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Autore: Glory Of Selene    02/12/2012    1 recensioni
"Vai, vai, bellezza, il viaggio alla riscoperta del tuo passato comincia ora. E, chissà, magari imparerai anche qualcosa"
Cosa succederebbe se Tuomas e i Nightwish fossero trasportati in una favola, all'inseguimento di alcune delle loro vecchie canzoni?
Genere: Fantasy, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anette Olzon, Erno Vuorinen, Jukka Nevalainen , Marko Hietala , Tuomas Holopainen
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Tuomas chiuse gli occhi, e prese un respiro profondo.
Stava per dirlo.
Non poteva crederci, stava per dirlo.
Riaprì gli occhi, raccolse tutto il coraggio che riusciva a trovare e aprì lentamente la porta di casa.
«Dobbiamo entrare nella Capitale.»
Marco si era rimesso in piedi già da qualche giorno, ma gli avevano imposto a forza di rimanere riguardato, pur sapendo benissimo che scalpitava per uscire da quella situazione di finta tranquillità che stava sfibrando un po’ tutti ormai.
Cinque paia di occhi lo fissarono attonite nello stesso esatto momento.
«Che?»
La faccia sconvolta di Emppu sarebbe stata anche divertente, se la situazione non fosse stata così tragica.
Jukka ridacchiò ed infilò nella cintura il pugnale che stava affilando. «Curioso. Pensavo che  la Capitale fosse esattamente il posto che dovevamo evitare.»
Marco e Lisanna entrarono in quel momento, e solo allora Tuomas si accorse del gran sorriso sul volto del vichingo, e delle guance rosse di lei, sotto la luce felice nei suoi occhi verdi. Lui le cingeva la vita, e al tastierista venne un terribile sospetto.
Lanciò uno sguardo allarmato ad Emppu, ma lui era rimasto a riflettere su quello che voleva dire entrare nel covo del nemico e non aveva certo la testa per occuparsi delle questioni amorose dell’amico.
«Ehi, perché quelle facce scure?»
«A quanto pare adesso la nostra meta è La Città.» gli rispose Anette, seduta al tavolo con uno sguardo serio.
Marco s’irrigidì sulla soglia di casa, e tolse lentamente il braccio dai fianchi di Lisanna, come se si fosse ricordato improvvisamente quale dovesse essere il suo posto. «…La Città.» ripeté. Attraversò piano la stanza, prese una sedia e vi si sedette, lo sguardo che gli si oscurava sempre di più. «E come mai?»
Tuomas abbassò gli occhi, a disagio. Non avrebbe voluto trascinarli in quell’assurdità; sapeva che era qualcosa di molto rischioso. E sapeva anche che lo stava facendo solo per egoismo: da solo non ce l’avrebbe mai fatta, a trovare il coraggio per compiere un gesto del genere. «Devo entrare nel castello e…» deglutì «rubare una cosa. Che ci permetterà di tornare a casa.» …o almeno, così sperava. Non sapeva che cosa sarebbe successo, quando avrebbe liberato Tarja.
Forse si sarebbe solo guadagnato la sua gratitudine, lei avrebbe recuperato la memoria e si sarebbe trovato con un’altra persona cara da dover proteggere e riportare alla realtà.
Magnifico.
Anette sospirò e posò lo sguardo altrove, lontano, fuori dalla finestra e dalla foresta che circondava il loro unico rifugio sicuro. «Casa…» mormorò.
«Cioè il luogo da cui teoricamente verremmo tutti quanti.»
Tuomas spostò lo sguardo su Jukka, che aveva parlato, e annuì.
Il pirata lo osservò, e per un attimo un lampo di scetticismo brillò nei suoi occhi, ma venne subito rimpiazzato da quella sua espressione ironica e rilassata che tanto era familiare a tutti. «D’accordo, io ci sto.»
Marco si passò una mano sul viso, guardò fugacemente Lisanna, che era appoggiata al muro e stava ascoltando in silenzio come faceva tanto spesso, poi sospirò. «Sì, si può fare.» concluse.
«Ma come faremo ad entrare in città?» domandò Anette.
La domanda colse l’illusionista del tutto alla sprovvista, e lui fu grato di averla con sé, perché non si lasciava mai scoraggiare da nulla, e sapeva sempre come fare a superare qualsiasi problema.
Lei osservò gli sguardi persi puntati su di lei, e un sorrisetto le si delineò in volto, quando capì che nessuno c’aveva pensato. «Ci saranno delle guardie, e ormai da tempo staranno circolando le nostre descrizioni. Dopotutto, siamo abbastanza appariscenti, non ci vuole un genio dell’identificazione per riconoscerci.» spiegò lei.
Il tastierista si accorse della validità della sua osservazione, ed ebbe un attimo di scoramento.
Perfetto, il suo piano era fallito ancora prima di cominciare.
«A quello posso pensarci io.» intervenne Jukka, con un sorriso largo quanto disonesto.
«Ammettendo anche che riusciremo ad attraversare le porte della città, come diavolo faremo a rubare nel castello?» intervenne Marco. «Nel senso… avete presente il castello, vero? È impossibile entrarci con un plotone di uomini ben addestrati ed armati fino ai denti, figuriamoci se un uomo solo (e ricercato, per di più) può sperare di entrarci impunemente, ed uscirci tranquillo portandosi via qualcosa che apparteneva all’Imperatore.»
«Un uomo solo fa molto meno rumore di un plotone di soldati.» ribatté Lisanna, con quel suo tono basso e pacato.
Per qualche minuto la stanza fu immersa nel silenzio, mentre ognuno si lambiccava per tentare di trovare un buon piano d’azione.
Poi, nello sguardo azzurro di Emppu si accese la scintilla di un’idea.
«L’Imperatore riceve i saltimbanchi?»

«Come sto?» domandò Jukka, facendo una giravolta su se stesso.
«Una favola. Sembri quasi una persona sana di mente.»
Tuomas sorrise nel sentire il commento sarcastico di Marco, ma non poteva dargli tutti i torti, era davvero diverso Jukka senza la sua bandana, con i capelli sciolti sulle spalle e il signorile completo blu che gli dava un’aria persino aristocratica… la sua figura pareva ai limiti della normalità, e lui si comportava come se fosse del tutto a proprio agio nella sua nuova identità. Cosa che non si poteva dire per Tuomas, che invece si sentiva un perfetto idiota nella sua tenuta da pirata, ma evitò di lamentarsi, perché sapeva che sarebbe stato nulla, un semplice cambio d’abito, in confronto a quello che avrebbe dovuto affrontare dopo.
Jukka si avvicinò alla porta della casa; tutti lo guardarono in maniera stranamente seria, con una preoccupazione che non poteva essere lenita dal sarcasmo di quella singola frase di Marco.
Dal Fiume alla Capitale ci voleva un giorno di viaggio, a piedi.
«Tornerò il prima possibile.» disse, prima di scomparire nell’oscurità degli alberi che circondavano il loro rifugio. «Non mi ci vorrà molto a rubare i travestimenti adatti. Tra un paio di giorni sarò di ritorno, e potremo procedere alla seconda fase del piano.»
Anche il suo sguardo era serio, troppo, per uno come lui, e fu con quel disagio derivato dal suo comportamento grave che lo guardarono andare, sperando con tutte le proprie forze che il viaggio andasse bene e che il pirata riuscisse davvero ad essere da loro senza nessun problema, come aveva voluto far loro credere.
Quella notte, la passarono in angoscia.
Ognuno, disteso al buio ad osservare il soffitto, si lasciava annegare dalle proprie ansie in quelle immagini orrende che rappresentavano le loro personali interpretazioni di tutte le disgrazie che avrebbero potuto attendere il pirata lungo una via.
Tuomas, poi, aveva anche un’altra preoccupazione per la testa, o meglio, un fastidio, qualcosa che non quadrava, che si aggiungeva a tutto il resto nel compito di torturarlo durante le sue notti insonni. E decise che, almeno quello, sarebbe riuscito a toglierselo subito di mezzo. Quindi si alzò e si avvicinò in punta di piedi alla branda sul quale era disteso Marco, con quello stesso timore reverenziale che la notte incuteva, con i suoi colori argentati e il suo silenzio, quella paura di disturbare chissà che cosa, pur sapendo benissimo che tutti erano svegli.
Tuomas lo salutò con un cenno del capo quando lo vide aprire gli occhi e lanciargli uno sguardo interrogativo. Marco si tirò a sedere, guardando l’illusionista prendere una sedia e qualche cuscino.
«Non riesci a dormire?»
Tuomas abbozzò un sorriso. «Penso che nessuno riesca.»
Il guerriero annuì.
Rimasero in silenzio per qualche attimo, ognuno ad osservare la penombra della casa; poi, quando si accorse che lo sguardo dell’amico era posato da troppo tempo sulla figura di Lisanna distesa a letto, Tuomas si affrettò a parlare. «E’ una bella ragazza, vero?»
«E’ bellissima.»
Quella risposta, così sicura, eppure intrisa di una lieve ma evidente nota di dolcezza, non fece che allarmare il tastierista, il quale sentiva il proprio presentimento prendere la forma di un unico grosso blocco di pietra incastratosi nella sua gola. Tentò di deglutire per scacciarlo, ma senza nessun risultato.
«Sì.» fu quindi la sua unica risposta. Al guerriero però parve non importare della sua loquacità, perso com’era a contemplarla.
«Da quando l’ho vista nella piazza, io…» sospirò «Per questo sono sceso a combattere. Per questo ho ucciso quei soldati, Tuomas…»
Ed ecco che il macigno si ricordò all’improvviso di essere anch’esso soggetto alla forza di gravità, e precipitò dolorosamente fino a schiantarsi sul fondo del suo stomaco.
Marco si era innamorato.
«Marco… io…» cominciò a sudare. «Tu…»
«Che c’è? Cos’hai?»
«…Tu non puoi essere innamorato di Lisanna.» mormorò, in un soffio.
La notte intera si congelò.
«Come?»
Tuomas deglutì, prima di ripetere la frase a voce un po’ più alta. «Tu non puoi essere innamorato di Lisanna.»
Altri minuti congelati.
«Tuomas.»
Sulle labbra di Marco, in quel momento, il suo nome suonava quasi come una minaccia.
Il tastierista si prese la testa tra la mani, chiedendosi angosciato per l’ennesima volta come diavolo poteva aver fatto ad infilarsi in un casino così gigantesco.
«No, no, no, è impossibile, diamine, è impossibile… dimmi che non è vero… No, non può essere vero! Miseria, tu hai due figli, Marco!»
«Ma di cosa stai parlando?!»
Si guardarono negli occhi, di nuovo in silenzio. Quelli di Tuomas erano sbarrati, e frenetici, come il suo cuore che gli martellava in petto. Quelli di Marco pregavano perché le parole dell’amico non fossero vere, in bilico tra rabbia – rabbia nei confronti di chi mirava a distruggere la sua felicità –, e disperazione – disperazione perché non sarebbe riuscito a sopportare la distruzione dell’unica cosa che desiderava –.
«Tu davvero non ti ricordi più di tua moglie.» non era una domanda, la spaventosa rivelazione di Tuomas.
«Ti riferisci a quella fantasiosa storiella che ci avete raccontato, tu e il bardo, è così?»
Tuomas non aveva mai sentito un tono così aspro e risentito venire sputato fuori dalla bocca dell’amico, e ne fu ferito, dolore il suo, misto ad uno stupore quasi ingenuo. Non replicò nulla.
«Io non sono un cantante! Non sono un musicista, capito? La mia professione è combattere, da sempre. Questo mondo non è un’illusione: io, qui, ci sono nato.» si interruppe, per riprendere fiato, ogni sua frase era stata così, una parola detta dopo l’altra, velocemente, scivolata via come per errore. Eppure, quando riprese la calma, non si rimangiò ciò che aveva detto; evidentemente, quello era un discorso che si annidava sotto la sua lingua da molto tempo, e attendeva solo, rapace, il momento giusto per saltar fuori. «Forse, sono le vostre ad essere solo illusioni.»
In tutto questo, Tuomas non aveva detto niente, la sua bocca era rimasta sigillata, e non sarebbe riuscito a farlo neanche volendolo, annichilito dal suo stesso sconcerto nel vedere quel discorso ferire, farlo in profondità.
«Questo non vuol dire che non combatterò con voi. Ma non puoi chiedermi di rinunciare a lei, ora che l’ho trovata, solo per l’eco di una moglie fantasma.». Ancora nessuna risposta. Marco sospirò. «Buonanotte, Tuomas.»
Solo dopo molto tempo, nel cuore della notte, Marco ben lontano da lì, Tuomas riuscì ad aprire bocca, e lo fece con una semplicissima, brevissima frase.
«Manki non è un’illusione.» mormorò, a se stesso.

Erano nervosi, quando giunsero alle porte della città.
Jukka era tornato senza problemi, e questo aveva riportato una parvenza di serenità, ma la tensione tra Marco e Tuomas in qualche modo si sentiva e si rifletteva anche su tutti gli altri.
Emppu non aveva mai visto delle mura medievali così alte e imponenti. In effetti, aveva visto poche mura medievali nella sua vita, e tutte decrepite, ingrigite dai secoli, dai tanti assedi, corrose dal tempo. Queste, invece, erano grigie, di un grigio brillante, ed era strano come il grigio, un colore opaco per eccellenza, potesse allo sguardo risultare così splendente. Splendevano quindi, splendevano di potenza, e con un muto avvertimento: “pregate di non avere cattive intenzioni, perché se fosse così, dovete sapere che noi vi annienteremo”. In quel momento qualcosa di duro gli picchiettò la spalla, e si accorse che Jukka gli stava porgendo una maschera. La prese in mano, un po’ stupito. Esprimeva felicità, una felicità esagerata e grottesca, ma era perfetta per nascondere il nervosismo.
«Grazie.» gli disse con un largo sorriso.
Non perse tempo e se la mise subito; il mondo appariva ovattato, visto dalle due fessure all’altezza degli occhi. Più lontano. Meno minaccioso. Decise che gli piaceva portarla.
Si voltò a guardare gli altri, opportunamente mascherati anche loro: Marco era spaventoso con il suo nuovo volto rosso fuoco e trasfigurato da una rabbia disumana, e Tuomas impressionante nel suo costume dorato, e nel suo travestimento con le sembianze del Sole. I bambini quando li vedevano strabuzzavano li occhi e tiravano eccitati le gonne delle madri, che li sospingevano avanti con dolce fermezza.
Anette quasi scompariva, accanto a loro; gli abiti sgualciti prestatole da Lisanna erano perfetti per una serva, ruolo che le era stato assegnato in quell’enorme commedia, ed anche il più importante rispetto a tutti gli altri, sfarzosi, che invece dovevano fungere da specchi per allodole.
Jukka sarebbe stato dietro le quinte.
«Non è assolutamente giusto.» aveva obiettato Lisanna quando era stato deciso di non portarla con loro.
«Ci sono già abbastanza persone che rischieranno la vita, oggi. Ci sarai più d’aiuto qui.» le avevano risposto. Così, a lei non era restata altra scelta se non quella di affidarsi alle decisioni del gruppo, e guardarli partire impotente senza poter dir loro null’altro che un “buona fortuna”  che sapeva orrendamente di vuoto. Marco, prima di uscire, le aveva dato un bacio, e poi era scomparso oltre la porta lanciando uno sguardo penetrante a Tuomas, che non era riuscito a sostenerlo né aveva detto niente. Lisanna non aveva capito i sottintesi di quel loro strano scambio di espressioni.
«Suona qualcosa, Emppu. Dovranno vedervi tutti attraversare la città.»
Gli ci volle qualche attimo per riscuotersi dai propri pensieri, mettere a fuoco la figura di Jukka a qualche metro da sé che gli dava il suggerimento, capire che cosa volesse dire e imbracciare finalmente la chitarra.
Strimpellò il primo accordo.
Per fortuna la maschera doveva essere felice per lui…
Senza nemmeno essersi messi d’accordo, i tre saltimbanchi improvvisati entrarono in città all’unisono. In testa a tutti stava Emppu: non la smetteva di esibirsi in virtuosismi e complicate melodie con il suo strumento in mano, saltellando in giro a ritmo della sua musica, era tanto tempo che non si esibiva in pura improvvisazione e si era dimenticato quanto fosse rilassante lasciar andare liberamente le dita sulle corde della chitarra, persino in una situazione di tensione come quella. Dietro di lui avanzavano Marco e Tuomas; il primo si esibiva in acrobazie degne del mercenario tuttofare che si era sempre vantato di essere, che comprendevano capriole, salti mortali, passeggiate sulle mani, tutte cose che l’illusionista in passato non aveva mai visto fargli fare una sola volta, fosse una. Il secondo, molto semplicemente, avanzava a passo (apparentemente) sicuro seguendo i saltelli di Emppu, e limitandosi a reggere con entrambe le mani due grosse torce accese e scintillanti di fuoco.
Di certo gli abitanti dovevano aver pensato ad uno spettacolo mirabolante, giunto fin lì da chissà quali affascinanti territori esotici, e avevano per un istante persino sperato di poter assistere a quelle meraviglie; ma quando videro che i passi e le note di Emppu puntavano ad una meta ben precisa, capirono subito e si rassegnarono al loro destino di poterne gustare solo poche gocce, perché in fondo era ovvio che qualcosa di così spettacolare fosse adatto solamente agli occhi di principi e di re.
E, in quel caso, all’unico paio d’occhi di un Imperatore.
«Identificatevi, forestieri.»
Lo sguardo della guardia incaricata di sorvegliare l’immensa entrata del castello, da dietro le piccole fessure lasciate dall’elmo, non era per nulla amichevole.
Emppu fece scivolare la chitarra dietro la schiena e al contempo si esibì in un profondo inchino con un unico gesto fluido, che aveva provato per ore quella sera.
«Saltimbanchi ambulanti.» disse, e alzò gli occhi speranzoso. Nessuna reazione. Scoraggiato, continuò «I nostri spettacoli hanno fatto il giro di molte contrade ed ora giungiamo al castello per tentare di svagare anche i divini occhi dell’Imperatore.». Sperò, con angoscia, di aver parlato bene.
In quell’esatto momento arrivò un paggio, che sussurrò due parole alle orecchie della guardia, per scomparire subito dopo all’interno dell’immenso castello.
«L’Imperatore vi vuole alla sua corte. Prego.» aggiunse la guardia, e si scostò un po’ rigidamente.
L’eco della domanda “come ha potuto l’Imperatore sapere ciò che abbiamo detto al soldato?”, sorta nella mente di Emppu, si spense subito quando i portoni si schiusero davanti a lui, soffocata dallo sfarzo della sala del trono.
Si era indecisi su che cosa colpisse di più l’attenzione; se gli inserti d’oro sulle colonne candide, se le statue raffiguranti bellissime muse e dee della caccia che costeggiavano le pareti, se il mosaico dai colori accesi sul quale stavano camminando, talmente grande da non riuscire a coglierne la trama generale… o se, più semplicemente, la sconcertante vastità di quell’ambiente. In fondo a tutto, stava un trono, un grande trono dai bordi dorati e dai cuscini di velluto rosso, che Tuomas chissà quante volte aveva visto nei disegni dei libri di fiabe. Eppure, il trono era vuoto.
Lo stesso paggio che era venuto a parlare con il soldato, ora posizionato in piedi accanto allo scranno, si schiarì la voce.
«L’Imperatore assisterà allo spettacolo dall’alto.»
I tre alzarono istintivamente la testa, e videro una balaustra correre tutta intorno al salone. Da quella, stava affacciata la figura di un uomo, troppo lontana perché ne potessero cogliere i lineamenti; quello che colpì Tuomas, però, fu la luce – o meglio, l’assoluta mancanza di qualsiasi luce – nei suoi occhi neri come la notte.
«Prego, prego, miei gentili ospiti. Cominciate pure a mostrarmi le vostre abilità.»
La sua voce, una voce profonda, indecifrabile e affascinante al tempo stesso, risuonò chiara rimbombando sulle pareti della sala del trono.
Emppu sospirò, si impose di calmarsi. Non era poi così diverso da un concerto, dopotutto.
La prima nota risuonò nell’aria. E lo spettacolo ebbe inizio.

Tac. Tac. Tac. Tac. Tac. Tac. Tac. Tac.
Anette contava il suono dei suoi passi frenetici per calmarsi, amplificato dal lungo corridoio deserto che stava percorrendo. Era stato facile tramortire una delle serve e prendere il suo posto; e mentre Emppu, Tuomas e Marco si esibivano per tenere l’attenzione dell’Imperatore concentrata su qualcosa di futile, lei era libera di muoversi a piacimento nel castello, per trovare quello scrigno, aprirlo e distruggere qualsiasi cosa si trovasse all’interno. Il problema era che non aveva idea di dove cominciare la ricerca, dato che i dettagli che le aveva fornito Tuomas erano vaghi e confusionari. Fosse stato un membro del suo equipaggio l’avrebbe immediatamente fatto buttare fuoribordo per la sua inefficienza, ma lui era diverso, era un amico, e avrebbe fatto qualsiasi cosa per aiutarlo. Quindi, non avendo alcuna informazione utile, aveva preferito concentrarsi su quell’ala del castello il cui accesso era malvisto anche ai servitori, ovvero quella che ospitava gli alloggi personali dell’Imperatore. Era logicamente il posto più plausibile in cui una cosa davvero preziosa avrebbe potuto essere nascosta e Anette era certa che l’Imperatore, accecato com’era dal proprio potere e dalla propria invincibilità, non si fosse arrovellato troppo nel cercare un nascondiglio.
Giunse ad un bivio. In quell’ala le finestre erano poche e  non davano certo sull’angusto corridoio, illuminato perciò solamente dalle torce appese alle pareti  e dalla candela che la donna stringeva in una mano. Sembrava quasi di essere in un sotterraneo, non fosse stato per la raffinata moquette che rivestiva il pavimento e la tappezzeria dal motivo quasi identico che proseguiva sulle pareti, ornate da file e file interminabili di quadri dai soggetti più disparati: ritratti, paesaggi, scene di vita quotidiana o di combattimento.
Anette si fermò, e cominciò a ragionare. Un bivio in un luogo tanto sinistro non era certo stato messo a caso; doveva essere la prima avvisaglia di un gioco che l’Imperatore aveva voluto fare con chiunque avesse osato passare per quel luogo proibito. Ed era anche la conferma del fatto che la piratessa aveva scelto la strada giusta.
Ora, quale corridoio imboccare? Quello di destra, o quello di sinistra?
Entrambi si differenziavano per una cosa fondamentale: la luce. Il corridoio alla sua sinistra era molto più illuminato rispetto all’altro, come se ci fosse stata finalmente una finestra, una porta o una qualsiasi apertura, in modo da lasciare sperare di poter davvero vedere la luce del sole alla fine.
Se qualcuno fosse giunto lì per sbaglio, rimuginò tra sé, avrebbe sicuramente imboccato quello più illuminato, nella speranza di trovare un’uscita che lo potesse aiutare ad orientarsi. In questo caso, se anche avesse trovato uno scrigno, non vi si sarebbe soffermato più di tanto avendo come primo pensiero quello di togliersi da una situazione così spiacevole. Se invece, al contrario, fosse arrivato fino a tal punto qualcuno che come lei cercava qualcosa di prezioso e nascosto si sarebbe di certo diretto verso la strada più buia, trovando inconcepibile l’idea che l’Imperatore avesse nascosto una cosa molto importante alla luce del sole; e, comunque, un uomo consapevole del crimine che stava commettendo non sarebbe mai andato verso la soluzione più invitante, pensando a chissà quale tranello celato nelle cose più semplici.
Anche l’Imperatore doveva aver fatto il suo stesso ragionamento.
Anette prese un respiro e imboccò il corridoio più luminoso.
Non fu lungo come se l’era immaginato; appena un paio di curve, ed ecco un grazioso cancelletto dalle sbarre di ferro battuto a impedirle la strada, che sarebbe comunque terminata pochi metri più in là, dove si  apriva una grande finestra della quale Anette aveva visto la luce più in fondo.
Strano. Una strada, che conduceva ad una finestra? E perché chiuderla con un cancello, se era davvero solo una finestra quello a cui portava?
Anette aggrottò la fronte, estrasse il grimaldello di Jukka da una tasca interna del vestito e lo infilò nella serratura. Lo girò, lentamente, con mano esperta, ascoltando uno per uno i gemiti dei vecchi ingranaggi e balzò indietro quando scattarono, aspettandosi una delle tante dimostrazioni della magia dell’Imperatore.
Non accadde nulla.

L’Imperatore ebbe un guizzo di sorpresa negli occhi, ma non era dovuto alla bravura dei saltimbanchi.
Sorrise, e si sistemò meglio sulla propria poltrona.

La piratessa si avvicinò con cautela al cancello ormai aperto, ma nulla le impedì di oltrepassarlo. Si fermò quindi davanti alla finestra, e la osservò più da vicino. Il vetro era solido ma opaco, non lasciava intravedere nulla del paesaggio al di fuori del castello, ma non impediva l’entrata a quella forte luce bianca che per un attimo accecò Anette. Era molto liscio al tatto e… la donna ebbe un moto di stupore. Da un lato era gelido, quasi ghiacciato.
Si girò verso la parete che corrispondeva al lato più freddo. Sembrava perfettamente normale.
Avanzò, e man mano che procedeva si accorgeva del calo di temperatura, finché non arrivò a ridosso della parete e le sembrò di non aver mai toccato nulla di più gelato. Come poteva essere possibile? Continuò a tastare il muro, reprimendo i brividi, nel tentativo di trovare qualcosa che gli occhi non riuscivano a vedere, e dopo qualche minuto le sue ricerche furono premiate; la sua mano si strinse intorno a qualcosa che assomigliava terribilmente al pomello di una porta… peccato davanti a lei non c’erano porte, né pomelli.
Probabilmente era un’illusione.
Per un attimo venne colta da una gran paura. Era magia quella con cui doveva confrontarsi, era un mago il suo nemico. Che cosa avrebbe potuto fare, lei, contro i suoi incantesimi?
Respirò a fondo, nel tentativo di calmarsi. Non era il momento di farsi prendere dal panico. Ormai c’era dentro e non poteva – non voleva – tirarsi indietro. Quel bastardo le doveva una nave e un equipaggio intero.
Girò la maniglia e spinse, pronta a tutto.
L’illusione si disfò in quel momento, e così la porta aperta comparve davanti ai suoi occhi: era di un legno scurissimo, quasi nero, e sembrava che si tenesse in piedi per miracolo. Ma era una la cosa davvero sorprendente: era quasi completamente coperta di ghiaccio. Nuvolette di condensa si levarono da dentro la stanza, nella quale ghiaccio e neve regnavano sovrani. Anette si affacciò alla soglia, a bocca aperta: erano sculture di ghiaccio quelle che vedeva, riproducevano in maniera straordinariamente fedele prati, fiori meravigliosi, alberi da frutto, paesaggi idilliaci. Una campagna meravigliosa all’interno del castello, cristallizzata, immobile, di ghiaccio. In fondo alla stanza, in mezzo a due colonne, stava un piedistallo, anch’esso ghiacciato. E sopra al piedistallo uno scrigno.
Anette si strinse nel vestito ed entrò nella stanza.
Dentro, la temperatura era al limite della sopportazione, ma la piratessa quasi non l’avvertiva, impegnata com’era a rimirare la meraviglie di quelle sculture ghiacciate  avanzando a passi lenti. Tutto era immobile, muto, e le ci vollero pochi minuti per giungere finalmente davanti allo scrigno. Non aveva nulla di speciale: era piccolo, argentato, la serratura era lavorata in maniera tale da rappresentare un sole all’alba – o al tramonto –.
Anette si fermò a pensare. Suonava tutto molto strano. Davvero, le uniche precauzioni che l’Imperatore aveva preso contro le persone che volessero distruggere una cosa importante per lui erano un tranello non molto difficile da individuare, un cancelletto che persino un grimaldello da pirata era stato in grado di scassinare, un’illusione e un po’ di freddo?
Mah. Forse l’Imperatore non era poi così furbo. Forse l’unico motivo per cui era al trono e tiranneggiava su tutta la nazione era il suo straordinario talento per le arti magiche, e basta. Comunque fosse, non le importava. Aveva il suo obbiettivo.
Prese in mano lo scrigno.
Lanciò un grido e cadde a terra, tremante, colta come da una potentissima scarica elettrica.
Rimase a terra qualche minuto, nel tentativo di riprendersi dal dolore e dallo stordimento, e quando rialzò lo sguardo lo scrigno era ancora lì, immutato, come a guardarla beffardo, e godersi la sua rabbia per essere stata tanto sciocca e ingenua.
Un momento. Le colonne. Avevano forse cambiato forma, le colonne?
I suoi occhi si riempirono di terrore, puro terrore quando vide che una delle due colonne, dalle fattezze ora umanoidi, spalancò le palpebre su un paio di occhi trasparenti come il proprio corpo e li puntò su di lei.
Quegli occhi non avevano iridi o pupille. Ma Anette seppe che stavano guardando lei.
Tentò di alzarsi, e barcollare verso l’uscita più velocemente che poteva.
Doveva correre. Doveva correre.

Tuomas, Marco ed Emppu si erano superati.
Emppu aveva esaurito tutte le nozioni, gli esercizi, le melodie, qualsiasi cosa che riguardasse la chitarra; Marco aveva continuato ad eseguire capriole e salti mortali sulla musica del bardo; e Tuomas aveva fatto fare al suo fuoco ogni cosa che fosse impossibile fargli fare.
Fu proprio quando aveva appena finito di ingoiare alcune fiamme e risputarle sottoforma di dragone che l’Imperatore si alzò dalla sua poltrona e batté le mani. Un rumore lieve, piccolo, in confronto alla vastità del salone in cui si trovavano; eppure, ebbe il potere di immobilizzare i tre artisti e far precipitare la sala del trono in un profondo silenzio.
«Lasciateci soli» ordinò l’Imperatore dall’alto, e nessuna delle guardie, per quanto perplessa, ebbe il coraggio di contraddire i suoi ordini. In pochi istanti, furono soli, loro quattro, in mezzo a tutto quello sfarzo, e a tutto quel silenzio.
«Spettacolo sublime, miei cari. Veramente. Ditemi, quanto c’avete messo per prepararlo?»
Era un tono da conversazione, tranquillo e rilassato, ma mise loro addosso  lo stesso una grande tensione, forse perché da così in alto non potevano scorgere le espressioni del suo viso.
Emppu guardò negli occhi gli altri due, lottando contro il panico, che cosa sarebbe stato più saggio dire? Oh, ma perché Anette non si sbrigava? Per quanto ancora avrebbero dovuto sostenere quello sguardo nero e abissale?
«Il Sole, il Sole soprattutto.» aggiunse. Tuomas sobbalzò, e osservò gli altri con occhi se possibile ancor più terrorizzati di quelli di Emppu.  Nonostante questo, però, fece un passo avanti e si inchinò profondamente.
«Per servirvi.» mormorò.
«Oh, il fuoco del Sole è stato meraviglioso. Tu, tu mangiafuoco, potresti farmi vedere una cosuccia? Una cosuccia piccina? Mi farebbe tanto piacere.»
L’illusionista deglutì. Aveva l’impressione che quello fosse un ordine mascherato da invito. Che altro avrebbe potuto rispondere?
«Tutto ciò che desiderate, Mio Signore.»
«E allora…» la sua voce melliflua si mutò all’improvviso in un urlo disumano. «…mostrami se sei capace di ingoiare quelle fiamme senza aiutarti con qualche schifosissima illusione!»
Indietreggiarono tutti, ora si sentivano autorizzati a farsi prendere dal panico.
«Via quelle maschere. Voglio vedervi in viso. Via!»
Senza che potessero fare nulla, una folata di vento attraversò la sala e strappò letteralmente le maschere via dai loro volti. Non potevano più nascondere la paura dietro a nulla.
Il paggetto che li aveva condotti nella sala si mise davanti a loro e li guardò con disprezzo. Il suo sguardo era fisso soprattutto sul bardo.
«Emppu, ti chiamano, no? Uno strimpellatore idiota, ecco cosa sei, uno strimpellatore che non sa far altro che sorridere. Quanto erano irritanti i tuoi sorrisi, stupido nano!»
Emppu era atterrito, non aveva detto una sola parola. Fu Marco a mettersi davanti a lui, e ad affrontare il paggio. «E tu chi cavolo saresti?»
«Qualcuno mi ha già fatto questa domanda.» rispose  il bambino, e scoccò un’occhiata penetrante a Tuomas, che rabbrividì. «Io posso essere tutto.» aggiunse, e senza dire nient’altro mutò il proprio aspetto. Divenne un uomo, i suoi occhi divennero gialli, un paio di maestose ali rapaci gli spuntarono dalla schiena.
«Tu! Tu, maledetto!» gridò il vichingo, fuori di sé, nell’osservare il ghigno di Dominic davanti a sé.
«Non può essere! Io ti ho ucciso!» esclamò Tuomas, puntando un dito tremante verso di lui.
«Sciocco. Tu non hai ucciso proprio niente. Perché per uccidere la marionetta, devi prima uccidere…» d’un tratto divenne rigido, lo sguardo gli si spense nel vuoto e cadde a terra come una normalissima statua d’argilla. La frase fu conclusa da una voce, quella stessa voce profonda e sinistra, proveniente dall’alto. «…colui che ne tiene i fili.»
La rivelazione li colpì tutti e tre, come un pugno. Quasi caddero a terra, gli occhi sbarrati, sotto lo sguardo compiaciuto dell’Imperatore.
«Dobbiamo andarcene di qui…» sussurrò Emppu, senza osare distogliere lo sguardo da quei due puntini d’ebano che brillavano oltre la balaustra in alto.
«Dobbiamo andarcene!» ripeté Marco a voce più alta, strattonando Tuomas per un braccio per riscuoterlo. «Sbrigati. Se vuoi avere una speranza di salvezza, devi farlo ora.»
Per un attimo l’illusionista non rispose, come perso nell’abisso del suo sconcerto. Poi annuì, annuì energicamente, mise una mano sulla spalla dell’amico.
E dopo, la stanza sprofondò nell’oscurità.
L’Imperatore, che si era appena lasciato sfuggire tra le dita i fili delle sue tre marionette più importanti, si alzò di scatto dallo scranno con il viso trasfigurato dalla rabbia.
Corsero a perdifiato, spintonando vassalli e servitori, fino a trovarsi al secondo piano. Qui raggiunsero la finestra che dava sul retro del castello, quella che era stata scelta da Jukka, e che Marco infranse senza molti complimenti.
«Anette!» esclamò Emppu, un attimo prima che il guerriero gridasse il segnale concordato.
Si guardarono tutti e tre con spavento.
«La cerco io.» stabilì Marco, gli occhi azzurri che si vestivano di una nuova determinazione. «Voi andate.»
«Ma…»
«Andate.»
Non ammetteva repliche. E non ci furono repliche. Il vichingo tornò di corsa nei meandri del castello.

Creature delle nevi e dei ghiacci. Creature che si nutrivano degli escursionisti incauti. Degli scalatori sprovveduti.
C’era caduta come una mosca nella ragnatela.
Si avvicinavano. Li sentiva. Erano veloci. D’altra parte, c’era solo ghiaccio intorno a lei; e la porta, chissà dove l’aveva lasciata.
Correva. Ignorava il dolore di un artiglio che le aveva lacerato il fianco. Ignorava la paura. Sapeva che poteva solo correre. E correva.
Ma sapeva anche che correre non sarebbe stato abbastanza.

Afferrò una delle torce che si trovavano attaccate al muro e tornò ad avanzare per i corridoi il più velocemente possibile, dritto alla sua meta.
«Se qualcosa non dovesse andare…» aveva cominciato lui, la sera prima.
«Le cose andranno.» lo aveva interrotto lei.
«Sì, ma se qualcosa non dovesse andare, dimmi dove cercherai lo scrigno. Verrò io a prenderti.»
Lei aveva taciuto per qualche attimo.
«Mi sembra ragionevole. Sei l’unico a cui lo permetterei, in fondo.»
«L’unico abbastanza… soldato da evitare di infilarsi in imprese disperate se sa che lo sono» tradusse lui.
Lei aveva sorriso.
«Esatto.»
Le ali proibite del castello. Banale. Prevedibile. Si augurava con tutto se stesso che lei stesse ancora cercando inutilmente, e che potessero uscire insieme dal castello senza ulteriori intoppi… a parte, forse qualche soldato qua e là.
Non gli interessavano i luoghi che attraversava, gli interessavano i passi che metteva l’uno davanti all’altro, e cercare Anette in ogni angolo di quell’ala remota. Imboccò un corridoio, che si rivelò lunghissimo, quasi infinito, e lui credette di impazzire finché non giunse ad un bivio.
«Al diavolo…» mormorò a denti stretti, e senza neanche guardare prese a caso uno dei due corridoi.
Andò a sbattere contro un cancelletto, che però si aprì subito (evidentemente la serratura era già stata scassinata), e lui ruzzolò a terra finendo a sbattere contro la parete di fronte.
Stava per imprecare in tutte le lingue che conosceva, quando si bloccò di colpo.
Freddo. Faceva troppo freddo.
Raccolse la torcia, e si affacciò alla porta aperta.
Ghiaccio. Solo ghiaccio.
E di nuovo, le storie che gli venivano raccontate da bambino gli tornarono alla mente, le vette delle montagne non erano luoghi sicuri…
«Dio, Anette!» esclamò, sbiancando. Balzò nella stanza, e lì la vide.
Erano in due. L’avevano presa. Il suo fianco sanguinava. Uno stava conficcando i propri artigli di ghiaccio proprio nella ferita. Presto il secondo l’avrebbe finita, con un solo morso, proprio al collo, una morte istantanea, ecco cosa sarebbe stata.
«Allontanatevi!» urlò Marco, con tutta la forza che trovò nei polmoni.
Le creature si voltarono verso di lui. Lanciarono grida acute quando videro il fuoco che lui brandiva, e si allontanarono. Anette ne approfittò per rimettersi in piedi a fatica, e corrergli incontro.
«Marco… per fortuna…»
«Shhh.» intimò lui.
Ora lo stavano osservando. Cercavano di capire chi, tra loro tre, fosse quello che comandava. Nel momento di maggior perplessità, il guerriero li colse di sorpresa e con un altro grido gettò la torcia addosso ad una delle due creature. I versi striduli si fecero insopportabili, ma i due compagni si erano già lanciati oltre la soglia di quella stanza da incubo e avevano chiuso la porta nera dietro di loro.
Il guerriero lasciò Anette seduta a terra a riprendersi dallo sforzo, dal dolore e dallo spavento, per andare davanti a quella grande vetrata luminosa e infrangerla con forza, esattamente come aveva fatto con l’altra. Si affacciò. Dava su un vicolo sudicio. Si accostò le mani agli angoli della bocca, e gridò il segnale. Dopo qualche minuto di puro terrore, un rampino assicurato ad una corda si agganciò al bordo della finestra.
Marco sospirò di sollievo.
«Ce la fai?» domandò ad Anette, tentando di aiutarla a rialzarsi, ma lei non volle prendere la sua mano e preferì accostarsi da sola alla finestra.
«Hai già fatto abbastanza. Grazie.» gli disse, e gli sorrise.
Afferrò saldamente la corda e, con i lineamenti trasfigurati dal dolore e dalla fatica, cominciò a calarsi lentamente a terra.

«I mastini.»
«Ma… Divino Imperatore…»
«Voglio i mastini. Date loro queste.»
Tre maschere da teatranti caddero sul pavimento.

Corsero a perdifiato lungo tutto il tratto che portava alla capitale al loro rifugio. Corsero come mai avevano fatto, fino a non sentire più le gambe, fino a farsi bruciare i polmoni, fino a cadere sfiniti sulla soglia di casa.
Lisanna corse incontro a Marco, il loro fu un abbraccio troppo intenso da poter spiegare a parole, fu solo un abbraccio, non violarono la profondità della loro felicità con un bacio.
«No!»
L’urlo arrivò da lontano.
«Ci hanno seguiti! Ci hanno seguiti! Andiamo via!»
«Non possiamo andare! Dove andremmo?! Era questo il posto sicuro!»
«Non è il momento di discutere, Jukka! Sono già qui!»
Tutto questo accadde troppo in fretta perché potesse scalfire il loro abbraccio.
«Marco! Lisanna! Al riparo!»
Il suono di una freccia scoccata. Il respiro di un uomo che tira per uccidere. Il rumore raccapricciante di un’arma che arriva a destinazione.
Il corpo di Lisanna si afflosciò esanime tra le braccia di Marco.









Le Scuse dell'Autore
Sì, questo capitolo si è fatto attendere più del dovuto, e eper questo vorrei scusarmi tantissimo con tutti quelli che si sono presi la briga di leggere, appassionarsi forse, aspettare un capitolo che c'ha messo troppo ad arrivare. Davvero, scusatemi. Ho avuto problemi miei che mi hanno tolto per molto tempo la voglia di scrivere, ma non è un buon motivo per farvi attendere così tanto ecco :) Spero vorrete perdonarmi.
Ci sarebbero molte cose da dire riguardo a questo. Che è il primo delle Cronache che arriva dopo che Anette se n'è andata. Anche questa è stata una delle cose che mi ha scoraggiata all'inizio, come si può vedere da tutte le cose che ho scritto riguardo alla fratellanza in questa long, ci credevo in loro. Però... è andata così, ci sono rimasta male è vero, ma le Cronache devono continuare e continueranno, consideratele d'ora in poi come un tributo alla spledida e dolcissima cantante che Anette è stata in questi anni con i Nightwish ^^
Ultima cosa: NON UCCIDETEMI! Lisanna è morta, ok, ma vi prego, non uccidetemi!!!

PS: Ringrazio con tutta me stessa tutte (:D) coloro che puntualmente su fb vedono i miei scleri e i miei post senza senso. Grazie. Anche se questo colpo di scena me l'avete sgamato. Uffa. Spero che sia stata shock lo stesso la morte di Lisi U.U

Un Bacione a tutti!

Glory.






  
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