-Sali-sentii
dire Price.
Scossi la testa.
-Non serve più il mio aiuto, avete un elicottero. Portatelo
in un posto
sicuro e fate in modo che riceva tutte le cure-urlai per sovrastare il
rumore
delle pale dell’elicottero.
-Non era una richiesta, muoviti o ti lascio qui-
Mi guardai indietro e vidi soldati nemici avanzare verso di noi,
borbottai qualcosa e poi salii giusto in tempo.
Una domanda mi balzò subito in testa; la guerra era finita.
Perché
l’esercito russo stava marciando verso Prace?
Mi scrollai, non avevo voglia di pensarci, la guerra non era
più un mio
problema, dopo essermi assicurata delle condizioni del ferito e averlo
curato,
avrei ricominciato a cercare sopravvissuti che avevano bisogno di
aiuto, gli
avrei dato una mano e sarei sparita nel nulla cambiando nome e
identità.
-Immagino che sappia dove si trovi San Pietroburgo-dissi guardando di
fuori.
-Si, perché?-Price mi guardò inarcando un
sopracciglio.
-Se siamo fortunati potremo usare una caserma come riparo e curare
lui-dissi indicando il soldato.
Mi ero dimenticata il nome, sorrisi perché io ero conosciuta
con due
identità diverse, alle quali, a fine guerra se ne sarebbe
aggiunta una terza,
tutto quel cambiare mi avrebbe fatto dimenticare il nome di battesimo.
Gettai la testa all’indietro sospirando e poi mi addormentai
di nuovo
senza nemmeno rendermene conto.
Il ferito sembrava stesse dormendo tranquillamente, mi avvicinai per
verificare
se era il caso di cambiare le fasciature o aspettare di essere giunti a
destinazione.
L’emorragia era stata fermata eppure il sangue passava oltre
la giacca
mimetica, sulla quale era inciso in cognome: MacTavish. Dovevo
memorizzarlo.
Atterrammo su uno spiazzo d’erba poco lontano da una caserma
militare,
esaminai la zona per assicurarmi che fosse sicura e poi feci scendere
anche gli
altri.
Li
condussi verso l’edificio e li feci entrare. Mi fermai
guardando i corridoi,
cercando di ricordarmi dove fossero l’infermeria e
l’armeria. Erano anni che
non mettevo piede lì e non mi ricordavo del posto, sapevo
solo dov’erano le
camerate e il parcheggio per i blindati.
San
Pietroburgo, non era distrutta come Prace ma ugualmente si poteva
capire che la
guerra era arrivata fino lì e io speravo con tutto il cure
che tutti i militari
e i civili presenti in quel posto al momento dei bombardamenti, fossero
riusciti a scappare in tempo.
Sbuffai
e poi feci cenno di seguirmi verso un lungo corridoio che dava a una
grande
stanza piena di computer e dove, attaccato alla parete, c’era
una cartina della
caserma.
La
strappai e la guardai perplessa, le camerate che erano
nell’ala est ora erano
nell’ala nord e il parcheggio per i blindati era stato
spostato per far posto a
un poligono di tiro, avevano fatto grandi modifiche. Feci scorrere lo
sguardo
lungo una linea blu e cercai di memorizzare il percorso da seguire per
l’infermeria.
Borbottai
qualcosa quando notai che l’accesso era ostruito da un cumulo
di macerie.
Non
avevamo tempo per spostarle, ci sarebbe servito troppo tempo e non
potevo
nemmeno usare l’esplosivo perché c’era
il rischio che con le vibrazioni
crollasse tutto. Doveva esserci un altro modo per entrare.
Tra
le macerie, notai una piccola fessura, grande abbastanza da farmi
passare.
-Io
passo per lì, vado a vedere se c’è un
altro modo per entrare-dissi infilandomi nel
buco.
Era
una situazione claustrofobica, lo spazio non era abbastanza grande da
far
passare molta aria e iniziai a pensare che sarei morta, continuai lo
stesso
cercando di farmi forza e pensando che visto che ero arrivata fino a
lì, non
potevo mollare. Continuando a muovermi, mi ferii a una gamba, la stessa
dalla
quale rimossi il proiettile. Avanzai qualche altro mentro e poco dopo
ero
finalmente fuori. Come pensavo, ero finita nell’infermeria.
Guardai
la stanza e notai un’altra porta nello stesso lato di quella
bloccata, mi
avvicinai e la aprii.
-Di
qua-dissi facendo capolino dalla porta secondaria.
Fortunatamente
c’erano le attrezzature necessarie per curarlo, probabilmente
non erano
riusciti a evacuare la zona in tempo. Ripresi in mano la cartina e la
guardai
cercando il precorso per l’armeria. Se fossi riuscita a
trovarla e se ci
fossero state armi, avrei potuto usarle per difenderci in caso di
attacco
nemico.
Lasciai
MacTavish con Price e il pilota dell’aereo e, a passo sicuro,
mi diressi verso
la porta con la cartina in mano.
-Dove
stai andando…?-Price si fermò, non gli avevo
ancora detto come mi chiamavo.
-Tenente
Selena Markovna Yakova, Spetsnaz, reparto Vympel-risposi
mettendomi sull’attenti.
-É una caserma questa, deve esserci un deposito armi da
qualche parte-continuai
mostrandogli la cartina.
Annuì
e io proseguii verso lunghi e stretti corridoi, stando bene a percepire
anche
il minimo movimento, il più piccolo spostamento
d’aria, era una caserma e
sarebbe stato normalissimo trovare qualche nemico.
Entrai nell’armeria e per un piccolo istante, mi sentii come
Alice nel
Paese delle Meraviglie nel vedere tutte quelle armi a mia completa
disposizione. Presi tre fucili e seguendo lo stesso percorso
dell’andata,
tornai in infermeria.
-Ci sono armi di là, dovremmo spostare MacTavish in modo da
non essere
scoperti-annunciai posando due fucili d’assalto su un bancone
e tenendone uno
in mano.
Mi fermai a guardare il pilota, tipici tratti russi.
-Lui è Nikolai-disse Price prendendo un fucile.
-Non tutti i russi sono dei pazzi, psicopatici, assassini-risposi
divertita con allusione a Makarov.
-Come conoscevi Makarov?-chiese incuriosito.
Domanda alla quale non avrei risposto sinceramente, se avessi detto
qual’era il vero motivo, l’ultima cosa che avrei
sentito, sarebbe stato lo
sparo di quel fucile.
-Tutti sapevano di lui-risposi vagamente senza dire tutta la
verità.
-D’accordo, spostiamolo-rispose lanciandomi una rapida
occhiata.
Feci strada con il lettino fino all’armeria e poi mi
appartai in un angolino buio della stanza tendendo
ben stretta il mio fucile. Avevo esposto i miei occhi a troppa luce
negli
ultimi giorni e iniziavano a bruciarmi.
Sospirai tirando fuori dalla tasca una
foto. La guardai e alcune lacrime iniziarono a rendere più
lucidi i miei occhi.
Quella era l’ultima cosa che mi rimaneva della mia famiglia,
una stupida e sbiadita
foto, non avevo più nulla a parte una casa distrutta a Mosca.
Mi rifiutai categoricamente di piangere,
chiusi gli occhi e ricacciai dentro le lacrime, ero uno Spetsnaz, le
emozioni
per me erano solo ricordi, nulla di più, non mi ricordavo
nemmeno cosa volesse
dire voler bene a qualcuno.
Riposi la foto in una tasca dei
pantaloni e mi sedetti su una sedia lì vicino cercando di
recuperare le ore di
sonno perso.