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Autore: Blusshi    02/12/2012    0 recensioni
La potente stella Deneb e il pianeta Uolo si detestano, è in corso la loro seconda guerra.
Uolo si vendica di Deneb che tempo prima lo rase al suolo e rapisce i civili denebiani, deportandoli come schiavi o trucidandoli in massa.
Zara, una bellissima bambina, assiste alla morte della zia e insieme al cuginetto Peter viene trasferita su Uolo, dove l'aspettano un clima insopportabile, ostilità e duro lavoro.
Toccherà a lei cercare di sopravvivere alla guerra, che perpetra feroce e brutale e alle angherie dei uolesi.
Ma i nemici sono tutti mostri, tutti uguali, o Zara troverà qualcuno disposto a tenderle la mano?
Sarà forse l'antica alleanza tra la regina di Deneb, sua madre, e Uolo che l'aiuterà salvare la sua vita e quella dei suoi cari?
Genere: Fantasy, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Ulai, capo della tribù uolese fedele alla dea protettrice delle madri, aveva saputo del’ultima orda di prigionieri di guerra sbarcata da poche settimane sul suo pianeta.
Di solito lei non se ne serviva, neanche quando la dea le richiedeva un sacrificio particolare.
Negli ultimi mesi i soldati di Uolo e i mercanti di schiavi le avevano fornito una quantità di bambini denebiani maggiore del solito, per operare esperimenti medici.
Solitamente i mercanti li facevano uccidere dagli scorpioni giganti e glieli consegnavano già morti, immersi in un liquido.
A Ulai piacevano i bambini, sia uolesi che denebiani. Ulai amava la vita.
Per questo non aveva mai apprezzato lo scempio dei soldati sul pianeta nemico.
Lei faceva la sua parte: accettava i prigionieri facendoli passare per vittime sacrificali, ma in realtà li teneva al sicuro nel tempio della Dea, li aiutava rischiando lei stessa e per quanto le fosse possibile cercava di rimandarli indietro.
Sapeva di esser malata, di un male incurabile, ma non si dava per vinta.
Il tempio era diventato una casa famiglia segreta che accettava tutti, in cui tutti potevano trovare una parola di conforto, un sorriso, un amico perduto, un abbraccio, un letto, un pasto.
Per questo cercava di non mostrare lo sdegno che provava, in modo che gliene mandassero continuamente.
Ed era anche per questo che li voleva vivi, provando disperazione ad ogni cadavere.
Ulai non riusciva a pensare ai bambini, spaventati, lontani dalla loro casa, soli al mondo, preda di un terrore atavico.
Non si immaginava cosa potesse passare per la loro mente, anche se buona parte di ciò si rifletteva nei loro occhi spiritati.
Erano tutti così, anche gli ultimi che le erano arrivati, da parte di una fabbrica di tappeti qualche giorno prima.
Andavano tutti sacrificati, dal primo all’ultimo, le aveva detto il padrone dell’industria: avevano provato a scappare, quindi si erano ribellati. E la Dea non accetta la ribellione.
Ulai era infastidita da queste farneticazioni di ignoranti che snaturavano il culto della Dea: lei era buona, proteggeva tutte le donne e i loro figli.
Anche quei bambini erano figli di donne e quindi erano sacri alla Dea.
Ulai sapeva che la fabbrica aveva recentemente acquisito dieci nuovi schiavi e ora in teoria le sarebbe toccato sacrificarne sei.
Anzi, cinque: il padrone della fabbrica le aveva detto che la fautrice della sommossa era stata avvelenata dal suo scorpione, per cui gliel’aveva consegnata avvolta in un sacco.
“Mi dispiace non averlo catturato vivo, il piccolo boia. Ma non potevo rischiare che eliminasse qualcun altro…”
Sentendo quelle parole, nel profondo del suo animo Ulai aveva quasi esultato.
Aveva permesso ai cinque bambini di ristabilirsi, occupandosi di loro, curandone le ferite e ascoltando quello che avevano da dirle.
Come al solito, voleva aspettare il momento più adatto per rimandarli su Deneb; non sapeva quando sarebbe arrivato, mesi, anni forse.
Alcuni aspettavano da una vita.
Un giorno andò a controllare nella cella frigorifera, dove teneva tutti i morti che le venivano consegnati; l’idea di usarli per fare esperimenti era mostruosa.
Ogni tanto ne prendeva pochi alla volta per bruciarli sul fuoco purificatore della dea: in questo modo la loro anima non avrebbe vagato nello spazio per l’eternità.
Quella volta Ulai desiderava vedere la bambina (era una bambina?) che aveva fatto saltare qualche gretto soldato.
Ma si sorprese nel vedere che il sacco che racchiudeva il corpicino era vuoto.
Mentre usciva, sentì un fruscio lievissimo a cui non fece quasi caso.
Quello che la costrinse a girarsi fu il peso di uno sguardo diverso da tutti gli altri che aveva incontrato.
Quando incontrò quegli occhi non vide alcuna traccia di orrore.
La guerra non li aveva contaminati.
Ardevano magnetici in tutta la loro forza, nello splendore dell’oro.
Ulai ne restò folgorata.
All’improvviso, come una valanga le tornarono i ricordi di quando lei e i suoi bambini erano caduti prigionieri di Deneb.
Era il 1997.
Ricordò la paura, le lotte continue per difendere lei stessa e il suo tesoro di madre.
I denebiani uccidevano, senza pietà.
Ulai se lo sentiva, presto sarebbe toccato a lei.
A loro.
Ma c’era stata una donna che li aveva salvati.
Aveva riacceso la speranza di vita nel loro cuore, aveva sfidato tutto e tutti pur di sottrarre alla morte lei e gli altri prigionieri civili uolesi.
Le aveva insegnato a tenere duro anche nei momenti più bui, a difendere il suo onore.
La regina Areida.
Ulai ricordava perfettamente quella donna stupenda, regina di Deneb durante la prima guerra contro Uolo.
La sua bellezza impressionante, il fuoco che ardeva nei suoi occhi d’oro.
Il coraggio, la volontà.
Tutto andava ben oltre i suoi diciassette anni.
Ricordava quando l’aveva vista per la prima volta: era incinta, il viso da bambina che strideva con il mantello color porpora, gli occhi inquieti, l’oro delle iridi sopito, una mano che stringeva convulsamente la lista dei condannati a morte, l’altra che carezzava con amore la pancia dilatata.
Si era accostata alla cella, le lacrime che scintillavano sulla sua pelle color cielo stellato.
Era venuta a decidere chi salvare e chi condannare.
Ulai si ricordava benissimo di quando le si era avvicinata: a separarle c’erano soltanto le sbarre di laser.
La regina aveva rivolto uno sguardo pieno di dolore a Ulai e ai suoi figli.
Allora lei aveva alzato lo sguardo sul ventre gravido della giovane sovrana:
“Noi non siamo diverse”.
Quelle sole parole erano bastate a risvegliare la fiamma potente nei suoi occhi; senza paura la regina aveva allungato una manina esile fra le sbarre, fino a sfiorare il viso di Ulai.
“Ti prometto che vivrai: non permetterò che ti accada più niente. Hai la mia parola”.
Ulai aveva sentito la forza e il sentimento nella voce di quella ragazzina incredibile.
L’aveva guardata in tutto il suo sconvolgente splendore e in quel momento aveva capito che non erano mai state nemiche.
La regina Areida aveva mantenuto la sua promessa.
Tutti i giorni faceva arrivare grandi scorte di cibo e di oggetti di uso quotidiano per tutti i prigionieri, si ritagliava degli spazi per passare un po’ del suo tempo con loro.
Chiacchierava con Ulai, giocava con i suoi figli.
La sacerdotessa uolese aveva scoperto che la regina era una ragazza molto allegra e ottimista; rideva sempre.
Si prodigava per loro; tutti sapevano che così facendo si stava mettendo contro il suo spietato consorte.
Ulai aveva persino iniziato a preoccuparsi per lei, vedendola deperire sempre di più a causa della gravidanza; stava sempre male e diventava qualcosa di sempre più simile a un cadavere in piedi ogni giorno che passava.
Tutti si rendevano conto che quella maternità la stava uccidendo, ma la regina le aveva sempre detto che non vi avrebbe rinunciato nemmeno per la sua stessa vita.
Quando si erano salutate per l’ultima volta, le aveva regalato un pettinino di cristallo a forma di cigno, in segno di amicizia.
Ulai l’aveva abbracciata: “Che la dea ti benedica, che la dea ti benedica…”
Le aveva baciato le mani con dedizione, prima di salire sull’astronave segreta che lei aveva fatto allestire solo per loro.
Dopodiché non aveva più avuto sue notizie.
Non aveva mai dimenticato quel vortice dorato che ora rivedeva davanti a sé, restando senza fiato.
Appena dietro di lei stava ritta e fiera una bambina.
La testa era coperta da una folta massa di boccoli che –Ulai lo sapeva- sotto lo strato di sangue rappreso era argento abbagliante.
Sotto la sporcizia la pelle era chiara, verde pallido spruzzato di polvere di stelle che scintillava alla luce.
Le guance avevano una sfumatura pesca.
Indossava un vestito rosso sbrindellato, tra i capelli portava un cerchietto di sottili foglie d’oro e su una coscia aveva una ferita ancora aperta.
Le iridi erano di un colore magnetico e familiare.
Erano occhi d’oro, belli, in cui Ulai sentiva ribollire una forza devastante: gli occhi della regina Areida.
Il viso infantile era disteso in un’espressione di falsa resa.
Quella bambina le tolse il fiato; era ancora più stupefacente di sua madre. Impossibile.
Lei continuava a guardarla senza tregua.
Sì, non c’era dubbio, si disse Ulai osservando quel volto perfetto, meraviglioso: era  la figlia della regina Areida.
E di quel demonio del padre.
“Chi sei?” le chiese, senza tradire la sua meraviglia.
La bambina sorrise; le labbra verde aranciato scoprirono due file di denti da latte bianchissimi.
“Martina Webb”.
“Devo crederti?” pensò Ulai.
“Bene, Martina. Ma dimmi, non eri morta? Posso vedere sulla tua gamba che lo scorpione ti ha punta”.
Ulai parlò con dolcezza, in modo da non metterla in guardia.
Martina le spiegò che anche lei si era creduta morta, ma ad un certo punto si era svegliata e si era ritrovata in un sacco, chiusa in una stanza zeppa di cadaveri congelati.
Non conosceva il posto, aveva detto, perciò era rimasta lì ad aspettare che venisse qualcuno.
“Ma adesso tocca a me farti una domanda” disse Martina.
Ulai avvertì la fiamma di quei soli ardenti lambirle la pelle umida e squamosa.
“Dove sono i miei compagni? Ma soprattutto…quanto male hai intenzione di fare?”
Ulai si ritrovò spalle al muro. Non sapeva cosa rispondere.
Di fronte allo sguardo infuocato e puro di Martina si sentiva colpevole dei crimini peggiori.
“Allora?”
Ulai non li poteva vedere, i soli dorati, girata di schiena com’era; ma li sentiva, puntati su di lei.
Percepiva nell’aria il loro impeto.
Se quella bambina era la principessa denebiana –e lo era- Ulai aveva la prova vivente di quanto dovesse alla regina Areida.
Era un capo, una che contava tra i uolesi: in quel momento avrebbe voluto essere capace di fermare di colpo la seconda guerra tra Uolo e Deneb.
Martina non era che una bambina, come i suoi figli quando erano stati salvati dalla regina Areida.
Era forse quella bambina la creatura nel grembo della bellissima sovrana ragazzina, l’ultima volta che l’aveva vista?
No, calcolò mentalmente: la principessa dai capelli d’argento doveva essere arrivata molto dopo.
“Tu non sei cattiva. Tu li aiuti, ma non so se mi sto sbagliando o no. Sai anche dove sono i miei compagni”.
Lo sguardo che la bambina rivolse a Ulai era adulto, brillante, veemente.
“Salvali. So che puoi farlo. Fallo o morirai”.
Ulai rimase colpita da quelle parole e si accorse che, mentre la voce della bambina ostentava un’imperiosità fredda e pacata, l’oro sotto fremeva, come brace ardente.
 
 
Da giorni Ulai cercava di trovar pace.
Sentiva che c’era qualcosa che continuava a sbagliare, che non ci metteva abbastanza impegno in quello che faceva.
Inoltre la malattia avanzava, inesorabile.
D’altra parte, di tutte le cose che amava fare per i suoi protetti, nulla la impensieriva di più che rimandarli a casa presto e senza rischi.
Più a lungo restavano, più erano in pericolo di venire scoperti.
Quella Martina Webb l’aveva contagiata con il suo fervore e ora più che mai Ulai sentiva la grandezza del compito di cui aveva deciso di farsi carico.
E inoltre era affascinata e incuriosita dalla giovane principessa; dopo essersi parlate, Ulai le aveva dato da mangiare, le aveva permesso di lavarsi e le aveva fornito un vestitino leggero di cotone, un paio di sandaletti e un lettino morbido.
Subito l’aveva portata dagli altri bambini, fra cui lei aveva immediatamente riconosciuto i suoi compagni di sventura.
Ulai aveva provato un impeto di tenerezza nel vedere quei bimbi tutti stretti, abbracciati e sorridenti: le ricordavano i suoi quando erano piccoli, quelli che non avevano conosciuto la guerra.
Era rosa dalla curiosità, ma non riusciva a trovare il giusto approccio con Martina.
“E’ bellissimo, il tuo diadema” le disse una volta, passeggiando nel giardino del tempio insieme agli altri bambini.
“Ti piace? Ci sono molto affezionata.”
“Come mai?”
Martina esitò: “E’ un regalo…”
“E’ un bellissimo regalo, Martina” sorrise affettuosa Ulai “Chi te l’ha fatto?”
La bambina spiegò che era un regalo di sua madre, che aveva voluto farle forgiare apposta un diadema unico usando la sua collana preferita.
“Doveva essere davvero una gran collana…e dimmi cara, la tua mamma è brava, non è vero?”
Far parlare Martina non era facile.
Ulai voleva che le dichiarasse di essere la figlia della regina Areida; però Martina si dimostrava sempre molto fantasiosa e Ulai intuiva che aveva usato uno nome fittizio per scongiurare eventuali guai.
Per i uolesi il nome era però qualcosa di molto intimo e la mentalità le suggerì di aspettare che la bimba glielo dicesse da sé; sempre se avesse voluto…
“Sì. È molto brava, come tutte le mamme”.
Martina rispose mostrando due adorabili fossette.
Ulai boccheggiò: si perdeva ad ammirare quel volto perfetto ogni volta che lo vedeva: “A chi somiglia di più?” si chiedeva la sacerdotessa.
La regina Areida aveva la dominanza nell’insieme, ma era nel particolare che si notavano le differenze che, seppur lievi, suggerirono a Ulai che la bambina dovesse avere ereditato da entrambi in egual misura: i tratti della principessina erano più spigolosi, ancora più fini. Ma aveva la sua stessa bocca, le lamine d’oro per iridi erano identiche.
L’espressione era quasi la stessa, se non per la vibrazione quasi crudele che di tanto in tanto la adombrava, unica nota stonata in quel quadro di suprema bellezza.
E poi c’era il colore della pelle, completamente diverso dal blu profondo che Ulai ricordava.
Ulai pensava sempre che, in quanto frutto dell’unione di un angelo e di un demonio, Martina potesse essere o un adorabile diavolo o un angelo maledetto.
“Guarda, la puntura è quasi guarita!” sorrise ancora Martina, mostrandole la gamba.
“Senti, tesoro, ma tu sei stata avvelenata…”
Martina si rattristò: “Oh no, non me lo dire! Era un veleno tutto strano…ho passato due giorni a piangere e vomitare e a succhiarlo via dalla gamba!”
“Tranquilla, sei stata bravissima. Ed è normale che il veleno dia queste reazioni…” la sacerdotessa si chiedeva come avesse fatto a sopravvivere all’avvelenamento. Non riusciva a crederci, a parte nei momenti in cui sembrava volesse incenerire con uno sguardo Martina sembrava una bambina angelo, così tanto bella, così dolce, così delicata; poi si ricordò che era stata quella che aveva combinato un mezzo macello nell’esercito. Del padre aveva molto di più di quanto non desse a vedere. Però lei non era malvagia, quindi la sacerdotessa era giunta alla conclusione che fosse un incantevole diavoletto.
Ulai le accarezzò la massa di riccioli argentei che le scendeva lungo la schiena, giù fin quasi alla vita: chi avrebbe avuto cuore di tagliarli?
La vecchia sacerdotessa mi diceva sempre –se vuoi vedere qualcuno di veramente cattivo, allora fa’ arrabbiare uno bravo-…”
Le diede un bacio sulla guancia.
Subito i suoi compagni le si radunarono intorno:
“Anche io! Anche io!”
“E va bene! Ma stasera mi aiutate e state nascosti bene nelle vostre camere da letto!”
La sera andò di nuovo da Martina e la trovò sveglia: “Mi fa ancora un po’ male, la puntura…”
“Ascolta, Martina, appena possibile radunerò tutti i bambini, te compresa, e vi rispedirò su Deneb. Verrò con voi, perché devo assolutamente parlare con tua madre, se vogliamo fare qualcosa per tutti”.
Martina spalancò gli occhi d’oro, felice; ma appena mezzo secondo dopo si riempirono dell’ombra che li rendeva tremendi: “No, Ulai. Io senza Peter non parto”.
 
 
 
 
 
“Qual è la cosa che vorresti di più?”
“Mi piacerebbero tante cose, ma alla fine della fiera la più semplice è quella che mi piacerebbe di più” sospirò Ulai “vorrei poter volare: libera, senza macchine”.
“Io l’ho fatto!”
“Tu sai volare?”
“No, da sola no. In braccio a papà” sorrise Martina “una volta quando avevo due anni mi ha fatto fare tutto il giro di Deneb in pochissimi minuti”.
Martina era una macchinetta, non finiva mai di riempire Ulai di domande: si era stupita del cielo viola tenue, dell’alternanza fra giorno e notte, dei fiumi strani che aveva visto.
“Non ci devi andare mai, capito?” l’aveva avvertita Ulai “non è acqua, quella roba. Non ci devi entrare, Martina, chiaro?”
“Ssì…perché sennò cosa succede?”
“Succede che non ci devi andare vicino e non ci devi cadere dentro”.
“E perché?”
“Perché è pericoloso…”
“E perché?”
“Perché sono fatti di una sostanza brutta brutta…”
“E perché?”
“Perché è no e basta!!”
Ma Martina sembrava non conoscere l’obbedienza, quantomeno a lei.
Una volta Ulai l’aveva trovata che giocava vicino al ruscello che passava appena fuori dal tempio.
“Cosa ci fai qui, eh?”Ulai adorava Martina, ma quel che era giusto era giusto.
 “Volevo…fare una prova…”
“Cosa ti avevo detto?”
Martina aveva fatto un sorriso quasi cattivo: “Tanto io non mi faccio niente”.
Ulai si stupiva di quanto volubile fosse l’espressione del volto della principessina: in quel momento, con quel sorriso un po’ cattivo assomigliava tantissimo a suo padre.
La bambina le aveva raccontato molte cose, fra cui il legame la univa a suo cugino Peter; non l’aveva più rivisto da quando il veleno dello scorpione l’aveva tramortita e si era ritrovata nel tempio di Ulai.
“Chissà se è vivo…forse sta morendo e io sono qui che non posso aiutarlo!”
Martina si era quasi messa a piangere  quando gliel’aveva detto.
“Ulai, non puoi fare qualcosa? Io non ho idea di dove sia…”
Ulai non sapeva cosa pensare.
Quel bambino poteva essere nel circondario così come dall’altra parte del pianeta.
Non restava che mettersi a cercarlo.
Era rischioso, ma avrebbe usato la sua autorità.
Per Martina avrebbe fatto qualsiasi cosa.
 

 
 
 
 
 
   
 
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