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Autore: Keyra    20/06/2007    5 recensioni
A volte capita che un ragazzo si innamori davvero.
A volte capita che un ragazzo si innamori davvero di una ragazza.
A volte capita che un ragazzo si innamori davvero di una ragazza malata.
(ULTIMO CAPITOLO)
Genere: Romantico, Triste, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Grazie a chi mi ha recensito pure questa volta! Un grazie immenso, davvero! A chi mi dice che è catturato dal mio modo di scrivere e che lo faccio davvero bene! Vi ringrazio un sacco, perché credo che per chi ama scrivere sia una delle cose più belle da sentirsi dire..!!
Ci ho messo tutto il mio cuore in questa storia, e spero quindi che vi piaccia davvero.

Un bacio, Keyra





******************************





Da quel momento in poi si instaurò, tra me e lei, un legame di complicità reciproca e di pura sincerità.

   Io ero lei e lei era me.

Ci promettemmo, quel pomeriggio, di dirci tutto quanto da quel momento in poi, di non avere nessun segreto tra di noi, qualsiasi cosa riguardasse.

In quei giorni mi raccontò tante cose della sua vita, mi descriveva le giornate che passava a Torino, i suoi amici, uno per uno.

Mi sembrava di conoscerli, quei ragazzi di città, di frequentare il liceo in cui studiava, di sapere il greco e il latino – io, che non sapevo neanche l’italiano.

 

-         Raccontami anche tu – mi diceva guardandomi negli occhi, catturandomi con il suo sguardo languido.

Ma io non volevo e rimanevo zitto, perché a volte mi accorgevo che la mia vita, in confronto alla sua, era monotona e senza via d’uscita.

Noi, adolescenti rinchiusi in un paese di quattro vie, avevamo come massimo divertimento gli sballi del sabato sera, sbornie birra spinelli e Marlboro. 

Quelle volte mi sentivo inferiore a lei, e quando succedeva mi rinchiudevo in un silenzio, a pensare.

E lei mi chiedeva

 

      - A cosa pensi?

      - A niente.

      - Non è vero. A cosa pensi? – ripeteva.

      - Ti ascolto, voglio ascoltarti.

      - ...

      - Davvero. Parla, voglio solo ascoltarti

 

E allora lei parlava.

Succedeva soprattutto durante le sere in cui dormivamo insieme.

Avevamo escogitato un piano per passare intere nottate stretti l’uno all’altro, da soli, senza amici intorno, senza nessuno che ronzasse ai nostri piedi, che parlasse, senza che nessuno sapesse niente di noi, di quello che stavamo dicendo, di quello che ci promettevamo.
In paese era così, la gente amava sparlare. E spesso ritrovavi all’origine di un pettegolezzo sparpagliato tra le vie uno dei tuoi migliori amici. Non ci potevi far niente. Era così.

A dire la verità, fu soprattutto lei a farsi venire in mente qualcosa di ingegnoso e abbastanza sicuro. Aveva pensato a tutto, ad ogni eventualità.

Lei era fatta così, se doveva fare una cosa, la voleva far bene, e pensava a tutto, sì.

Me ne resi conto con l’avanzare del tempo, di quanto era capace di organizzare tutto nei minimi dettagli, senza essere scoperta, nascondendosi all’ombra di sé stessa.

E così facemmo degli amici i nostri complici più fidati.

Quell’estate lei abitava da suo cugino, era sola, non c’erano i suoi genitori, e così fu facile, estremamente facile.

Ogni volta che organizzavamo di dormire insieme, lei e il cugino rubavano le chiavi della casa dei suoi genitori, che quell’estate era vuota.

Io portavo le coperte, per rimboccare i materassi, vecchi e consumati, e il mio migliore amico organizzava una festa a casa sua.

Era semplice.

Ufficialmente, lei ed io eravamo da lui, a divertirci in mezzo a pizze e champagne, come una buona parte dei ragazzi del paese, ma in realtà ci coccolavamo tra le lenzuola bianche e pulite, in mezzo a quella casa troppo vecchia e piena di topi.

 

-         Non è il massimo, ma si può fare - mi disse quando ci entrai per la prima volta.

 

E le nostri notti lì furono tra le migliori della mia vita. Furono tra le più romantiche e allo stesso tempo le più innocenti.

Stappavamo vodka o limoncello coricati tra le coperte fresche, ci raccontavamo i nostri sogni fissando la luce del lampadario opaco e la solita zanzarina ronzante, ascoltavamo il rumore dei grilli e il silenzio della notte abbracciandoci e coccolandoci e scambiandoci tanti baci gentili e dolci.

Era in quelle sere, che ogni tanto, mi sentivo inferiore a lei, in cui sentivo di quanto lei fosse migliore di me.

Forse era perché l’amavo, forse perché avrei dato tutto, per lei.

La vedevo un po’ come una dea, una dea che non può sbagliare, che non può soffrire, che non può non amare. Non amarsi.

 

-         Ti amo.. -

-         ...

-         ...

-         ...

-         ...

Bacio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le piaceva nuotare, tantissimo. Amava tuffarsi nell’acqua gelida e rinfrescare il corpo accaldato per via del sole cocente.
Si faceva lunghe nuotate fino a largo con suo cugino, finivamo per non vederli più dalla riva, poi tornavano entusiasti, e stanchi.

Nuotare la faceva sfogare, diceva. Era un metodo per dimenticarsi di tutta la sua vita, nuotando diventava un essere che non aveva anima, aveva solo corpo e nuotava.

Non pensava a nulla, mentre muoveva braccia e gambe per andare avanti e stare a galla. Era semplicemente così, non pensava a nulla.

Mi disse che ci aveva messo un bel po’, per imparare a non pensare, ed era una cosa abbastanza strana,

imparare

a non pensare.

Chiunque poteva fare il contrario, ma lei no. Lei imparò a disimparare a pensare.

 

-         Ci sono due momenti in cui non penso a niente – mi disse. – Quando nuoto, e quando ti ascolto suonare –

-          

Ogni giorno mi chiedeva di suonarle qualcosa e allora io prendevo in mano la chitarra e cominciavo a suonare, e a guardarla.

 

-         Guarda le corde, non me –

-         Perché?

-         Mi imbarazzo.

-         Eddai.

-         Davvero, guarda le corde. Sei anche più bello, se guardi le corde.

 

Me lo diceva con un sorriso sarcastico, voleva che facessi come diceva lei.

Veniva ad ogni ritrovo tra me e gli altri ragazzi con cui suonavo. Ci chiamavamo i Karmapolis e suonavamo grunge. Il nostro piccolo rifugio era il garage di uno di loro, ma si trovava a qualche chilometro dal paese, su in campagna.

Lei ci veniva lo stesso e durante le prove si sedeva su un divanetto di fronte a noi e ci guardava per tutto il tempo, sorridendo.

 

-         Canta – le dissi una volta.

-         No.

-         Perché?

-         Perché mi imbarazzo.

 

Lo ripeteva così tante volte, quel “mi imbarazzo”. Imparai ad apprezzarlo, sebbene fosse un lato che non mi piaceva molto di lei.

 

-         Sei stato bravissimo, oggi – mi ripeteva ogni volta tornando verso casa.

 

Mi prendeva la mano e ci appoggiava le labbra.

Impazzivo quando faceva così.

Allora io la prendevo in braccio e lei urlava di – Non farlo! Gabo! Non farlo! – , ruzzolavamo a terra e arrivavamo alla strada che portava al paese rotolando, correndo, ridendo come pazzi.

 

 

 

  
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