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Autore: itsjudsie    04/12/2012    4 recensioni
(...) Sobbalzai, non me l'aspettavo.
No, in realtà forse sì.
C'era sotto qualcosa, e quel 'qualcosa' non mi piaceva. (...)
Genere: Generale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Patrick Jane, Teresa Lisbon | Coppie: Jane/Lisbon
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 6. The end.
 
Passai tre ore a fissare il muro dall’altra parte del mio letto.
Pensavo a John, questa volta l’avrei preso.
Pensavo al piano che avevamo organizzato.
Che comunque non era poi gran che.
Noi → RJ → Theresa.
Poi pensavo anche al fatto che non riuscivo a capire com’ero rimasto così calmo, fin’ora.
Dentro stavo morendo, piano piano. La paura mi stava prosciugando dall’interno, in una morte lenta e dolorosa, che non lasciava scampo. La cura era non provare sentimenti, ma non potevo negarlo. Era anche il motivo per cui John aveva rapito proprio lei. Semplicemente.
Stavo impazzendo, non ce la facevo più, mi mancava tantissimo.
Credo di non aver mai avuto più paura di perderla che in quel momento.
Ero diviso a metà: una parte di me credeva fortemente che l’avrei rivista, l’altra sapeva che dovevo guardare in faccia la realtà.
 
Quando furono le 23:00 non riuscii più a resistere.
Presi la giacca e ci misi in tasca il cellulare, in silenzioso. Prima di uscire recuperai le chiavi della macchina che avevo lasciato nel cassetto, e poi corsi giù per le scale.
Mentre passavo in corridoio mi fermai un istante davanti all’ufficio di Lisbon.
Sentii un nodo in gola e il respiro che mi si spezzava. Per un momento mi cedettero le gambe e mi sentii debole.
La sua assenza mi faceva male.
 
«Ehi, Jane! È tutto pronto.»
«Dì a Cho che ci troviamo nel parcheggio. Guido io.» tirai fuori dalla tasca il mazzo di chiavi e le mostrai trionfante a un Rigsby che sapeva si sarebbe dovuto arrendere alla mia proposta. Che poi più che altro sarebbe stato un dato di fatto.
Lui fece una faccia strana, di disappunto, ma poi alzò le braccia in segno di resa, dandomela vinta.
 
Uscii dal CBI e andai nel parcheggio esterno.
Stavo sempre peggio.
L’unica cosa che volevo fare era piangere. Sfogarmi, far uscire tutte le lacrime che avevo, dalla prima all’ultima. Ma non potevo.
Non era il momento. Ora dovevo solo pensare a quello che avrei fatto, ma anche a quello che sarebbe potuto accadere se avessi fatto un passo falso.
Perché sì, c’era anche questa possibilità.
 
Quando arrivai alla mia macchina c’era la squadra che mi aspettava. Salii su e misi in moto, Cho seduto davanti accanto a me.
 
«Allora, siamo diretti a Old Sacramento?» voleva conferma.
«Come deciso nel piano, sì» o forse..
Non era molto distante dal centro, al lato ovest della città. Avevamo studiato tutto nei minimi dettagli, cosa fare, dove cercare. Pure come reagire. Sangue freddo.
Mancava solo un isolato ormai.
Pochissimo.
Poi sarei stato da lei. E da lui.
Mancava sempre meno, ero ansioso sempre di più.
Pochi minuti ancora mi separavano da tutto. Un tempo brevissimo ma allo stesso tempo interminabile.
Cho mi fissava, non riusciva a immaginarsi come sarebbe andata. Impassibile come sempre, ma sotto vedevo la preoccupazione anche in lui.
Cominciò a rilassarsi, quando all’improvviso feci inversione e senza dare spia fazioni imboccai la strada al contrario ed accelerai più che potei, tra le urla della ragazza e le proteste degli altri due.
 
Dopo una cinquantina di metri mi fermai e scesi dalla macchina.
Continuavano a chiedermi spiegazioni, ma mi seguirono lo stesso, con le pistole pronte.
Arrivai a una specie di capannone e spalancai le porte. Dentro era tutto buio, non riuscivo a distinguere nulla.
Poi ad un certo punto le luci si accesero, quasi accecandoci per la differenza di luminosità da due istanti prima, e si scoprì uno spettacolo che, lo ammetto, temevo avremmo potuto vedere.
Era uno spazio molto grande e i muri erano alti come quattro piani. E le pareti.
Le pareti erano ricoperte da cima a fondo del marchio di John. Saranno stati 500 simboli di sangue, lungo tutta la stanza bianca.
Ma di Theresa nessuna traccia.
 
Grace stava tremando.
Lo sapevo anche se era dietro di me e non la vedevo, ma sentivo Wayne che sottovoce cercava di calmarla.
«Va tutto bene, sono qui. Ma non guardare.»
Chiunque sarebbe rimasto impressionato da questo spettacolo raccapricciante. Potevo immaginare la paura della ragazza, quasi la percepivo.
 
«Stai tranquilla, andrà tutto bene, credimi. Ti fidi di me?» non c’era verso.
Mi voltai verso di lei «Piccola e dolce Grace.» Mi guardò con lo sguardo di chi preferirebbe trovarsi in qualsiasi altro posto invece che lì. «Ascoltami» le misi una mano sulla spalla, piano, quasi temessi di farle del male. La paura dal suo volto sparì e si voltò, incamminandosi verso la porta, l’unica zona non illuminata dell’immensa stanza, da cui eravamo distanti pochi metri.
Fece per aprirla, nessuno di noi stava guardando, e sentimmo un grido. Ci girammo di scatto e Grace non c’era. Ma la porta era rimasta chiusa.
Mi voltai in tutte le direzioni, cercando di trovare qualunque cosa, un movimento, un’ombra. Poi il mio sguardo venne catturato da un cigolio proveniente dall’altro e restai a bocca aperta.
 
Theresa.
 
Era ammanettata alla ringhiera, in un piccolo soppalco sopra la nostra testa. Svenuta, immagino, stava stesa e non si muoveva. Era imbavagliata e aveva i polsi legati.
 
Dentro di me non capii più niente. Una confusione mai avuta s’impossessò di tutto ciò che di razionale mi rimaneva. Dalla mia mente si cancellò ogni cosa, da quello che stavo pensando, alla paura che provavo. Mi sentii vuoto ma allo stesso tempo come se avessi ritrovato la metà di me che avevo perso e mi sentivo finalmente completo.
Era la prima volta in tutta la mia vita che perdevo il controllo, e non riuscivo comunque a capirne il perché.
Poi, però, dopo un attimo di vuoto completo, mi tornò in mente che ero lì per un motivo.
 
Mi voltai verso i ragazzi, che mi stavano fissando con negli occhi un misto di paura e confusione.
Non feci in tempo a fare una passo che qualcuno pronunciò il mio nome.
«Patrick.» mi voltai verso il punto da cui veniva la voce. Il muro. Nessuno. Ma com’era possibile?
«Devo davvero farti i complimenti, caro Jane. Sapevo che eri molto bravo, ma non avrei mai immaginato così tanto. Mi hai sorpreso. Però anch’io sono stato bravo, non trovi?»
«John » incrociai le braccia « allora mia hai sottovalutato. Però devo ammetterlo, anch’io l’ho fatto. Non credevo saresti riuscito a organizzare un piano del genere. Però le cimici al CBI sono state un colpo basso.»
«Stai attento, ragazzo. Mi hai già sfidato una volta, ti ricordi com’è andata?» altro colpo basso.
«Però adesso siamo qui. C’è tempo. Tu hai fretta? Nemmeno io. Quindi, raccontami come hai fatto, sono proprio curioso.»
«Per cosa? Scoprire i tuoi trucchetti? Oh, non è stato per niente difficile. La prossima volta organizzati meglio, è un consiglio da amico. Mi sono accorto che ci stavi spiando molto presto, per fortuna. Il fatto che mi hai chiamato la seconda volta proprio quando i ragazzi erano con me. Come facevi a saperlo? E come facevi ad essere sicuro che non avresti corso il rischio di essere rintracciato? Nella mia stanza sarebbe stato impossibile farlo, quindi dovevi essere stato avvertito da qualcuno, o in questo caso da qualcosa.»
«E il tuo amico, dietro di te, era caduto nella mia trappola, però tu non ci sei cascato anche se hai fatto finta fino all’ultimo, per poi arrivare e qui e trovarmi impreparato. Molto astuto, devo riconoscertelo. Solo una mente come la tua l’avrebbe capito.»
«Sì, ho trovato un’altra piccola telecamera in macchina, quindi se avessi svelato lì il mio piano l’avresti saputo subito. Quindi siamo andati fino al posto deciso e all’ultimo momento ho cambiato direzione. Così non avresti avuto il tempo per prepararti. Come ho capito tutto? Nello stesso modo in cui Rigsby è arrivato alle sue conclusioni. Sbagliate, ma è comunque stato bravo. Bene, nella telefonata c’erano dei rumori. Il treno e l’eco. Come avevamo capito tutto portava alla stazione di Old Sacramento. Ma a loro è sfuggito un dettaglio che però a me non è scappato. All’inizio anch’io avevo sentito solo questo. Ma poi c’ho ripensato, e mi è venuto in mente un rumore a cui prima non avevo fatto caso. Un ‘click’ metallico all’inizio e uno alla fine, e non mi sembrano rumori riconducibili a dei treni. Così ho pensato “ma cosa centrano?”, “cosa ci facevano in quella telefonata?” E, sì, sono arrivato ad una conclusione. L’unica spiegazione logica era che quei ‘click’ appartenevano all’accensione e allo spegnimento di un registratore, perché verso la fine, dopo le tue parole e dopo il secondo ‘click’, ho sentito un’ altra cosa, che centra poco con i treni, o sbaglio? Quante stazioni conosci vicino al corso di un fiume? Qui, nessuna, quindi scartai l’idea che ti fossi spostato dalla California. Dopotutto è me che vuoi, quindi non aveva senso andare lontano. E, bene, l’unico fiume qui vicino è appunto il Sacramento River. E a quanto vedo, tutte le mie deduzioni erano esatte. Ma dovevo rischiare. Quindi ora che ne dici di darmi quello che voglio? E questa volta vale doppio.» Theresa e Grace.
«Davvero molto astuto, di nuovo i miei complimenti. Ma non avrai ciò che vuoi. Non mi arrendo così facilmente, neanche adesso che mi hai scoperto. Saluta per l’ultima volta le tue amichette.»
In alto, sopra a Lisbon di accese una luce, e vidi che vicino a lei adesso c’era anche Grace.
Pure lei legata, e pure lei svenuta.
Sentii dietro di me Rigsby sussultare. Immaginai la sua reazione: le gambe che cedono, gli occhi sgranati. Dopotutto John aveva colpito anche lui nel suo punto debole.
«Caro Patrick. Ipnotizzarla non è servito a niente sai? La paura che ho visto nei suoi occhi.»
«Capo, che facciamo?» Capo. Cho mi aveva chiamato così.
Era Theresa il capo, e non seppi se era una buona cosa oppure no. Se anche lui temesse il peggio, o se semplicemente mi vedeva al suo posto perché sapeva quello che provavo. Sì, ormai doveva essersi capito.
 
«Bene, Patrick, ora dimmi: esattamente, come pensi di uccidermi? Perché è questo che vuoi.»
Mentre parlava cercavo di trovare il punto da cui veniva la sua voce. Guardai in alto, dove c’erano le due ragazze, poi nella parte opposta. Non riuscivo a capire, più mi sforzavo, meno riuscivo a concentrarmi.
Poi, ad un certo punto, lo vidi.
O almeno, vidi la sua ombra nell’oscurità, mentre mi fissava.
Però se ne accorse e cominciò a correre.
Rigsby e Cho seguirono il mio sguardo e scattarono, la pistola puntata.
Questa volta ero sicuro: l’avremmo preso.
I ragazzi trovarono una scaletta per salire e si arrampicarono.
Io rimasi lì, fermo, a guardare. Mi sentii impotente, non potevo fare nulla. Ero un mentalista io, non un poliziotto. Non avevo una pistola e neanche un paio di manette. Avevo solo tanta vendetta. Bastava?
Arrivarono su e si guardarono intorno. A pochi metri da loro, le ragazze erano ancora stese per terra. Ma non erano lì per loro.
«A destra!» urlai la direzione in cui l’avevo visto scappare. Cominciarono a correre e in fondo a quel ‘corridoio’ trovarono una porta che stando già non si vedeva.
Girarono la maniglia ma non si aprì. Allora provarono con un calcio, ma niente. Cho fece cenno all’altro di spostarsi e si fece indietro. Puntò la pistola e fece fuoco. Non successe nulla. Aprì le munizioni e vide che era scarica.
Ma come..
John.
 
Lui era scappato da lì, non eravamo riusciti a prenderlo neanche questa volta.
Mi diressi verso la scaletta e salii, dovevamo liberare le ragazze.
 
John se n’era andato. La battaglia era finita pari. Lui era riuscito a scappare e noi avevamo Theresa e Grace.
 
Con passo veloce mi avvicinai e le guardai.
Sembrava stessero dormendo.
Erano bellissime, tutte e due, e sentii una stretta al cuore.
Poi guardai lei.
Mi abbassai e senza pensarci con la mano le accarezzai la guancia e poi i capelli.
Mi sentii di nuovo bene, dopo tanto tempo. Era come se la metà di me che era rimasta sola avesse finalmente trovato ciò che le mancava, e che la faceva sentire inutile.
Sì, perché io senza di lei ero inutile.
 
Con la coda dell’occhio vidi i due agenti tornare indietro da dove erano corsi poco prima, e spostai la mia attenzione sulle manette. In un attimo le aprii, e lo appoggiai per terra.
«Pensateci voi, io vado fuori a vedere se ci sono tracce di John.» Cho sembrava.. strano. Aveva preso questo caso come personale, voleva vendetta anche lui.
Mi passò accanto e scese giù, dirigendosi verso la grande porta. Poi uscì.
«Grazie, svegliati. Ti prego. Mi senti?» ma la ragazza non rispose.
Mi avvicinai e le toccai ancora la spalla, due colpetti. Lei aprì gli occhi e appena vide Wayne scattò a sedere e le buttò le braccia al collo.
Piangeva. Lui la strinse a sé, seduto sui talloni, e per poco non perse l’equilibrio. Poi la portò giù, piano, e la portò in macchina.
 
Restammo io e Theresa.
Dormiva ancora.
Da una parte avevo paura di svegliarla, però dall’altra volevo vedere i suoi occhi. Mi mancavano.
Mi mancava lei.
«Tess.. » non avevo il coraggio neanche di pronunciare il suo nome completo.
«Mmh.. » forse mi aveva sentito? Però aveva ancora gli occhi chiusi. Doveva essere stata una reazione involontaria, immaginai.
Le presi la mano e incrociai le dita tra le sue. Sentii un calore dentro, una sensazione nuova, un brivido mi percorse la schiena.
Sempre tenendole la mano, mi sedetti accanto gambe incrociate, e girai lo sguardo verso le pareti.
La cosa che più temevo era che il sangue fosse il suo, ma vedevo che stava bene. Non era ferita, e questo mi sollevava tantissimo.
Però, chissà di chi era. I simboli erano tantissimi, e sperai che ognuno non fosse di una persona diversa.
«Patrick» si era svegliata. La guardai e vidi che aveva il volto rigato dalle lacrime. Non volevo sapere cosa aveva passato.
 Con l’altro braccio si tirò su a sedere e l’aiutai.
Ci trovammo seduti uno di fronte all’altro, per mano.
Sembravamo due ragazzini al parco insieme, a giocare sull’erba.
«Patrick» ripeté il mio nome.
Avrei voluto che il tempo si fermasse. Ero rimasto due giorni senza di lei, ma mi sembravano anni. E ora, era qui davanti a me.
Si avvicinò un po’ con la testa, e lo feci anch’io.
Continuavamo a guardarci, nessuno dei due aveva il coraggio di distogliere lo sguardo.
Poi un altro po’, poi ancora.
Ci ritrovammo a pochi centimetri di distanza. Vedevo ancora le lacrime sulle sue guance, erano piccole goccioline che brillavano nella poca luce che c’era.
Con l’altra mano cercai di asciugarle un po’, ma mi accorsi che stavo piangendo anch’io.
Continuando a guardarla, mi avvicinai sempre di più.
Poi chiudemmo gli occhi insieme.

 

Note:ho solo una domanda da farvi: VI HO SORPRESI?
Vi prego, fatemi sapere che ne pensate, ci tengo molto.
 
Ps: non ho nient’altro da dire, solamente che mi è piaciuto tantissimo
scrivere questa long, e ringrazio tutti quelli che fin’ora hanno recensito.
 
Un bacione.
-M
 

  
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