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Autore: _maya96_    05/12/2012    1 recensioni
Era accaduto tutto così velocemente, neanche mi ero resa conto di cosa fosse realmente successo. Una serie di immagini sfocate, a cui cercai di dare un senso, mi trapassò la mente, mentre chiudevo gli occhi, forse per l’ultima volta.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Klaus, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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-Twin Princess-
 
-Principesse Gemelle-
 
 

“Malgrado sapessi che vi sarei rimasta intrappolata per sempre…ho ugualmente proteso le mani verso i fili della sua ragnatela.”
 
-Honey Blood-

 


Presi quel lucchetto tra le mani e sentii la superficie fredda di quell’acciaio. Feci un lungo e pesante respiro e tentai di aprirlo per la decima volta.
Il mio armadietto della scuola doveva essere per forza difettoso, non era possibile metterci tutto questo tempo per aprire quel dannato apparecchio. Mi ero ripromessa di chiedere uno scambio, ma dopo tutto quello che era accaduto in quegli ultimi giorni mi ero dimenticata di farlo e ogni volta che dovevo prendere un libro mi maledicevo per non averlo ancora chiesto.
Alla fine rinunciai, come sempre mi capitava con le scelte difficili e impegnative da prendere, forse per dimenticanza o per pigrizia, ancora non ero arrivata ad una soluzione.
Sorrisi, ma un sorriso che lasciava trasparire tanta malinconia. Avevo deciso di non essere più quel tipo di ragazza, quella triste che ha perso i genitori e finge di essere forte davanti agli altri. Avevo cambiato casa, avevo cambiato scuola, ma nonostante tutti i miei tentativi non potevo cambiare anche me stessa. Era una partita a cui avrei perso.
Lasciai andare quel lucchetto che provocò un secco rumore quando si scontrò con la porta d’acciaio e lo guardai per un attimo come se aspettassi che si aprisse magicamente davanti ai miei occhi.
“Non riuscirai ad aprirlo con la forza del pensiero. Credimi, ci ho già provato”
Una calda voce soave soffiò alle mie spalle, come un leggero vento che giungeva inebriante al mare, con il suo solleticante profumo salato.
Mi voltai velocemente, sapendo già di scontrarmi con quel mare color smeraldo in cui mi aveva portato il vento, che colorava le sue limpide iridi.
“Scott”.
“Buongiorno Alba”.
Non gli avevo più parlato dal giorno di quel mezzo incidente nella sua macchina. Non seppi il motivo ma l’avevo evitato, forse per Allison o forse l’avevo fatto per me?
“Come ti senti?”  Mi domandò sfiorandomi con le dita la fronte dove ancora risiedeva il cerotto.
“Sto bene, davvero” gli risposi, cercando di mascherare il dolore che ancora mi causava quella ferita. “Grazie”.
“D’accordo” mi disse, mettendomi le mani sulle spalle e facendomi girare delicatamente verso l’armadietto. “Posso aiutarti?”
Senza attendere una mia risposta, che ancora mi vagava nella testa, cercando di comprendere il significato della sua domanda, mi prese una mano tra le sue e l’avvicinò al lucchetto.
“Ti mostro come si fa” mi sussurrò all’orecchio, mentre il calore della sua pelle m’invase tutto il corpo. “È solo questione di polso”.
La sua alta figura restava immobile dietro le mie spalle e quasi riuscii a sentire l’impercettibile fruscio del tessuto della sua maglia sfiorare la mia schiena. Il suo palmo restava leggero sul mio dorso della mano, come in una calda carezza, finché tutta quella magia s’interruppe dal colpo che diede il suo polso al mio, facendo scattare l’apparecchio davanti ai nostri occhi.
“Grazie” riuscii a dire debolmente, mentre la sua mano restava ancora sospesa sulla mia e il suo respiro mi smuoveva dolcemente i capelli.
“Di niente” mi rispose liberandomi dalla sua stretta e facendo un passo indietro. Alzai lo sguardo e incontrai il suo immobile su di me e quel verde m’intrappolò, come se mi trovassi in mezzo all’oceano.
“Oggi andiamo tutti al Grill, vuoi venire?” Mi chiese, non smuovendo lo sguardo dal mio, alludendo al bar poco distante dalla scuola.
Feci un profondo respiro e malinconicamente fui costretta a rifiutare, avevo già altri impegni per quel pomeriggio, che non mi sentivo di rinviare.
“Come fai a dir di no a quegli occhi stupendi. Io non potrei mai riuscirci”.
Una voce femminile e molto profonda ci costrinse a voltarci entrambi nella stessa direzione.
Una ragazza dai lunghi capelli ramati, che ricadevano in perfetti boccoli sulle spalle e dai chiari occhi castani dai riflessi dorati era immobile davanti a noi.
Uno scaltro e provocatorio sorriso era dipinto sulle sue labbra piene, colorate di un vivido rosso acceso e un’aria altezzosa velava il suo sguardo.
“È la tua nuova conquista Scott McQueen? È molto carina” disse voltandosi verso il ragazzo e parlando come se io non fossi presente, ma un fantasma che veniva trapassato dai suoi occhi truccati. “Potrei diventare molto gelosa, sai?”  Sorrise allegramente smuovendo la sua cascata di capelli ramati da una parte all’altra, mostrando il suo prezioso foulard che portava indosso.
“Io sono Samantha. Samantha Argent, ma sicuramente lo saprai già”  disse invece rivolgendosi verso di me. “Tu sei la ragazza nuova?”
“Alba” risposi indifferente al suo tono arrogante e superbo.
“Ti avverto Alba, non lasciarti ingannare dal suo sorriso…” interruppe per un attimo la frase voltando il capo verso Scott . “Sa essere un vero stronzo”.
Spalancai gli occhi, sorpresa dalle sue parole sfrontate, ma lei sembrava divertita di questo e rideva come una bambina.
“Dacci un taglio Samantha, per favore” gli chiese Scott con i suoi modi gentili ed educati, come se non tenesse conto dell’insulto che gli aveva proferito.
Samantha roteò gli occhi, infastidita che il suo “gioco” fosse finito. “D’accordo, solo perché sei tu a chiedermelo” disse infine sorridendogli e alzandogli il mento con le dita smaltate di rosso. “E poi ero venuta per invitarvi alla festa di domani sera in spiaggia” .
Una festa? Non mi sentivo di andarci dopo l’ultima a cui avevo preso parte quella notte. Quella dannata notte che ancora velava malinconica su di me, come se quel gelido vento non avesse mai smesso di trafiggermi con le sue lame d’argento il corpo sorpassato da mille tremori.
“Io verrò”.
La calda voce di Scott mi riportò per l’ennesima volta alla realtà, strappando la mia immagine da quel limbo tra passato e presente in cui camminavo senza meta.
Non tutti quelli che vagano sono perduti.
Quella frase letta qualche giorno prima in un libro mi tornò alla mente, ma ancora una volta non riuscii a comprendere il significato nascosto dietro quelle parole. Forse un giorno lo avrei capito.
“Fantastico” esultò Samantha, poi si voltò verso me “ E tu verrai?” Mi chiese, con il suo tono arrogante, come se lo stesse facendo solo per cortesia.
Scott spostò lo sguardo verso di me in attesa di una mia risposta. I suoi caldi occhi verdi si unirono ai miei, legati da quell’inspezzabile filo rosso, che parve disegnarsi nella mia mente.
“Sono di troppo?”  Chiese ironica Samantha, giocherellando con un suo boccolo perfetto e sbattendo un paio di volte le lunga e folte ciglia scure.
Senza voltarmi verso di lei presi il mio ciondolo tra le mani e me lo passai tra le dita, cercando le parole da dire.
“Io non credo di venire”.
Non avevo voglia di partecipare a questa festa. A dir la verità non avevo voglia di partecipare neanche a quella, eppure ci ero andata ugualmente. Se potessi soltanto tornare indietro, di tutti i miei sbagli cancellerei quella notte.
“Peccato. Ci mancherai” disse Samantha con un finto tono dispiaciuto.
Scott fece un passo verso di me e dischiuse le labbra, come se stesse per dire qualcosa, ma la rossa lo prese per un braccio, costringendolo a voltarsi verso di lei. “Ci andrai con Allison?” Gli chiese, sbattendo le ciglia e sorridendo avidamente.
“No” rispose abbassando per un attimo gli occhi sui miei. “Noi non stiamo più insieme”.
“Ma allora è davvero finita? Povera piccola Ally dev’essere distrutta” le sue parole non sembravano dispiaciute anzi, erano velate da un tono di sfida. “Ma vedo che tu ti sei ripreso. Le hai già trovato un rimpiazzo”.
Rimpiazzo?
Si stava sicuramente riferendo a me. L’avevo conosciuta da neanche dieci muniti e già non la sopportavo, era davvero una persona di una cattiveria irritante.
“Samantha, ora basta!” Disse Scott spazientito.
“Io e Scott siamo solo amici” lo interruppi io, cercando di mantenere la calma. “E io non sono il rimpiazzo di nessuno!”
Lei spalancò gli occhi, notevolmente sorpresa della mia risposta, ma io le conoscevo le persone viziate e arroganti come lei, bisognava fin da subito mettere le cose in chiaro, altrimenti con la loro prepotenza finiscono per travolgerti.
Scott sorrise in silenzio della mia risposta, anche lui visibilmente sorpreso, forse anche soddisfatto che le avessi parlato in quel modo, ma probabilmente mi stavo sbagliando.
“Che bel caratterino” asserì Samantha, divertita dal fatto che qualcuno avesse provato a tenergli testa. “Io e te siamo uguali. Sono sicura che diventeremo grandi amiche”.
“Grazie, ma so scegliere da sola le amicizie”.
Feci un sorriso e dopo averli salutati entrambi, rivolsi uno sguardo a Scott e m’incamminai verso l’uscita. Era tardi, dovevo andare e il treno non sarebbe rimasto lì ad aspettarmi se fossi arrivata in ritardo.
Avevo bisogno di lasciarmi tutto alle spalle e di ritornare di nuovo nel mio mondo al quale ero fuggita e in cui prima o poi sarei dovuta ritornare.
 

* * * *

 
“Non dovrebbe affaticarsi così signora Miller, vado a prenderglielo io. Mi dica dov’è”.
“Non ti preoccupare Allison, non sono ancora così vecchia”.
Mi fermai di scatto sentendo quelle voci provenienti dalla biblioteca. Era martedì, avrei dovuto dare una mano a mettere in ordine i libri con Ally, ma avevo chiesto ai miei zii la giustificazione, oggi non avrei potuto fermarmi.
“Sono qui per darle una mano, insisto”.
Mi avvicinai all’entrata e mi nascosi dietro lo stipite della porta, dovevo avvertire la signora Miller della mia assenza, ma non volevo interromperle.
“Se vuoi darmi una mano trascrivi l’elenco di tutti gli studenti che hanno preso in prestito i libri e non gl’hanno ancora restituiti, mi faresti un favore”. La voce della signora Miller era affaticata. “Quel manuale lo cercheremo un altro giorno” disse sistemandosi velocemente i capelli bianchi.
“D’accordo” rispose Ally visibilmente spazientita, anche se non voleva darlo a vedere. “La prossima volta” e così dicendo uscì velocemente dall’altra porta della biblioteca, che portava nella sala informatica, probabilmente per ricopiare quell’elenco.
Mi sentii colpevole, sembrava avessero un mucchio di lavoro, ma io non potevo aiutarle, avevo altro da fare.
“Non restartene in piedi dietro la porta, entra pure signorina Summers”.
Sobbalzai dalla sorpresa quando mi accorsi che le sue parole erano rivolte verso di me, mi aveva sentita, forse sembrava che stessi origliando?
Sospirai lievemente ed entrai nella biblioteca sommersa dall’odore antico che emanavano i libri ordinati sugli appositi scaffali.
La signora Miller se n’è stava elegantemente in piedi con il suo solito gilet ricamato sulle spalle e i capelli brizzolati raccolti ordinatamente.
“Ti stavo aspettando” mi disse sorridendomi, mettendo un altro libro dalla copertina verde in uno scatolone.
Mi avvicinai a lei, tenendo in mano il diario con la giustificazione e glielo porsi gentilmente per farglielo leggere, cercando di non pensare a quel sogno della settimana scorsa.
La leggenda è vera…devi fuggire prima che sia troppo tardi, non deve sapere che esisti.
“Oggi ho un impegno, non posso rimanere” azzardai tentennante pensando ancora al nostro ultimo e a quella sua frase pronunciata in quello stupido ed insensato incubo.
“Va bene” rispose firmando velocemente quella pagina con la mano un po’ tremante, probabilmente per l’età.
“Grazie” ripresi l’agenda tra le mie mani. “Arrivederci” dissi mentre mi allontanavo, dirigendomi verso l’uscita.
“Signorina Summers?”
La sua voce mi fece voltare verso di lei e vidi la sua espressione farsi improvvisamente seria.
“Sì?”
“Se c’è qualcosa che ti preoccupa puoi parlare con me, lo sai?”
Mi bloccai improvvisamente. Che avesse percepito la mia preoccupazione nel starle vicino dopo quello che era successo l’ultima volta? Anche se si era trattato solo di un sogno, mi aveva parecchio sconvolta. Annuii silenziosa alla sua domanda.
 “C’è forse qualcosa che devi dirmi?” Mi chiese guardandomi negli occhi.
Dovevo farlo, dovevo dirglielo, forse lei mi avrebbe aiutata per quella che stava diventando la mia peggior paura. Quell’uomo dagli occhi di ghiaccio. Se i miei zii non mi davano ascolto, potevo chiedere aiuto a qualcun’altro.
“No, nulla” risposi. Forse era ancora troppo presto, in fondo non ero certa che Klaus nascondesse qualcosa.
“Quand’è così” affermò tornando a mettere in ordine quei libri in quel pallido scatolone.
Mi voltai indietro stupita dalle sue parole, dalla sua capacità di capirmi, ma anche dalla mia ostinazione di fare tutto da sola.
Uscii velocemente dalla scuola, cercando di radunare tutti quei pensieri che mi turbinavano in testa, come se ci fosse un uragano pronto a portarmi via, mentre mi dirigevo incurante verso la stazione.
 

* * * *

 
Feci un lungo respiro e guardai l’opaco acciaio pesante delle rotaie fuori dal finestrino.
Il paesaggio fuori ancora non scorreva veloce, ma era immobile, aspettando quel momento in cui sarebbe svanito alle spalle del treno, dietro ad una fitta coltre di polvere ed un nuovo scenario avrebbe preso il suo posto, ma non così tanto diverso. In fondo lo avevo già visto, lo conoscevo bene e avevo nostalgia di ritornarci, di rivedere lo stesso cielo, di respirare la stessa aria, sebbene fosse intrisa di smog, ma ciò non mi dava fastidio.
Volevo tornare indietro, rivivere il passato e abbracciare quei ricordi, che erano rimasti assopiti per troppo tempo.
Avevo bisogno di loro.
Una fitta mi trapassò lo stomaco quando realizzai il significato di ogni singola parola di quella frase.
Sì, avevo bisogno di loro. Di sentirli vicini o almeno fingere che lo fossero. Avevo bisogno di parlarli e di far finta di ricevere delle risposte. Delle dannate risposte che sapevo che non arriveranno mai. Le avevo cercate per troppo tempo, ma forse non smetterò mai di farlo, perché mi donavano quell’unico appiglio di speranza che mi rimaneva per non cadere nel baratro, ma a lungo andare anche la speranza muore e trasforma tutto ciò in cui hai creduto in una dannata illusione.
Ero a conoscenza di tutto questo eppure non mi davo per vinta.
Dei singhiozzi mi salirono crudeli dalla gola bruciante, ma li fermai prima che potessero avere voce, non era ancora arrivato il momento di liberarli.
Strinsi con forza il libro che tenevo in mano. Mi ero illusa di finirlo di leggere durante il viaggio, ma ormai erano venti minuti che indugiavo sulla stessa pagina.
Un forte fischio si librò alto nel cielo, trafiggendo con quel suo ferroso rumore il forte vento che soffiava con furia contro il finestrino e innalzava avido dal terreno quelle foglie ormai secche e prive di vita.
Stavamo partendo.
Sentii l’inconfondibile suono dei pesanti macchinari che si mettevano in moto e il treno che incominciò a scivolare veloce sulle rotaie arrugginite.
Tutto esattamente com’era successo quel giorno.
“Alba siediti che stiamo patendo”.
“Si, mamma”.
Era la prima volta che prendevo il treno.
Mi elettrizzava l’idea di partire e andare dai miei zii a Port Angeles per qualche giorno, ma avevo solo otto anni, a quell’età anche la più piccola cosa mi rendeva elettrizzata.
Sbattei fortemente le palpebre, cercando di non rendermi vittima di quel ricordo, ma ciò sembrava inevitabile, come mi succedeva spesso in quel periodo.
Voltai velocemente la testa dal luogo in cui avevo sentito quelle voci gridare dal passato e la vidi finalmente dopo tanto tempo, mia madre.
Era esattamente come la ricordavo. I lunghi e lisci capelli castani, le ricadevano sulle spalle strette e quei grandi occhi color nocciola risaltavano sul suo viso dalla pelle olivastra. Indossava il suo pullover preferito color malva, regalato da papà lo scorso anno per Natale.
La sua voce melodiosa mi bloccò il respiro e quasi il battito del cuore. Era davanti ai miei occhi, non era possibile.
Ma c’era qualcosa di diverso in lei, nei suoi occhi, sembravano gonfi e lucidi, come se avesse…pianto.
Non sapevo cosa fare, cosa dire, il silenzio più assoluto avvolgeva la mia mente, ma all’interno si celavano mille pensieri, attendenti che gli dessi un ordine.
Mi alzai incredula non staccando lo sguardo dal suo, ma lei non pareva vedermi. I suoi occhi sembravano passarmi attraverso, come se fossi io il fantasma.
Era solo un ricordo, eppure era così reale…
Lei entrò nella piccola cabina passandomi accanto e prese il suo posto dov’ero seduta io, vicino al finestrino.
Si tolse velocemente la borsa e se la sistemò stretta in grembo e dopo aver dato una veloce occhiata fuori, incominciò a giocherellare nervosamente con la sua catenina appesa al collo sottile. Su questo dovevo aver preso da lei.
Ogni immagine che avevo davanti era così nitida, non poteva essere solo un ricordo. Un ricordo era formato da rimasugli di pensiero, era frammentato, sfocato, non poteva essere certamente così dettagliato, come se lo stessi vivendo di nuovo.
Sentivo un’irrefrenabile voglia di parlarle, volevo autoconvincermi del fatto che lei non potesse rispondermi, ma non per masochismo, per essere sicura che non si trattasse della realtà.
Feci un grosso respiro e mi accorsi che tremavo. L’aria usciva a scatti dalle mie labbra screpolate e la gola secca implorava pietà.
Se non mi sentisse?
La bocca mi si chiuse velocemente, bloccandomi le parole.
Quella era la mia paura. Avevo aspettato così tanto, avevo perso così troppo, ma non potevo anche perdere quell’ultima speranza di una sua risposta, mi avrebbe distrutta, ma non potevo neanche restare in silenzio ad aspettare.
Ma cosa potevo fare?
Cosa volevo ottenere? Una sua risposta?  Che lei tornasse indietro?
Lei era morta, dannazione. Morta! Non sarebbe mai tornata e dovevo smetterla di farmi del male continuando a sperarlo.
La parte razionale di me m’induceva a lasciar perdere, ad andarmene, ma non ci riuscivo, avevo bisogno di lei. Volevo che mi fosse accanto, anche se lei non si accorgeva della mia presenza, mi bastava che lo sapessi io.
Forse ero troppo egoista, dovevo lasciarla andare, ma forse non ci sarei mai riuscita.
“Mamma”.
Mi misi una mano sulle labbra quando mi accorsi di aver pronunciato quella parola e sbarrai gli occhi quando realizzai che lei l’aveva sentita.
Ma c’era qualcosa di strano nella mia voce. Era diversa, mi risuonava nella mente come un ricordo lontano, che stavo rivivendo, ma che doveva essere svanito.
Aprii forte le mani davanti al mio volto e quasi mi mancò il respiro. Non potevano essere le mie. Erano così piccole, minute e fragili, sembravano quelle di una bambina.
Alzai involontariamente lo sguardo sul finestrino davanti a me e scorsi il mio pallido riflesso sul vetro.
Gli scuri capelli erano raccolti disordinatamente in una crocchia, scoprendomi il viso dai tratti infantili e quasi dovetti alzarmi in punta di piedi per scorgerlo tutto.
Indossavo il mio vecchio vestito blu da principessa, quello che avevo indossato quel giorno per la festa di Carnevale a Port Angeles, che dovevamo raggiungere.
“Dai Alba, siediti!”
Mi voltai di nuovo sorpresa verso mia madre e la vidi sorridermi. Dopo tanto tempo rividi il suo sorriso.
Feci come mi aveva detto e presi posto nel sedile davanti a lei, vicino al finestrino.
Avevo così tante volte sognato di rivederla che ora mi mancavano le parole, come se non riuscissi a parlare e stessi ancora realizzando cosa stava accadendo su quel treno.
“Lo so che vorresti che papà venisse con noi, ma non è possibile”
La sua voce sembrava tremasse, trattenendo a stento dei singhiozzi. Doveva essere successo qualche cosa, di cui però non avevo memoria.
“È successo qualcosa di triste?”
Sbarrai gli occhi quando sentii quella frase. Era la mia voce, la stessa che aveva gridato “mamma” pochi istanti fa, ma non l’avevo pronunciata io, non questa volta.
Mi voltai velocemente e mi mancò il respiro quando trovai il posto accanto al mio non più vuoto, ma occupato da una bambina, con un ingombrante vestito blu, gli stessi capelli mossi raccolti disordinatamente e gli stessi occhi scuri su cui si ripiegavano le stesse folte ciglia nere.
Quella bambina ero io.
Non era possibile o forse in un sogno folle come questo quella irreale ero io?
“No, non ti preoccupare, va tutto bene”.
Mia madre sorrise alla bambina. Mi rattristò sapere che le sue parole e i suoi sinceri sorrisi non erano rivolti a me, ma ad una pallida figura che non esisteva nemmeno.
Che sciocca!
La sua immagine che prima era vivida e luminosa ora perse una tonalità, così come tutto il colore delle pareti del treno, che si stavano abbandonando ad un’oscurità che con il suo calore mi stava divorando. Stavo incominciando a svegliarmi.
No!
Mi alzai di scatto, pronunciando quella parola che non ebbe voce, ma mi rimase sospesa sulle labbra come i fragili sospiri di un muto.
Ti prego!
Urlai. Urlai con tutta la forza che avevo in corpo. Non doveva sparire, non doveva lasciarmi, non poteva farlo di nuovo.
Ero sola. Di nuovo. Nessuno poteva sentirmi, nessuno poteva vedermi, lei non poteva vedermi, era forse la cosa che faceva più male.
Sapevo che tutto questo era soltanto un sogno, ma anche solo per un banale e stupido istante ho sperato che non fosse tale. Avrei dovuto accorgermene, era troppo bello per essere vero.
Non lasciarmi!
“Non dovresti essere qui”.
Una voce parlò alle mie spalle e mi distolse per un attimo dall’immagine di mia madre, che scomparve in quel buio in cui non c’era una fine.
Mi voltai di scatto, sorpresa dal fatto che quelle parole potessero essere rivolte verso di me e trovai il viso di quella bambina a pochi centimetri dal mio.
I suoi occhi scuri fissavano i miei. Erano sbarrati dal terrore e dalla sorpresa, sembrava avesse paura. No, non avrei potuto sbagliarmi. Il suo volto, come il suo sguardo era identico al mio.
“Questo non è il tuo posto, devi andartene”.
Mi urlò contro con tutta la forza che aveva nel suo corpo minuto. Il suo grido m’invase la testa e si susseguì come un lontano eco che rimbalzava tra le pareti di quel treno, ormai avvolto dalle tenebre.
Nulla aveva più una forma, nulla aveva più un colore, tutto ciò che prima vedevo ora era soltanto ombra. Un’ombra oscura che sopprimeva quell’aria e avvolgeva come un rovo di spine il mio cuore palpitante.
Eravamo solo io e lei. Due immagini apparentemente uguali, ma che negli occhi celavano qualcosa di diverso.
“Di cosa stai parlando?”
Pronunciai a stento e con voce tremante la prima domanda che mi sorse in mente.
Lei fece un passo verso me, tanto che riuscii a scorgere il mio volto imprigionato nel nero dei suoi occhi. Le pupille tremanti, ancora più scure, erano accecate dalla paura.
“Vattene, prima che sia irrimediabile”.
Non me ne accorsi subito. Né dolore, né bruciore o alcun tipo di male, solo quel caldo liquido scarlatto che si espandeva, colorando quella chiazza formatasi sul petto del colore della morte.
Lo sentivo scorrere sotto il tessuto della mia maglia, bagnando ogni fibra del mio corpo. Mi fluiva addosso, così crudele ed effimero che quasi non riuscii a riconoscerlo.
Mi aveva pugnalata.
Abbassai lentamente la testa emettendo un impronunciabile verso, rappresentante il dolore che non sentivo, forse perché ormai era fin troppo lontano.
Un sottile coltello d’argento sporgeva acutamente dal mio petto con la punta rivolta al mio cuore, da dove zampillavano caldi rivoli di sangue.
“Mi dispiace”.
Alzai gli occhi e incontrai i suoi. La sua mano era sporca di sangue, del mio sangue. Sembrava così piccola, così innocente ma lo scarlatto che ricopriva la sua pallida pelle le macchiava l’anima. Non potevo essere io.
“Perché?”  Le chiesi con la voce rotta dal pianto, non riuscendo a scandire bene quella parola, provando fatica anche solo a respirare. “Perché?”
“Mi dispiace…davvero”  disse impassibile, mentre mi guardava agonizzante con la più totale indifferenza “Ma non ti permetterò di andare oltre”.
La guardai confusa. Cosa voleva dire? Sperai che me lo spiegasse prima che quelle tenebre avvolgessero definitivamente quella stanza, divorando anche lei, ma non lo fece. Si limitò a sorridere, mentre con scaltrezza mi strappava il pugnale dal petto, facendo aumentare il mio flusso di sangue.
“Addio”.
Emisi un grido, ascoltando la sua ultima parola, che mi causò un dolore immenso, troppo forte da poterlo sopportare.
Caddi senza grazia sul sedile dietro me, dove prima era seduta mia madre, come una bambola rotta strappata alla vita.
Tutte quelle tenebre e quel buio furono la seconda coltellata che ricevetti e mentre mi avvolgevano riuscii a scorgere il suo sguardo crudele, intrappolato in un viso identico al mio, che mi accompagnò sino al risveglio su quel freddo e desolato treno verso Seattle.
 

* * * *

 
La città non era cambiata.
La stessa gente affollava le stesse vie di sempre, dove si innalzavano impotenti gli stessi palazzi che toccavano lo stesso cielo grigio.
In fondo Seattle era sempre la stessa, nonostante mi sembrasse completamente diversa, anche solo da come respiravo quell’aria intrisa di malinconia, ma forse quella ad essere cambiata ero soltanto io.
Sembra assurdo come tutto ciò che abbiamo davanti cambia, semplicemente perché cambiano gli occhi di chi osserva, come se l’uomo avesse il potere di far prendere al paesaggio una piega della propria vita, senza far accorgere nessuno di nulla.
Feci un sospiro privo di significato, mentre una fredda folata di vento mi scompigliò leggiadra i capelli.
Sospirai e strinsi con forza il freddo pomello d’argento opaco e diedi un piccolo colpo con il polso che fece aprire la serratura.
Allora funziona veramente. Pensai, mentre quel rumore familiare non troppo marcato, graffiò il vento e quella porta, che avevo toccato tante volte si aprì in un fragile sussulto, mostrando un piccolo spiraglio scuro, che s’ingrandiva sempre di più, fino a quando occupò la mia intera vista quella che una volta chiamavo casa.
Anche lei non era cambiata, era rimasta così come l’avevamo lasciata cinque mesi fa, con gli stessi ricordi dipinti su quelle pareti e quella vernice ancora fresca mi congelava il cuore.
Centinaia di granelli di polvere turbinavano nell’aria e danzavano nei sottili fasci di luce che penetravano dalle finestre serrate.
C’era odore di chiuso, ma riuscii a respirarlo a pieni polmoni, come se avessi imparato a farlo per la prima volta.
Non accesi la luce, rimasi in quel semibuio per non distruggere la quiete che si era creata intorno a me, insieme a quel fiume di ricordi, che dopo tanto tempo avevo deciso ad accogliere.
Era la prima volta che tornavo in quella casa da dopo il trasloco. Non ne avevo mai avuto il coraggio e forse non l’avrei nemmeno fatto se non si fosse trattato di una questione importante, ma dopo quello che era accaduto qualche giorno fa non potevo non venire.
Mi vennero i brividi al pensiero di quell’evento, avevo anche solo timore ad ammettere quanto mi facesse paura. La sua calma inquietante e la sua rabbia irascibile riuscivano ad uccidermi, insieme ai suoi occhi di ghiaccio.
In Klaus c’era qualcosa che non mi convinceva. Lo temevo. E quando si ha paura di qualcuno si hanno solo due scelte: non fare nulla e aspettare o cercare di combatterlo.
Non c’è da vergognarsi ad avere paura, Alba. Hanno tutti paura di qualcosa. Quello che devi fare è capire cos’è che ti spaventa. Perché una volta che gli hai dato un volto, allora puoi vincerla.
Così diceva sempre mio padre la sera quando avevo paura del buio e quelle sue confortanti parole mi facevano dormire tranquilla.
Klaus ero certa che fosse il mio volto, ma avevo la sensazione che fosse più cupo di quello che credevo. Per questo ero venuta fin qui. Non riuscivo a capire come potessero fidarsi di lui i miei zii.
Non si rendevano conto di quanto fosse crudele e freddo il suo sguardo?
Forse gli costringeva? Forse diceva la verità ed era tutta solo una mia immaginazione?
Deglutii nervosamente, stringendo i pugni tanto da conficcare le unghie nella carne. Se Klaus diceva di essere un amico d’infanzia dei miei genitori, nei vecchi scatoloni rimasti avrei dovuto per forza trovare qualcosa.
Ma forse il volto di Klaus non era l’unico a farmi paura.
Quelle maledette parole mi trapassarono la mente e fui costretta a tapparmi le orecchie per non sentirle gridare così forte.
Mi tornò alla mente il sogno fatto nel treno e quelle immagini mi trafiggevano il cuore in una morsa tagliente.
Mamma. Io. Coltello. Tenebre. Quelle figure si susseguivano crudeli, non dandomi pace.
Ultimamente questi strani sogni erano sempre più frequenti e sempre più maledettamente assurdi. Quella bambina era io, ma aveva la morte negli occhi.
Una volta che gli hai dato un volto, allora puoi vincerla.
Ma se il volto di cui avevo paura era il mio?
Realizzai dopo poco tempo che forse venire fin qui non era stata una buona idea. Avrei dovuto tornare a casa, l’avrei fatto, se il desiderio di scoprire la verità non fosse maggiore alla paura di conoscerla.
Aprii gli occhi, che avevo tenuto chiusi per cancellare quelle parole dalla mia testa in fiamme, come un incendio sul punto di divampare ed entrai incerta in casa, lasciandomi la luce alle spalle, entrando in un modo che ormai non pareva più appartenermi.
 

* * * *

 
“Mamma, papà guardate cos’ho trovato!”
Strinsi con entrambe le mani la piccola pietra a forma di cuore.
Entrai correndo in casa cercando di non inciampare nel mio ingombrante vestito blu da principessa delle fiabe.
Ero così euforica di prendere il treno e andare a Port Angeles con i miei genitori per la festa di Carnevale, era ormai un anno che aspettavo l’evento e oggi finalmente era arrivato.
Tutte le sere prima di andare a dormire aprivo l’armadio ed ammiravo il mio pretenzioso vestito blu in tulle, con mille balze che arrivavano ai piedi e con i disegni floreali in oro luminoso sulle maniche larghe.
Era un sogno. Il sogno di ogni bambina. Il mio sogno. Essere per un giorno ciò che non sarò mai.
Un sorriso radiante si apriva ridente ogni volta che mi guardavo davanti allo specchio, immaginando di averlo indosso. Facevo finta di abitare in un enorme castello e ogni giorno prendevo parte a sfarzose feste galanti, che solo in alcuni film è possibile vedere.
Mi misi a correre per il corridoio, ma i miei genitori non parevano essere in casa, così decisi di nascondere quella pietra in un luogo sicuro, dove nessuno la potesse trovare fino al loro ritorno.
Salii in fretta le scale scricchiolanti in legno e mi piegai sulle ginocchia vicino all’ultimo gradino, facendo attenzione a non sgualcire il vestito.
Spostai la piccola mattonella affianco, in cui avevo scoperto si trovasse uno spazio cavo poco profondo e vi nascosi accuratamente quella pietra.
“Adam, com’è potuto accadere?”
“Non lo so, Eleonor!”
Sentii lontano le voci dei miei genitori. Non gli avevo sentiti entrare e loro non mi avevano ancora vista. Doveva essere successo qualcosa, li sentivo…piangere.
Rimisi velocemente la mattonella al suo posto e scesi piano le scale, cercando di non farle scricchiolare sotto i miei piedi.
Mi nascosi dietro il muro della loro stanza al piano di sotto e ascoltai in silenzio le loro parole, anche se parevano sussurri e singhiozzi lasciati al vento.
“Hai parlato con Ethan?”  Disse mia madre piangente, cerando di formulare delle frasi sensate ed udibili in mezzo a tutti quei lamenti.
“È sconvolto”
Chi era Ethan? Era un nome che non avevo mai sentito, ma da come ne parlavano sembrava che lo conoscessero bene.
“Poveri bambini”.
Mi misi una mano sulla bocca, sperando che il respiro non mi tradisse. Cercai di trovare un nesso logico tra tutte quelle frasi apparentemente gettate al vento, doveva essere successo sicuramente qualcosa di triste.
Mi feci ulteriormente vicina e tesi ancor di più l’orecchio, sperando di riuscire a sentirli meglio, senza farmi scoprire.
“La bambina non deve sapere niente” 
Sbarrai gli occhi sentendo quella frase. Era forse di me che stavano parlando?
“Non è ancora arrivato il momento.” disse mio padre con la voce spezzata dalle lacrime.
Erano poche le volte che piangeva, doveva essere una cosa terribile e per quale motivo io non dovevo sapere nulla?
Feci un passo avanti, avvicinandomi ancora di più, ma non lo feci abbastanza cautamente. Il pavimento in legno sotto i miei piedi scricchiolò e quel rumore mi fece scoprire.
Mia madre si passò velocemente la mano sugli occhi, cercando di nascondere ogni traccia di lacrima, ma che io ormai avevo già visto e mi si avvicinò piegandosi sulle ginocchia in modo da avere la mia stessa altezza. Mio padre invece rimase distante, con le spalle appoggiate al muro e il viso rivolto alla finestra, negandomi il suo sguardo.
“Va a prendere la tua valigia Alba” mi disse mia madre guardandomi negli occhi e vi lessi ancora quell’aria di tristezza nascosta. “Andiamo a Port Angeles”.
 

* * * *

 
Scatoloni pieni di fotografie erano sparsi sul pavimento del salone. Frammenti di ricordi spezzati dal tempo erano gli unici rimasti, mentre tutto ciò che avevo era volato via, lasciandomi sola.
Chi mi rimaneva se non quelli?
Quegli attimi della mia vita che avevo abbandonato tra le pareti di questa casa e che ora avevo dissotterrato, ma che adesso non esistevano più?
Pensai di piangere, di ricadere di nuovo nel fiume di ricordi, in quell’accecante oblio che divora, ma non lo feci.
Mi sentii colpevole.
Mi strinsi le ginocchia al petto e vi poggiai sopra la testa, come se fossi una bambola rotta e ascoltai il dolce supplizio, causato dall’oscuro silenzio del nulla, rotto qua e là da qualche macchina di passaggio, finché mi decisi ad alzarmi. Ero venuta fin la per un motivo, non potevo rinunciare così facilmente.
Abbassai lo sguardo sulla mattonella vicino a quell’ultimo scalino, su cui avevo camminato troppe volte.
Era buffo pensare a come io fossi cresciuta, mentre lui con la sua immobilità stesse attendendo il mio ritorno.
Mi piegai con le ginocchia e alzai quel rettangolo freddo con poca fatica e infilai incerta la mano, per poi tirare fuori quella pietra a forma di cuore, dal pallido colore rosa, ma non fui sorpresa di vederla.
Mamma, papà guardate che cos’ho trovato!
Era molto più piccola di come ricordavo, riuscivo a chiuderla in una sola mano, mentre l’ultima volta che l’avevo vista non me ne bastavano nemmeno due per non farla cadere a terra, ma erano anche passati dieci anni.
Anche lei era rimasta lì ad aspettarmi, come ogni singolo oggetto, che io invece avevo abbandonato prima di fuggire via.
Ripensai inevitabilmente al giorno in cui l’avevo trovata e di conseguenza al sogno che avevo fatto in treno.
Vattene, prima che sia irrimediabile!
Cosa voleva intendere? A cosa si poteva riferire?
Ma in fondo non dovevo darci troppo peso, era solo un sogno, forse era solo un po’ di stress accumulato.
Non ti permetterò di andare oltre.
Quelle parole a cui davo poca importanza continuavano a girarmi in testa, come un sciame di api intorno al proprio miele, ma cercavo di zittirle, dovevo concentrarmi su qualcosa di più importante.
Klaus.
La giornata non era finita, mi restava ancora un po’ di tempo per scoprire qualcosa, altrimenti sarei dovuta tornare a casa a mani vuote.
Rimisi di nuovo la pietra al suo posto, così un giorno l’avrei ritrovata, ma prima di togliere la mano da quella cavità sentii qualcos’altro al suo interno, leggero come un foglio.
Presi incerta quell’oggetto, mentre una fitta mi attraversò la bocca dello stomaco, come se qualcosa mi stesse sussurrando che stavo per scoprire qualcosa di terribilmente pericoloso nella sua grandezza, qualcosa per cui ero venuta fin la per scoprirlo, ma mai avrei pensato davvero di trovarlo.
Strinsi quella foto tra le mani, leggermente ingiallita per via del tempo e delle condizioni in cui era stata abbandonata, rappresentante i miei genitori e mia zia Mary, molti anni prima della mia nascita.
Erano molto giovani, quasi irriconoscibili e avevano quel sorriso, di chi crede ancora che la morte sia solo una sconosciuta e lontana esistenza.
Probabilmente era stato zio Enry a scattarla davanti la nostra casa, in quella via affollata che conoscevo a memoria.
Alle loro spalle fiumi di gente camminavano verso luoghi a me sconosciuti, inconsapevoli di essere stati ritratti in quella foto, che li ha resi immortali.
Sbarrai gli occhi quando i miei occhi finirono su una figura alle spalle dei miei familiari, nascosta in gran parte dalla gente di passaggio e oscurata dall’ombra di qualche nuvola in cielo.
I folti capelli biondi come il grano erano spettinati dal vento e i suoi occhi di ghiaccio brillavano come diamanti e gli donavano una bellezza paragonabile a quella di un angelo. Un angelo eterno con lo sguardo di chi domina il suo destino.
Ero certa che fosse lui. Sicuramente era lui. Il suo volto lo avrei riconosciuto tra milioni.
Klaus.
Una volta che gli hai dato un volto, allora puoi vincerla.
Era il suo viso, ne ero certa, non potevo sbagliarmi, perché lo temevo e una cosa che fa paura, non la puoi dimenticare.
Allora conosceva veramente i miei genitori, ma quella foto aveva più di vent’anni, ma lui in tutta la sua perfetta eleganza era identico a come lo avevo visto qualche giorno fa.
Sono solo un’altra persona da cui dover fuggire.
Quelle parole mi aveva rivolto l’ultima volta che lo avevo visto. Quel giorno l’avevo seguito perché pretendevo di sapere come aveva fatto a raggiungermi così in fretta, salvandomi da quella macchina in corsa, ma lui era apparso dal nulla dietro di me e poi era scomparso altrettanto velocemente.
Com’era possibile? Come poteva non essere cambiato in tutti quegli anni? Possibile che il tempo non gli avesse inflitto la sua crudeltà che colpisce tutti gli esseri umani, ma lo avesse risparmiato?
Non era invecchiato di un solo giorno.
Perché dovrei fuggire da te?
Te lo lascerò scoprire da sola.
Le sue parole continuavano a infliggermi dolore ogni volta che mi tornavano in mente, come se mi avessero strappato il cuore e me lo avessero seppellito in una gelida fossa.
Forse stavo semplicemente sbagliando, magari si trattava di suo padre, anche se dalla somiglianza poteva sembrare suo fratello gemello.
Alzai di scatto lo sguardo quando sentii un pesante rumore al piano di sotto, spezzando quella folle quiete che ormai mi aveva divorato.
Il cuore perse un paio di battiti e il respiro mi si spezzò in gola. Misi velocemente la foto in borsa e mi alzai, azzardando qualche cauto passo.
Scesi piano le scale, pregando che i gradini in legno non scricchiolassero sotto il mio peso e a quanto pare le mie preghiere furono esaudite.
Mi addentrai di nuovo in quel silenzioso buio al piano inferiore e posai gli occhi su quei granelli di polvere che ballavano nell’aria tra il divano in pelle chiaro e la piccola libreria vicino alla parete.
Tutte le foto erano incorniciate su uno scaffale al loro posto e la lampada vicino al tavolino di cristallo non si era spostata di un solo millimetro.
Tutto era in ordine, tutto era rimasto immobile esattamente nel posto in cui ricordavo, forse quel rumore me l’ero solo immaginato.
Ma quella speranza che si trattasse solo di un mio errore si sgretolò in mille pezzi quando vidi la porta di casa aperta. Qualcuno doveva essere entrato.
Mi guardai intorno spaesata, come in cerca di qualcosa, che non avevo ancora designato nella mia mente. Come se mi sentissi persa, in pericolo nella mia casa, che avevo sempre considerato “il mio rifugio”.
Un altro rumore, questa volta più vicino.
Spostai lo sguardo, ma non vidi nulla.
Sentivo il sangue scorrermi velocemente dentro le vene, come se il cuore lo stesse pompando ad una velocità assurda e io non riuscivo a respirare, come se stessi ingoiando veleno anziché aria.
Un stridulo rumore si mosse alle mie spalle. La porta era stata chiusa. Non potevo scappare. Ero da sola.
La paura m’immobilizzava, m’impediva di compiere qualsiasi gesto, era lei a governarmi, come successe molte volte in quell’ ultimo periodo.
Dovevo trovare quel volto.
Mi avvicinai in cucina con veloci passi incerti e timorosi di trovare qualcuno davanti a me in quella semioscurità e riunendo tutta la forza che avevo in corpo.
La gola era secca, come se non avessi bevuto da giorni e avevo paura che anche la voce mi avesse abbandonata, ma non avevo il coraggio di metterla alla prova.
Il silenzio tombale mi avvolgeva, mentre mi avvicinavo con il cuore in gola al piano da cucina, dove ancora risiedevano ordinate le posate. Solo il ticchettare di quell’orologio appeso al muro spezzava quella calma inquietante.
Ero convinta che dopo la notte dell’incidente il tempo in questa casa si fosse fermato, ma non mi ero resa conto che invece continuasse maledettamente a scorrere qui come per tutti…o quasi.
Un altro rumore alle mie spalle, questa volta più rigido e calcolato. Dei passi talmente leggeri da sembrare sospesi in aria, come se ci fosse un fantasma.
Sfilai decisa un coltello dal piano in cui alloggiava e sentii la pelle pulsare sotto di esso dal terrore.
Non c’è da vergognarsi ad avere paura…
Quegli agghiaccianti passi si fermarono poco dietro di me e sentii il sorriso della persona a cui appartenevano.
Non c’è da vergognarsi ad avere paura, Alba…
Strinsi forte il manico freddo di quel coltello tra le mani improvvisamente gelate, ripetendomi continuamente quella frase sulle labbra. Avrei protetto questa casa a costo di tutto. Nessuno doveva violarla, a nessuno avrei permesso di spezzare la calma che da mesi la circondava, infangandola ulteriormente.
…Hanno tutti paura di qualcosa…
Quella figura presente alle mie spalle non era immaginazione. Il suo freddo respiro era vero, reale, lo sentivo soffiarmi sui capelli, ma non seppi quanto era distante, non seppi quanto era lontano, ma appena mi sfiorava era come se mi uccidesse. Era vivo, ma con sé portava la morte.
…Quello che devi fare è…
Mi voltai di scatto, tenendo gli occhi chiusi, talmente veloce d’avere un capogiro.
…Quello che devi fare è capire cos’è che ti spaventa, perché…
Una mano gelida, dalle lunghe dita affusolate mi circondò avida il polso, prendendomi alla sprovvista. Mi congelò fin dentro le viscere e non permise alla punta affilata della mia arma di penetrare nel suo alto e possente corpo .
…Perché una volta che gli hai dato un volto…
Il coltello mi scivolò dalle mani sudate e cadde con un tonfo sordo per terra.
Aprii lentamente gli occhi per dare a quella possente figura immobile come una statua onnipotente, il suo volto, trovando così di conseguenza anche il mio.
Incontrai quelle labbra carnose, di quel rosso scarlatto da far tremare. Quegli zigomi prominenti dai tratti nordici e quei capelli biondi che incorniciavano il viso giovane, ma dallo sguardo secolare.
…Perché una volta che gli hai dato un volto, allora…
Non avevo la forza di muovermi. Ero congelata in una stretta mortale, tra quei rovi e quelle spine, che non mi lasciavano vie d’uscita.
Mi mancò il respiro, come se stessi per morire assiderata, ma non dovevo avere paura, non potevo.
Alzai lo sguardo verso il suo e quel ghiaccio intrappolato nelle sue terrificanti iridi si fece più gelido.
“Klaus”.
…Perché una volta che gli hai dato un volto, allora puoi vincerla.
Guardai la sua mano ancora stringente il mio magro polso, così piccolo in confronto al suo, che sembrava si potesse spezzare da un momento all’altro e in quel momento mi resi conto che se avesse voluto farmi del male, non avrei potuto far nulla per impedirlo.
Guardai il suo viso. Era davvero lui quello che mi spaventava? Quello che inspiegabilmente non era cambiato per gli ultimi vent’anni?
La mia bocca era aperta in una fessura per via dei continui tremori, che mi causava la sua immagine, così mostruosamente affascinante e spaventosa. Un dio, intrappolato nel corpo di un demone.
Sentivo il cuore pulsarmi velocemente sotto l’esatto punto in cui stringeva il mio polso. Se riusciva a sentirlo anche lui avrebbe percepito la mia paura, ma io non potevo permetterlo. Dovevo sconfiggere il mio volto.
“Le ragazzine piccole e innocenti come te non dovrebbero brandire pugnali” disse con la sua profonda voce, sempre delineata da quel suo strano accento marcato, di cui non comprendevo la provenienza. “Rischierebbero di corrompersi l’animo e il tuo è così…puro”.
Lo sentii sorridere sopra i miei capelli, mentre una distanza troppo corta e dolorosa ci separava, ma sentivo che se avessi provato ad allontanarmi avrei solo fatto un grosso errore, non sarei riuscita a sfuggirli. Dovevo assecondarlo, almeno per il momento e poi fuggire quando abbassava la guardia.
“Comunque sono certo che ti divertiresti di più” disse in un sussurro, che mi giunse avido all’orecchio. “Se cedessi ai peccati come faccio io”.
Tremai e lui sorrise di questo, della mia paura, del mio terrore nei suoi confronti, del fatto che non riuscissi neanche a sorreggere il suo sguardo. Mi veniva rabbia. Rabbia di non riuscire a rispondergli, rabbia di non respingerlo e rabbia che fossi dannatamente così debole e quando la mia rabbia è così forte, divampa all’interno come un incendio doloso.
“Non devi avere paura tesoro, sei al sicuro qui con me” disse asciugandomi quella lacrima invisibile che mi bruciava il viso, sempre stringendomi avidamente il polso, ma anche se la presa era quasi nulla, non sarei mai riuscita liberarmi, il terrore mi paralizzava.
“Non ti farei mai del male” disse alzandomi con le dita il mento, sorpassato da un gelido brivido e sorridendo crudelmente. “Almeno che non abbia un buon motivo per farlo.”
Sbarrai gli occhi pietrificati, mentre il sangue mi ribollì all’interno in un rapido e spietato secondo. Mi sentii il cuore tremare. Forse aveva capito che stavo indagando su di lui e che avevo scoperto quella foto e ora voleva farmi tacere?
“Rilassati amore, stavo solo scherzando” continuò Klaus con tono sarcastico, prendendo di gusto il mio evidente terrore.
Non riuscii a trattenere quell’inudibile sospiro, che mi scappò veloce dalla bocca e sfiorò la sua. Klaus s’inumidì le labbra, sorridendo e mentre rideva mi lasciò delicatamente il polso, facendo un passo indietro. Il buio gli oscurò gran parte del volto, dando un’ombra a quei chiari occhi di ghiaccio, rendendolo meno spaventoso, così trovai il coraggio di parlargli, cercando di non guardarlo.
“Mi stavi seguendo?” Chiesi cercando di essere più fredda possibile, ma evidentemente non riuscivo ad esserlo come lui.
Klaus tirò un lato della sua bocca verso l’altro, formando un ghigno, che mi bloccò di nuovo il respiro.
Perché doveva fare così?
“Tu mi stavi pugnalando” rise di gusto, ascoltando le sue parole. “Direi che siamo pari”.
Feci un passo indietro senza neanche accorgermene. Era così dannatamente vicino, avevo bisogno di aria, di luce, avevo bisogno di stare lontano da lui, dovevo scappare da quella casa.
Sono solo un’altra persona da cui dover fuggire.
“Mi sembri tesa, c’è forse qualcosa che ti turba?”
Era davvero così evidente?
Non riuscivo a controllarmi, il mio corpo sembrava non appartenermi, era sorpassato da crudeli ed effimeri tremori, che mi trafiggevano l’anima ogni volta che lui si avvicinava.
“No…io” risposi cercando di moderare i respiri, per non rendere così ovvia la mia paura, ma lui ero sicura che se ne fosse già accorto e stava giocando con questo, come il gatto fa con il topo. “Io…devo tornare a casa”.
Alzai lo sguardo ed incontrai il suo ancora avvolto da quel gelido buio. Il suo viso era giovane, sembrava avesse circa vent’anni, ma da ogni singolo poro della sua pallida pelle, sprizzava un’aria vissuta, di chi conosce già il suo destino e gioca con quello degli altri e il mio sembrava essere il suo preferito.
“Sei ferita”.
“Cosa?” Risposi al suo nobile accento marcato, con la mia voce singhiozzante, non capendo a cosa si stesse riferendo.
“Non ti sei accorta che sanguini?”
Ero così concentrata ad ammirare il suo volto, mettendo a tacere i sentimenti contrastanti che mi causava anche solo sentire la sua voce, che sentii a stento la sua domanda.
Piegai il viso dove puntava il suo scuro sguardo e aprii la mano destra davanti ai miei occhi.
Un graffio profondo si apriva sulla mia chiara pelle ed un denso liquido scarlatto macchiava la sua superficie in uno squarcio.
Dovevo essermi tagliata quando avevo sfilato il coltello dal suo ripiano e la paura mi aveva sotterrato il bruciore.
“Avresti dovuto fare più attenzione” mi disse lui con la voce in passibile anche se in quel suo tono freddo scorsi una punta di follia. “Ora è troppo tardi”.
Alzai il volto, non afferrando fino in fondo quelle sue frasi prive di significato o forse erano calcolate a tal punto da non farmi comprendere di proposito, come se fosse un doppio senso.
Klaus fece un passo verso di me, talmente veloce che non riuscii a ritrarmi e mi porse gentilmente la mano, come se mi stesse invitando ad un ballo.
“Posso?”
I suoi occhi velati da quella gelida ombra quasi da farli sembrare neri erano magnetici, mi attiravano a sé, come se fosse la cosa più bella e oscura che potessi incontrare.
Alzai lentamente la mano sanguinante verso la sua che mi attendeva sospesa in aria, nell’immenso nulla di quella stanza.
Il mio dorso toccò leggermente il suo palmo, ma lui non si mosse. Sentivo la sua spavalda sicurezza che mi sfiorava la pelle e m’induceva ad abbandonarmi completamente a lui, come se non avessi scelta, fino a quando il dolce ghiaccio della sua mano invase la mia in una stretta letale.
Come poteva esercitare una tale presa su di me?
Poteva davvero la paura indurmi a non avere più controllo del mio corpo?
Klaus mi strinse con delicatezza la mano e quasi sentii il mio respiro spezzarsi come se quella si fosse rotta sotto la sua. Poi la prese gentilmente e la portò al viso in un'unica e rapida mossa e io non opposi resistenza.
Sentii il suo freddo respiro soffiarmi sul sangue grondante della mia pelle, come se fosse la sua brama più imperdonabile e lo vidi chiudere gli occhi, nascondendo quel nero, che colorava avido le sue iridi, come se il buio della stanza si riflettesse nel suo sguardo, assaporando goccia per goccia quel dolore bruciante che mi scatenava.
“Il tuo sangue…” mi disse in un sussurro, che arrivò glaciale al mio orecchio, così lento e doloroso, che sembrava stesse in qualche modo soffrendo. “…Il tuo sangue ha un profumo così…dolce.”.
Tremai a quelle parole, pronunciate con tale agonia, come se provasse pena a sentire quell’odore ferroso, che gl’invadeva i polmoni, come se gli piacesse e lo bramasse a tal punto da poter morire.
“Non dovresti permettere a nessuno di sottrartelo” disse in un altro sospiro, avvicinando la bocca alla mia ferita e mostrando per un attimo i suoi denti perfetti oscurati da quel terrificante semibuio, che pareva aumentare. “Sarebbe un peccato.”
La sua stretta si fece più salda e quasi mi parve di sentire le sue umide labbra sfiorare quel liquido scarlatto, macchiando di rosso il suo viso da angelo. Non sembrava più lui, come se in un attimo avesse perso la sua spavalderia ed arroganza e stesse per sprofondare in un agonizzante e sperduto oblio.
Lasciami…ti prego.
Non seppi se pronunciai quelle parole realmente o se il terrore me le fece solo immaginare, lasciandole sospese nei miei pensieri, che ormai non possedevano più una ragione.
La logicità mi aveva abbandonata nello stesso istante in cui avevo sentito la sua presenza alle mie spalle, non riuscivo a pensare quando c’era lui, come se in qualche modo non me lo permettesse.
Mi sentivo la mente vuota e il cuore che pulsava talmente forte che quasi mi provocava dolore e quei dannati respiri spezzati da quelle pallide lacrime non riuscivano a prendere tutta l’aria di cui avevano bisogno, il timore glielo vietava.
Non c’è da vergognarsi ad avere paura, Alba.
Come potevo non averla se non riuscivo neanche a comprendere cosa stava accadendo e quei suoi fievoli respiri e sussurri ne erano la prova. Mi sentivo così dannatamente inutile, non riuscivo neanche a proteggere me stessa.
Tra tutte quelle lacrime non mi resi conto di come Klaus aveva lasciato la presa dalla mia mano e di come, in tutta la sua perfetta eleganza, aveva fatto un passo indietro, come quei nobili che vivevano nei castelli che sognavo da piccola.
“Dovresti disinfettarla” mi disse di nuovo, riprendendo la sua tranquillità e abbandonando quel tono sofferente di prima. “Altrimenti potrebbe peggiorare”.
Rimasi immobile, non riuscendo a proferire parola, mentre lui riprese il suo arrogante sorriso di sempre, come se non fosse successo nulla.
“È meglio che vada” disse fissandomi con gli occhi, che sembravano aver riacquistato il colore azzurro, come se l’ombra che prima gli aveva resi neri, ora fosse svanita. “È stato un piacere incontrarti”.
Lo vidi allontanarsi, senza riuscire a fare neanche qualche passo. Le sue spalle, la sua schiena coperti da quella giacca in pelle nera che indossava si fecero sempre più lontani, nel buio della casa, fino a scomparire quasi, ma lui era ancora lì, sentivo il suo freddo respiro volare nell’aria.
“Spero che tu abbia trovato quello per cui sei venuta fin qui”.
Quelle parole sottolineate da quell’accento spaventosamente marcato mi pugnalarono alla schiena e mi fecero tremare a tal punto da farmi quasi svenire.
Caddi pesantemente sulle ginocchia, quando non sentii più la sua presenza in casa, nonostante fosse rimasto il suo profumo tra le pareti della stanza, come per ricordarmi che lui era stato lì e che poteva tornare in qualsiasi momento e io non avrei potuto far nulla.
Qualcosa mi diceva che sapeva che io avevo trovato quella foto e che stavo indagando per cercare di scoprire chi fosse realmente quell’uomo, ma per lui questo non era un problema. Se avesse voluto farmi del male, nessuno glielo avrebbe impedito, forse voleva addirittura che io sapessi cosa nascondesse in realtà.
Ma ad una certezza ero già arrivata. Klaus era una persona pericolosa e terribilmente scaltra e forte, come se fosse sempre un passo avanti agli altri, non sarei mai riuscita a vincerlo.
Dovevo stargli lontana, questa volta non avrei sconfitto il suo volto, ma non avrei nemmeno cercato di combatterlo e mentre le sue labbra carnose sfioravano avidamente il mio sangue quelle sue parole non volevano di liberarmi la mente.
Il tuo sangue ha un profumo così dolce.
Uno squillante suono mi fece per un attimo dimenticare dove mi stessi trovando e cosa fino a quel momento fosse successo. Ero in balia della confusione, che aveva rapito ogni singola parte cosciente di me, come se il terreno sotto i miei piedi fosse crollato e io mi stessi trovando in bilico tra la morte e la follia.
Presi in mano il telefono, chiudendo gli occhi per quell’accecante luce del display in mezzo a tutto quel buio e lessi quel messaggio anonimo che mi era arrivato con il cuore in gola. Quelle crudeli parole che mi fecero tremare e quei singhiozzi che si erano fermati per qualche attimo ripresero a gridare più forte di prima.
Starò a guardare come la tua vita cade a pezzi.
Ancora non lo sapevo, ma pian piano quei numerosi frammenti di quell’immenso puzzle stavano trovando un loro ordine, ma quell’agghiacciante immagine finale era soltanto l’inizio del mio peggiore incubo.



Buongiorno a tutti :D

Per prima cosa volevo scusarmi per il ritardo, ma ho avuto un sacco d'impegni.
Spero vivamente che questo capitolo sia stato di vostro gradimento, anche se forse è risultato un po' confuso e mi farebbe molto piacere sapere cose ne pensate: se c'è qualcosa da cambiare o modificare ecc...

Questa è un'immagine dell'attrice che personifica Samantha: 
http://www3.images.coolspotters.com/wallpapers/135903/holland-roden-mobile-wallpaper.jpg

Grazie infinite a tutti coloro che continuano a leggere, seguire e in particolare a chi recensisce questa storia, vi ringrazio davvero con tutto il cuore!! 

A presto, Ciao ^^


  
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