Prefazione
Allora,
in primo luogo voglio dire che ho sudato sette camice e mezzo per scrivere
questa storia.
Non
pensavo mi sarebbe costata tanta fatica, in effetti.
Ogni
volta che scrivevo, mi sembrava di sbagliare qualcosa. Allora, cancellavo e
rivedevo ciò che finora avevo elaborato.
Molti
punti non mi convincono, e ancora adesso ho l’impulso di cambiare e
modificare.
Sinceramente,
preferisco che rimanga così, nonostante non ne sia sicura.
Spero,
comunque, di non essere caduta nel banale e di aver lasciato intatto il
carattere originale dei personaggi.
Almeno,
è quello che ho cercato di fare.
Allora,
la fanFic s’incentra sui tre fratelli della sabbia. Per l’appunto, una Sand
sibling.
Vorrei
avvertire che, anche se non esplicito, è presente incesto. Sì,
InCeStO.
In
realtà, può essere preso per un semplice rapporto tra fratello e sorella, ma la
mia storia, vi avviso, non è mirata a questo. Perlomeno, non solo a questo.
Quindi,
a chi desse fastidio, consiglio di non leggere.
Vi
sarei grata, se non lasciaste commenti del tipo:
“OMG!!!!
Ma è INCESTO!!!!!!! Ma non ti vergogni?????!!!!!”
Anche
perché non mi farebbero né caldo, né freddo. Inoltre vi ho avvisati, quindi non
venite a piangere dalla mamma, o a reclamare un’innocenza
rubata.
E
tornando a prima, e al presunto commento che uno in caso lasciasse,
rispondo subito.
1)
Sì, me ne sono accorta, visto che l’ho scritta io stessa la
fanFic.
2)
Evidentemente no, se la pubblico. Quindi, cercare di farmi sentire pentita, non
attacca.
3)
Offese come: “Sei una malata di mente”, o roba del genere, non portano alla luce
nulla di nuovo. L’irrazionalità mi ha colpita fin da bambina. Tutta colpa della
mia famiglia.
Mio
padre è un alcolista, mia sorella si droga dall’età di undici anni, e mia madre
fa il mestiere più antico del mondo: la casalinga. Quindi, ovviamente, sono una
tipa poco raccomandabile.
Già,
già.
4) Ah, sono atea.
5)
Tutti quei punti esclamativi sono davvero poco creativi e storpiano il testo.
Così, giusto come consiglio per il futuro.
6)
Ovviamente, tutto quello che è scritto nel punto 3) era una battuta. A parte che
sono irrazionale. Quello è vero.
Sono
presenti alcuni spoiler, quindi attenzione. Questo vale per coloro che
seguono la ristampa, o le puntate in tv.
Infine,
ringrazio Daidouji-chan. Senza di lei, sarei persa.
***
Hello
there, the angel from my nightmare,
the
shadow in the background of the morgue,
the
unspecting victim of the darkness in the valley.
We
can live like Jack and Sally, if we want.
Where you can always find me.
[I miss you, miss you]
L’intenso
odore della moca si sparse per la cucina.
Prese
il bricco caldo, versandone il contenuto nella tazza.
Il
fumo le annebbiò la vista, provocandole una piacevole
sensazione.
Soppesò
il bicchiere, prima di posarvi sopra le labbra e mordicchiarne il
bordo.
Era
un gesto che faceva spesso. Sì, proprio come allora.
Gustava
il freddo sapore del metallo, mentre, con le mani, avvolte intorno ad essa,
percepiva il calore della bevanda. Così bruciante, così
insensibile.
La
cucina era silenziosa. Fin troppo.
L’unico
rumore che si avvertiva era il tintinnio del cucchiaino, che creava un dolce
vortice nella tazza blu. Fastidioso, decisamente.
Un’
ombra che aleggiava ancora in quella stanza…
Si
voltò. “Ah, sei tu, Gaara”.
Il
tono falsamente stupito. Sapeva benissimo che lui c’era. C’era sempre stato.
Bugia.
Lo
sguardo impassibile in volto. “Sei già in piedi”.
“Lo
sai che sono sempre io a preparare la colazione” obiettò, risentita.
Ma
come, non ti ricordi?
“Già.
E’ vero” disse lui, semplicemente. Un angolo della bocca rivolto amaramente
all’insù.
I
capelli sempre ribelli gli incorniciavano, rossi, il viso. La pelle era
bianchissima.
Prese
in mano il bricco. “Ne vuoi un po’, Gaara?” chiese lei, scotendo il caffè al
suo interno.
Una
strana smorfia si dipinse sul suo volto. Sembrava volesse apparire severo, ma la
dolcezza catturò, all’ultimo momento, l’espressione di lui negli occhi
deboli.
“Lo
sai che non ne prendo più.”, ribatté poco dopo, come infastidito. Stancamente,
si strinse nelle spalle.
Quanto,
ancora, sarebbe durata questa farsa?
Lei
parve rabbuiarsi. “Sì, forse”. Ma, poco dopo, riprese il suo colorito
allegro.
“Allora,
ci saranno altre missioni, quest’oggi?”, chiese. Come se niente fosse, come se
il tempo fosse solo un’illusione.
Ma
sì, in fondo che costa mentire?
“Smettila,
Temari”. Quelle parole sembravano pesargli terribilmente.
Lei
sbatté la tazza sul tavolo. Un nero che sapeva di nostalgia si riversò sul
piano.
Eh,
non si toglierà facilmente…
“Insomma,
non posso neanche più farti una domanda?” Disse alterata.
Gli
occhi sempre dello stesso colore. Piatti, ma così sensibili.
“Me
ne fai in continuazione”.
La
bocca di lei leggermente socchiusa, boccheggiante. La testa le doleva.
“Sarebbe
ora che la finissi.” No che non lo vorresti.
Bugiardo.
Dolore
acuto, ancora. Penetrante. Impossibile da distogliere altrove.
“Lo
dico per te, perché ti-”.
“Cattivo,
Gaara! Sei un bambino cattivo!”.
Le
labbra serrate in una sofferenza che non poteva esprimere.
Perfido.
Una
tazza, ora, rotolava sul pavimento, e con lei dello stupido liquido si dava al
nulla.
Le
mani stringevano la testa pulsante. Che fai, vuoi dimenticare?
Un
altro sguardo. L’ultimo? Sarebbe meglio così.
Malinconia.
Stupida e dannatamente sempre la stessa. Continua, e continua. Non smette
mai.
[I miss you, miss you]
Un
urlo. Poi, silenzio. Ormai, lui era solo un’ eco lontana.
Dei
crudeli singulti, a tratti, riempivano l’atmosfera, satura del loro
ricordo.
Eppure,
sarebbe stato così facile...
And
we’ll have Halloween on Christmas,
and
in the night we’ll wish this never ends.
We’ll
wish this never ends.
Sand
in her shoes
[I miss you]
Le
gambe ciondolavano ritmicamente lungo il bordo del letto. Le mani chiuse a pugno
stropicciavano gli occhi assonnati.
Un
richiamo di chi è solo, disperato. Lei lo avvertiva tutte le sere. Per questo,
non riusciva a dormire. Anche adesso.
Le
lenzuola calde, disordinatamente, invadevano il letto. Era talmente
scomodo.
Gocce
di sudore le imperlavano la fronte aggrottata.
Senti?
Si
inumidì le labbra. Quella sera aveva davvero sete.
La
gola più secca del solito. Le mani che stringevano convulsamente la stoffa
umida.
Tremava.
Perché non era mai sola, perché sapeva che alcuni soffi della sua presenza già
invadevano la stanza. Hai paura?
Strinse
i denti. La testa le vorticava. La vista, d’altro canto, era annebbiata.
Non
che si potesse davvero vedere qualcosa, al buio. O forse
sì?
Odiava
la notte. La odiava.
Era
tutto così stupidamente silenzioso. Terribilmente muto. Fa male,
vero?
Ha
paura di cadere. Di non riuscire ad alzarsi. Perché sai che, poi, non ne
avresti la forza.
Il
cuore batte, batte frenetico. Rimbomba assordante nelle sue orecchie, le opprime
la bocca.
E’
qui. Ora è vicino a lei. Troppo, troppo vicino.
Deglutì.
Tanto, è l’unica cosa che ti riesce.
Strinse
ancor di più le coperte. Ora le gambe ciondolavano sospese nel vuoto,
quiete.
Un
rumore così primitivo e dolce le invase le orecchie, con prepotenza.
Spettrale.
Scosse
la testa. No, non si sarebbe alzata un’altra volta.
Quel
suono incredibilmente lancinante era così insistente da ferirle
l’udito.
La
mani a coprir le orecchie sensibili, gli occhi avvolti in un buio
interiore.
-Basta,
smettila-
Inutile.
Il rumore divenne ancor più fastidioso, perseverando nel suo lento ritmo
calzante.
-Falla
finita, dannazione!-
Non
funziona.
Strinse la presa sul suo viso. I piedi ripresero a dondolare, quasi a tentare di
rendere muto quello strazio.
Insisti?
Si
morse le labbra, con rabbia. Ancora, e ancora, quel suono scalpitava nella
notte.
Si
arrese. Come sempre, del resto.
Le
spalle si rilassarono. Lei che lentamente scivolava giù dal letto. I piedi che
toccavano il pavimento liscio. Non così freddo, dopotutto.
Raggiunse
la porta, con lentezza, mentre si lasciava alle spalle piccole ombre… Ormai
lontane.
Sentiva
già il suo respiro su di sé, nonostante il legno li separasse ancora.
Aprì
piano la porta: un volto incominciava ad occupare la sua visuale. Quello di
ogni sera.
Sospirò.
Mai che vi vedesse tracce di pianto su quel volto.
Esasperazione.
Magari
non piangeva lacrime. Magari, non ne aveva mai versate per davvero.
E’
solo nella tua testa, Temari.
Una
silenziosa richiesta d’aiuto, sul volto infantile. Fra le sue braccia riluceva
tiepido lo sguardo di un orso di pezza. Stupide
biglie.
Gli
tese una mano, con riluttanza. Non sei sua madre. Perché mai dovresti
amarlo?
Lui
sembrò tentennare. Strinse la presa sul suo peluche.
“Dài,
entra” fece lei, rassicurante. Falsa.
Lui
afferrò la mano della sorella, con decisione. E chissà… forse sorrise. Ma il
buio non è mai stato dalla sua parte.
Sei
tu, che stai dalla parte del buio.
***
Una
solare palla di fuoco aveva già allontanato le stelle e la luna da tempo,
ormai.
Il
caldo incominciava ad insinuarsi nell’aria, mentre il vento sospingeva la
sabbia, portandola lontano.
Il
silenzio rapiva ancora le strade e ogni casa taceva, in attesa. Ad eccezione di
una.
Sembrava
che nessuno dormisse per davvero in quella casa, nonostante le tapparelle
fossero abbassate ed il buio paresse avvolgerla.
Una
figura camminava tranquilla nella penombra, mentre lo scalpiccio dei suoi passi
rimbombava quasi, all’interno.
I
capelli ancora alla rinfusa, sistemati alla meglio in ciuffi disordinati. Stelle
bionde, spinose.
Terribilmente
spinose.
Scalza,
arrivò in cucina. Si affacciò alla porta per vedere se vi fosse qualcuno.
L’odore di cucinato invadeva ancora l’ambiente, le sedie erano sistemate con
cura attorno al tavolo.
Qualche goccia d’acqua accarezzava il lavabo, ritmicamente.
Sorrise, entrando.
Speravi forse il contrario?
Si affaccendò ai fornelli, preparando la macchinetta del
caffè. L’odore dei chicchi tostati penetrò l’aria all’istante. Inspirò,
profondamente. Dolce, forte.
Mentre attendeva che la bevanda fosse pronta aprì le
finestre e qualche raggio lambì l’interno, con delicatezza.
Era uno dei piani più alti, quello in cui si trovava. Da lì
poteva scorgere Suna, più o meno del tutto.
Era immobile. Per pochi istanti, surreale. Vorresti che fosse così… per sempre?
Poggiò il proprio viso su un braccio, osservando qualche
uccello compiere piroette e cinguettare spensierato. Il cielo era completamente
azzurro. Qualche sporadica nuvola faceva visita alla città, per poi passare
oltre, senza nostalgia. Presto l’incanto si sarebbe spezzato.
Come ogni mattina.
Continuò a scrutare il paesaggio. Tanto, sarebbe rimasto lì.
Lui non aveva fretta.
Sentendo un gorgoglio familiare, si voltò. Uno sguardo
indifferente incrociò il suo, meravigliato.
“Ah, sei tu, Gaara”. Un sorriso un po’ nervoso le colorò il
volto. Il fratello non rispose, la guardò semplicemente. Com’era distante. Anche
da lei.
Soprattutto, da te.
Un ribollire risentito riempì il silenzio. “Il caffè.”
Disse, avvertendo il forte odore provenire dai fornelli.
“Cosa? Ah, sì” si riscosse Temari, sbrigandosi a spegnere il
fuoco.
Lui si mise a sedere, come suo solito, senza granché voglia
di fare colazione.
Il sapore del sangue ancora in bocca.
Strinse i pugni. Prima, ora non più. Ti manca, vero?
Il volto serrato in una smorfia di dolore. Ammettilo. Tu sei e rimarrai sempre un assas-
“Ne vuoi un po’, Gaara?” domandò lei, gentile.
Uno sguardo verde acqua le rivolse l’attenzione. Brucia sulla pelle.
“I-il caffè, dico” chiarì, un po’ intimorita.
Gli occhi si quietarono. “Non bevo quella roba” rispose
calmo.
Lei fece spallucce, freddata dalle sue parole. Ne verso un
po’ in una tazza blu, mentre il fratello l’ osservava. Sembrava ammaliato dai
suoi gesti. Gli sembravano così materni.
Già, come se avessi conosciuto davvero tua
madre.
Il modo in cui beveva, poi… Perché, tutto d’un tratto,
quella bevanda appariva così desiderabile?
“Accidenti!” imprecò all’improvviso Temari, scrutando
l’orologio a muro: i suoi allenamenti.
Lasciò stare il liquido nero mentre usciva di fretta dalla
stanza, bofonchiando un qualcosa tipo ‘la doccia’ .
Quella strana bibita fumava ancora. Gaara rimase ad
osservare le curve sinuose del vapore, che saliva lento.
Non sembrava così male, tutto sommato…
Il sapone le scivolava lento sulla pelle, mentre velocemente
si lavava i capelli ispidi.
L’acqua divenne presto scura. Dannata
sabbia.
Era ovunque. Nei suoi vestiti, nelle sue scarpe…
Nel tuo letto.
Nonostante sciacquasse e risciacquasse più volte, sembrava
non volersene andare via.
Anche lì c’era, tra il sapore delle bolle e del caffè. Non
l’abbandonava mai.
Sì, decisamente.
Ripercorse il corridoio, avvolta in un accappatoio. Qualche
goccia d’acqua che cadeva qua e là, dispettosa.
Giunta in cucina, trovò Kankuro che addentava un frutto.
“ ‘Giorno” disse, vedendola entrare. Sbadigliò.
Temari rispose al saluto, mentre con gli occhi cercava la
sua tazza blu.
La trovò in un angolo del piano cottura, solitaria. Alcune
gocce si sparsero sul pavimento, di nuovo.
Afferrò il caffè, stranamente leggero, e lo portò alle
labbra. Metallo, null’altro.
Com’era possibile?
“Kankuro?”.
“Nani?”.
“Da quant’è che prendi il caffè?”.
La guardò confuso. Lo sguardo di lei non prometteva nulla di
buono.
“Ma veramente, io…”.
“Il mio per l’esattezza?”. Il
tono stava prendendo un’andatura piuttosto critica.
“Ma guarda che…!”.
“Lasciamo perdere” concluse stizzita, inutile perdere tempo.
Poco male, ce n’era dell’altro.
Prese il bricco e versò il contenuto nella tazza. Plic,
plic. Piccole perle nere toccarono a stento il fondo del bicchiere.
Aggrondò un sopracciglio. -Ma è mai possibile?-
Uno sbattere stizzoso fece sussultare Kankuro, che si girò
verso la sorella, meravigliato.
“Abbiamo dormito male, ’sta notte?”
Lei non dorme.
“Tu, invece, hai scorazzato per tutta Suna fino a tardi,
eh?”. Di nuovo sotto accusa. Acida.
“Cosa?!” ribatté il fratello, sconvolto.
“Ti sei scolato tutto il caffè, Kankuro, non negarlo!” Disse
alterata.
“A me non piace neanche quella roba!” si difese, lanciando
una smorfia di disgusto verso il bricco, ormai vuoto. -Dite tutti così.-
“Ma davvero? E allora chi è stato?” lo rimbeccò, mettendo le
mani sui fianchi, a mo’ di sfida.
Lui alzò le spalle. “Che vuoi che ne sappia, io?”.
Gli occhi di lei divennero due fessure. Fece per aprire la
bocca, ma lui la precedette.
“Magari un fantasma” ipotizzò Kankuro, schernendola.
Un brivido le percorse, freddo, la schiena. I suoi occhi si
fecero cupi.
Déjà-vu.
***
Non era frequente che si sentissero grida provenire dalla
tenuta del Kazekage. Eppure, se si faceva attenzione, qualche urlo infantile, di
tanto in tanto, riempiva l’aria afosa.
“Kankuroo!”. Ecco, proprio come questo.
E non era neanche frequente che qualcuno rubasse qualcosa,
nella tenuta del Kazekage. Però…
“Ridammi le mie bambole, ora!” … a volte, capitava.
E non sia mai che si sentissero offese, nella grande
cas-
“Idiota di un burattinaio!”. Beh, almeno in teoria.
Una ragazzina, dell’età di undici anni, stringeva per il
bavero della maglietta suo fratello minore, sbraitando e pretendendo indietro
qualcosa che le apparteneva.
“Dimmi dove le hai nascoste” disse decisa. La presa sempre
salda.
Kankuro sembrava non volesse cedere.
“Ti ho detto che non le ho prese io” sibilò di rimando.
“Sputa il rospo, o le tue adorate marionette faranno una
brutta fine” disse, minacciosa.
“Non oseresti” digrignò.
“Vogliamo vedere?” ribatté scontrosa. Kankuro si rodeva per
l’indecisione. Le sorelle maggiori erano davvero dei mostri. A volte.
“Arrenditi. O avrai il tuo povero Karaso, o come diavolo si
chiama, sulla coscienza”.
“Strega!”.
“Maniaco!”.
“Ehi, io-!”
Ma le parole gli morirono in gola. Temari sogghignò. La mano
rimasta nascosta dietro la schiena, rivelò un piccolo burattino. Pareva
indossasse uno strano vestitino fucsia…
“Allora?” lo sfidò a negare.
“Nella libreria. In basso a destra, dietro i fumetti”.
Bastava essere convincenti. Eh, la persuasione.
“Andata”. Gli porse la marionetta ambigua, che il fratello
afferrò rapace, togliendola dalla visuale della sorella. Forse borbottò anche
qualcosa, del tipo ‘racchia’ o ‘maledizione’. Difficile dirlo.
Temari continuò a guardare il fratello, con insistenza.
“Che c’è?” disse, sicuro di aver pagato le sue
malefatte.
“Il vestito. Ridammelo”.
Il ragazzino incominciò a sudare freddo. Degli scalpiccii
frenetici, ora, percorrevano rapidi il corridoio. Si era dato alla fuga.
“Torna indietro, impiastro!”.
Degli occhi, da lontano, osservano di continuo scene di
questo genere. Come sempre, nell’ombra.
Si chiedeva perché facessero tanto rumore. In fondo, erano
solo degli stupidi giocattoli.
Era davvero sciocco pensare che dei pezzi di legno, o di
pezza, potessero sostituire l’affetto di qualcuno.
Lui lo sapeva. Che idiozia, averci
anche solo provato.
Si ritrovò a camminare per caso, senza davvero una meta.
[Ne hai mai avuta una?]
Era sempre tutto così silenzioso. Tutto così freddo. Non gli
piaceva.
[Eppure, ci convivi da anni]
Ogni tanto, si sentivano delle voci serpeggiare tra le mura.
Sembravano calde.
[Ma sono troppo distanti, per te]
Anche adesso, mentre a fatica avanzava in quella casa
lontana, inospitale.
[Non è mai stata tua]
Erano suoni dissonanti, mai dolci.
[Alle tue orecchie]
Continuò ad avvicinarsi alla loro fonte, incerto. Non era
sicuro che avrebbe voluto ascoltare.
[Non andare, allora]
“Tu hai i tuoi giocattoli, quelli sono i miei!”. Era la voce
della sorella.
[Che, per te, è una madre]
“Uffa, voglio solo vederli!” Il fratello maggiore.
[Che, per te, non è nessuno]
“Ho detto che li rivoglio!” Un pupazzo ruzzolò ai suoi
piedi, mentre i fratellini si accapigliavano. Lo fissò per qualche istante.
[Tu ne hai mai avuti, di giocattoli?]
Sembrava un orsetto. Ed, ora, era solo. I due bambini
continuavano a litigare. Non si erano accorti di nulla.
[Forse, non conta poi così tanto, per loro]
Lo prese tra le braccia. Due biglie scure rilucevano
silenziose. Sembrava volesse piangere.
[Ti assomiglia, sai?]
Ignorando il loro litigio, superò la propria famiglia.
[Illuso]
In braccio, il cotone caldo rattoppava il cuore, con
dell’affetto di pezza.
[Illuso]
“Dov’è finito?”. Si lamentava una bambina, con dei codini
sbarazzini.
“Che cosa?” domandò il bambino. Un braccio sospeso a metà,
mentre infuriava la lotta.
“Il mio orsacchiotto!”.
“Starà qui, da qualche parte.”
“No, era qui, vicino a me. Ne sono sicura!” rispose,
risoluta.
Kankuro fece spallucce. “Sarà stato un fantasma.”
Temari gli diede un pizzicotto, non senza proteste da parte
del fratellino.
“Aiutami a cercarlo, invece di dire stupidaggini”.
***
Ormai era tardi per prepararne dell’altro. Avrebbe dovuto
farne a meno. Decise, quindi, di vestirsi.
Tornò in cucina pochi minuti dopo, e, dallo stipite della
porta, vide Kankuro e Gaara parlare. Quando entrò, cessarono di colpo.
“C’è qualcosa che non va, Temari?” domandò Kankuro, vedendo
il suo sguardo rabbuiarsi.
“Niente. Controllo se il fantasma è ancora in giro” rispose
lei, lapidaria.
Gaara la guardò con malinconia. Dolce
e dannata.
Kankuro pensò che fosse una delle sue giornate no, come
sempre. Una delle tante.
“Dovremmo chiamare dei disinfestatori. Sai, per precauzione”
continuò lei. Lo sguardo che si induriva.
“Perché dici questo, Temari?”. Stavolta fu il fratello
minore a parlare. Il tono monotono e sicuro.
Il petto di lei si alzava ed abbassava, veloce.
“Non eri proprio tu a dir-?”.
“So benissimo cosa dicevo!” esclamò irata. Kankuro sobbalzò.
Gaara sembrava triste. Ma forse, era solo un gioco di luci. Sicuramente.
Parve quietarsi, d’improvviso. Il Kazekage continuava a
scrutarla. Eppure, lei gliel’aveva promesso…
“Vado ad allenarmi” congedò entrambi, bruscamente, ed uscì
in fretta.
Per quel giorno, ne aveva abbastanza.
Rimase nel campo per diverse ore. Con il respiro affannato,
si asciugò la fronte imperlata di sudore.
Si sentì soddisfatta. La furia del vento, ora, sembrava
essersi placata. Quella maledetta sabbia su tutto il corpo pizzicava, invadente.
Anche il suo sapore tra le labbra…
“Perdi facilmente la calma, Temari. Non sta bene”. Le
pupille di lei si dilatarono. Si voltò.
Gaara l’osservava, impenetrabile. Sempre così distante.
Da quanto tempo si trovava lì?
“Le missioni non sono solo affare vostro” replicò, e il
vento sembrò nuovamente alzarsi.
Gli occhi di un freddo azzurro. Uguali, impassibili.
“Neanche tuo, se è per questo”. Temari strinse i pugni. Di
rimando, lui le si avvicinò, piano.
“Sono più grande di te, ho il diri-!”.
“E io sono il Kazekage” la interruppe, freddo. Si morse le
labbra. Quegli stupidi granelli, ancora su di sé.
Ora si trovavano a pochi passi, l’uno dall’altra.
“Non sono più una bambina”. Non lo era mai
stata.
“Non farti trattare come tale, allora”.
Il silenzio si insinuò rapido, tra i due. La sabbia e il
vento si mescolarono, dolcemente.
Il caldo era insopportabile.
Lei abbassò lo sguardo. Aveva vinto. Un’altra volta.
Lui continuava a fissarla. “Mi dispiace”. Un sussurro, solo uno.
Alzò il volto, di scatto. Ma era già troppo lontano. Le sue
spalle, negli occhi di lei.
L’aveva di certo immaginato. E il cuore batteva rapido.
Senza dubbio, il caldo le aveva giocato un brutto scherzo.
Mentre anche lei si era già decisa ad andarsene, un odore
punse il suo naso.
Giurò che fosse caffè, quello che ora avvolgeva l’aria. Le
sue orme che rimanevano impresse lungo il cammino, ferme. Lontana. Ogni volta, di più.
La sabbia e il vento sempre uniti, in quell’ unico
vortice.
Ad ogni passo, di più. Ancora, e ancora.
Where are You?
Le notti sono calde e gelate a Suna. Alla sera, l’afa si
assopisce, ma il calore del giorno rimane.
Sulla pelle, su di te.
And I’m so sorry, I cannot sleep, I cannot dream tonight.
Si ha quasi paura che la luce delle stelle e della Luna ci
porti via, tanto è il buio opprimente.
E’ probabile che poi, nessuno ci ricordi più. Non ne
varrebbe la pena. Dimenticare è molto più semplice.
I need somebody and always
this sick strange darkness comes creeping on so haunting
every time.
Respirava l’aria del buio, mentre i ricordi del giorno si
dissolvevano in mulinelli dorati.
Gaara era seduto sul tetto della tenuta, scrutando il
paesaggio di fronte. Ma, in fondo, non fissava niente per
davvero.
And as I stared I counted the webs from all the spiders
catching things and eating their insides.
Di tanto, in tanto, qualche astro si rifletteva sulla terra.
E il vuoto si riempiva.
Di tanto in tanto, la memoria ritornava. Quando, invece, avresti voluto che rimanesse indietro.
La brezza gli cullava i capelli. Ma
non portava via nulla.
Like indecision to call you
and hear your voice of treason.
Si alzò, e tutto sembrò ancora più distante. Il vento che
richiamava la sabbia, silenziosamente.
Will you come to home and stop this pain tonight?
[Senti?]
Stop this pain to night.
Si avvolse nelle coperte. Da fuori, le piante frustavano
contro i vetri delle finestre.
La corrente d’aria fredda, di notte, non accennava mai a
voler smettere.
Chiudendo gli occhi, cercò di addormentarsi. Invano. Il
caldo incominciò ad opprimerle la gola già da subito.
Quei familiari granelli che si insinuavano rapidi sulle
lenzuola, sui suoi vestiti, sulla sua pelle.
Piacevoli?
Si girò su un fianco. Il sonno sembrava non volesse
graziarla della sua visita. Sbuffò.
La stessa storia da notti, ormai.
Si costrinse a dormire. Avrebbe continuato i suoi
allenamenti, all’alba. Come tutte le mattine.
D’improvviso, le orecchie allenate avvertirono una presenza
vicina. Si alzò di scatto.
Rimase seduta al bordo del letto, attenta. Le mani
stringevano le coperte. Un ben noto giallo le colorò le dita.
Si inumidì le labbra, insicura. Quasi avvertì dei rumori. Immaginazione.
Spinse le punte dei piedi sul pavimento, toccando il legno.
Scottava.
Compì piccoli passi, fino a raggiungere la porta. Una mano
indecisa, nell’incavo.
Deglutì.
Fece scorrere piano il telo, mentre il ripensamento
l’attanagliava.
La sua mano si fermò a metà strada, sbigottita.
Anche al buio, il colore dei suoi occhi la gelava. Sospirò.
“Mi hai messo paura, Gaara”.
Lui non rispose, lo sguardo sempre fisso su di lei.
Il nervosismo le colorò i movimenti. Le mani le
sudavano.
“V-vuoi entrare?” chiese. Non era molto sicura che lo
volesse. Invece sì.
Gaara pareva indeciso. Per la prima
volta.
Le iridi di Temari si calmarono. Portò avanti una mano.
“Dài, entra”.
Lui continuò a scrutarla. Cosa cerchi
nel suo sguardo? La sabbia le pizzicava le labbra in maniera insistente.
Fece per parlare, ma sembrò ripensarci. Forse, non sarebbe dovuto venire.
Inaspettatamente, afferrò la mano
di lei.
Temari sentì distintamente i granelli dorati mischiarsi, tra
le loro dita.
E il suo sapore tra le labbra, nitido. Piacevole, decisamente.
Déjà-vu.
***
Don’t waste your time on me,
you’re already the voice inside my head.
[I miss you, I miss you]
La regola venticinque del codice ninja, impone di non
lasciar mai trapelare i propri sentimenti.
Per nessuna ragione. In nessuna circostanza.
L’aveva detto anche a Shikamaru, una volta.
E allora, perché avvertiva un aria gelida circondarle la
vista ed appannarle gli occhi?
Perché tremava, come una bambina? Tu
non lo sei mai stata.
Perché i battiti del cuore le opprimevano le orecchie, così
ferocemente? No, non è vero.
Perché sentiva le guance in fiamme e le lacrime sgorgarle
lente sul viso? Di sicuro, è solo nella tua
testa.
“Temari…”. Una voce familiare le accarezzò il viso. Ma non
era quella che ora avrebbe voluto sentire.
“E’ solo il caldo.” Replicò lei. Il fratello lasciò
scivolare la mano sulla spalla.
Sì, è solo il caldo.
Perché Kankuro la guardava così? Non era lei quella in
ginocchio, con i pugni chiusi pieni di lacrime.
Non era lei che sussurrava il nome di Gaara, cercando di
afferrare il suo corpo ora immobile a terra. E perché
mai? Tu non l’hai mai amato.
E, di sicuro, non era lei che malediceva quella sabbia,
sibilando tradimento. Ridicolo.
No, molto probabilmente lei assisteva da lontano, in
disparte. Fuori dal chiacchiericcio della gente, dagli alberi che sussurravano
maliziosi. Già. Tutto questo, non ti è mai
appartenuto.
Allora, perché vorrebbe che quella sabbia avvolgesse di
nuovo il suo corpo? Perché non la sente più? Dov’è? Eppure c’è sempre stata, fino a…
“Dov’è, Kankuro? Dov’è, maledizione!” grida.
“Cosa, Temari?”. Non può
capire.
“Non la sento, non la sento…”. Si dispera. E solo allora,
capisce che il deserto non è poi così caldo.
[Non lo è mai stato]
Il vento, stavolta, non ha la forza di sconfiggere le
nuvole. Solo, piove e piove.
Tra la sabbia e l’incessante odore di caffè, che impregna
l’aria. Quello di sempre.
Di adesso.
[E’ solo nella tua testa]
Don’t waste your time on me,
you’re already the voice iniside my head.
[I miss you, miss you]
***
Cinse la vita della sorella, con delicatezza. In
quell’abbraccio c’era disperazione.
Le mani che stringevano la schiena di lei delicatamente,
chiedevano aiuto. La sua, la sua salvezza.
La testa poggiata sul grembo immaturo.
Lei non rispose al suo abbraccio. Rabbrividì. Poi, solo
indifferenza.
Attimi di silenzio. Nessuno disse niente, nessuno parlò.
“Sono un fantasma, Temari”.
Parole schiette, agghiaccianti. Solo allora, lei si riscosse
dal suo torpore. Posò le mani sulla testa del fratellino, stringendolo a sé.
Un semplice gesto, puro e materno.
Gli accarezzò i capelli, mentre granelli di sabbia le
solleticavano le mani.
Le parole caddero lente e sole. Forse era una bugia ma, per
ora, poteva bastare.
“I fantasmi non esistono, Gaara”.
Un pupazzo, intanto, giaceva abbandonato in un angolo. Ormai, non serviva più.
“Lo credi davvero, Temari?”.
[ I m i s s y o u, m i s s y o u ]
Non è così importante, in fondo.
Note dell’autrice:
Sì, me ne rendo conto, è davvero lunga. Non avrei mai
pensato, per così dire, di arrivare a tanto.
Ringrazio tutti coloro che sono giunti alla fine, o che
hanno scorto queste pagine anche solo su e giù con le freccette.
Il testo della canzone è 'I Miss You', dei Blink 182. A me sembrava ci stesse a pennello.
Se vi capita, sentitela. E' davvero bella.
Un saluto, in particolare, va a Ilakey_chan e a Suzako, per le loro storie.
E, in ultimo, alla mia nuova sorella acquisita, RoSs.
Anle
P. S. Per eventuali sconvolgimenti cerebrali, rivolgersi a
Daidouji. Lei ha detto che la potevo pubblicare, quindi…
Eccovi il suo indirizzo di casa, il numero di telefono,
l’e-mail, l’indirizzo del parrucchiere e di dove va a comprare le scarpe.
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P. P. S. Ti adoro MCDPP *-*