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Autore: The queen of darkness    06/12/2012    2 recensioni
Un ragazzo con una voce straordinaria. Una ragazza che ne rimane affascinata. Un amore indissolubile. E la nascita di un mito inventata da me.
[questa è la mia prima Fanfiction e, vi prego, recensite! :)]
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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"Tieni duro, amore", pensava. Correva affannosamente per la strada buia, senza riuscire a vederne la fine. L'avevano chiamato d'urgenza  quella sera stessa, appena uscito da una dannata première. Ecco, una curva. Il fiato gelido gli tagliava la gola e si infilava dolorosamente nei polmoni. Non era affatto l'ideale correre in smoking, ma nel suo stato se ne accorgeva appena: si dannava per essere il marito peggiore dell'universo. Un fallimento su tutti i punti, persino quello sportivo, visto che non riusciva a correre più veloce di così. I pochi lampioni che costeggiavano la stradina erano fulminati, o almeno quasi tutti, in modo che non riusciva quasi a vedere dove metteva i piedi. Finalmente, le suole semi-consumate, riuscì a intravedere le luci dell'ospedale. Schizzò nella corsia per le ambulanze senza pensarci due volte e, schivando medici e infermieri, entrò ansante nell'atrio, incollandosi al banco informazioni. Lì c'era un'infermiera di colore grassa e annoiata, dall'aria decisamente poco gentile. Il suo turno doveva finire tra poco: lo si capiva dall'impazienza con cui guardava l'orologio appeso alla parete anonima e bianca. -Sì?- chiese guardandolo storto. -Caroline- riuscì a dire a fatica. -Caroline Warner-. La donna scartabellò qualche fascicolo con esasperante lentezza, fino a trovare quello giusto. -Secondo piano, stanza 15-. Con un cenno del capo la ringraziò. Si chiamava Doreen. Riuscì ad infilarsi nell'ascensore appena in tempo, come unica compagnia un paramedico completamente ricoperto si sangue fresco e ancora caldo. -Piano?- domandò, come si trovasse in una situazione qualsiasi. Brian riuscì solo ad indicare il numero con le dita. Il fiato era tutto concentrato a regolarizzarsi all'altezza dei polmoni, mentre la milza doleva così tanto da esse insopportabile. -Dovrebbe fare più esercizio fisico- commentò l'uomo guardandolo divertito. Se avesse potuto far vibrare le corde vocali senza che la sua voce suonasse stridula, gli avrebbe risposto che lui invece doveva smetterla di ammazzare la gente. Si limitò ad un'occhiata torva all'uniforme sudicia in modo disgustoso. -Non ce l'ha fatta- confermò dispiaciuto lui, pulendosi la mano su un'area intonsa dei pantaloni. Brian rimase in silenzio; aveva recuperato un po' di fiato, ma non gli andava di parlare. Il cantante non era mai stato così preoccupato: un'ansia che gli torceva le viscere e gli faceva girare la testa. Era come se fosse la prima volta che si trovava in una situazione di emergenza, e in effetti era proprio così. Non gli era mai capitato di dover correre fra corridoi esasperamente uguali, tutti asettici e adornati da sporadici quadri mono soggetto: un vaso di plastica con dentro un paio di fiori color pastello, palesemente finti. Il bello era che, nonostante se lo doveva aspettare, non si era minimamente preoccupato, anche perché Carol aveva fatto in modo che lui rimanesse rilassato e calmo durante tutto il periodo. Finalmente le porte metalliche sibilarono aprendosi, liberandolo da quello strazio. Il paramedico rimase dentro, e gli fece un cenno prima di sparire oltre gli altri piani. Brian rabbrividì, avviandosi lungo il corridoio. Le luci, l'aria, il pavimento, i muri, davano un senso di impersonale pulizia. Tutto era estraneo, per nulla accogliente, solo inquietante e terribilmente opprimente. Vide un vecchietto passargli accanto, munito di flebo e ciabatte rosa. Sperò di non aver sbagliato piano. Si avvicinò alla prima porta che vide per prendere riferimento del numero, perché le poche infermiere che bazzicavano la intorno erano già impegnate ad andare avanti e indietro per le stanza, senza dar nessun segno di vedere la gente intorno a loro. Guardò il numero. Un tuffo al cuore. Era la camera 347, e lui doveva arrivare alla numero 15, in pochi minuti di tempo, per giunta. Senza poter correre.                        Sfruttò al massimo le sue gambe lunghe, stendendo i muscoli il più possibile e mangiando passi di secondo in secondo, senza poter sprecare un solo attimo di tempo. Svoltò un paio di volte sullo spazio infinito, tortuoso in modo straziante, guidandosi solo con dei cartelli che, ne aveva il sospetto, lo fecero girare in tondo un paio di volte. Nulla, nella sua vita, gli era parso tanto urgente.  Finalmente, dopo una decina di minuti abbondanti, riuscì a focalizzare la porta giusta. Si sentì fremere e morire e rinascere in un momento soltanto. Recuperò la sua lucidità con molta fatica, e poggiò la mano sulla maniglia tiepida con una sorta di timore reverenziale. Spalancò la porta di getto, ed entrò.      Non fece fatica a trovare Carol, in quanto era l'unica presente (a parte un'infermiera) stesa su un letto di fortuna, le lenzuola di carta macchiate di sudore. Vederla dolorante e affaticata lo fece stare male sul serio, impallidita e provata, e le si avvicinò. Sapeva benissimo come doveva apparire: gelido, con i capelli tutti scompigliati dalla corsa, il colletto della camicia stracciato, i bordi della giacca spiegazzati, le scarpe graffiate e gli orli dei pantaloni sporchi. La sua Regina lo guardò con occhi stanchi, ridacchiando malgrado tutto. -Hey- disse lui. -Sei qui-. Era come se nemmeno ci credesse. -Mi dispiace di non essere venuta, io...- una smorfia e una nuova fitta di dolore non le permisero di terminare la frase. -Shh, non essere stupida, come facevi nelle tue condizioni? Sono io che non sarei dovuto andare-.       -Non darti la colpa- mormorò lei. Parlare stava diventando difficile. Le avevano messo un camice e, evidentemente, stavano ancora preparando la sala. Le accarezzò una guancia. Al posto suo, sapendo quello che stava per succedere, quello che doveva affrontare, il dolore e i brutti ricordi, non sapeva se ce l'avrebbe fatta a rimanere così tranquillo e presente. L'altra donna le disse qualcosa, ma lui non ascoltava neppure, preso com'era dal guardarla. Entrarono altre infermiere ed un medico, che le assicurò che avrebbero fatto presto, e poi uscirono di nuovo. Lui era preoccupatissimo: un mix agitato di sensazioni ingarbugliate sotto forma di uomo. Rimasero soli abbastanza a lungo, poi i dolori di Carol lo indussero ad andare a cercare aiuto. Uscì ed entrò un paio di volte, poi arrivò al colmo della disperazione quando non lo fecero più entrare ed infine la vide uscire. Il dottore lo guardò torvo. -E lei chi è?-.     -Sono il marito- replicò infastidito. Gli disse di seguirlo. Brian deglutì sonoramente. Stava per nascere il loro secondo bambino. ///////////////////// Aveva ripreso a mangiarsi le unghie quella sera stessa. Per volere stesso della partoriente non lo avevano lasciato entrare, e quindi era dovuto rimanere nella saletta attigua ad aspettare incastrato su scomodissime sedie in plastica arancioni, che scricchiolavano ad ogni movimento. A quell'ora della notte non c'era nessuno. Camminava su e giù per il corridoio come un idiota, troppo agitato per stare fermo. Ogni tanto riguardava le lunette delle unghie della moglie impresse sulla sua carne, che gli aveva involontariamente conficcato nel polso prima di essere portata via, durante una fitta particolarmente dolorosa. Il pensiero che dodici anni prima lei avesse dovuto vivere la stessa cosa senza però nessuno al proprio fianco lo faceva sentire un verme, e quella sensazione se la meritava tutta. Ma assieme alla paura, si mischiava l'euforia: sarebbe diventato nuovamente padre! Carol gli avrebbe dato un altro figlio! O meglio, una figlia, per essere precisi. E questo lo agitava maggiormente. Una bambina in casa...chissà come doveva essere.     Il suo stato di ansia era però cominciato già dalla sera della rivelazione. Per una coppia come la loro, era solo questione di tempo: quando non era chiamato al lavoro, le notti erano quasi sempre bollenti. Però questo non gli aveva impedito di rimanere più che mai sorpreso lo stesso.  Da quel momento si era interamente dedicato alla moglie preoccupandosi e prendendosi pure, qualche volta, delle occhiate divertite quando diventava particolarmente ridicolo. Era stupito che la donna non avesse assurde voglie di dolci ad orari strambi della notte o non fosse più irritabile del solito, perché le gravidanze lui se le era sempre immaginate molto diverse, e non ne aveva mai seguito nessuna da vicino. Carol era amabile come sempre e, fino a quando le fu possibile, fece tutti i lavori di casa con una tranquillità sorprendente perché, "cosa vuoi che sia portare un bambino dentro di sé? La parte divertente arriva solo alla fine".     E così lui non poteva mettere bocca su niente nelle questioni di casa ed era stato esplicitamente invitato a dedicarsi alle sue solite attività, ovvero di farsi gli affari propri ed essere meno ossessivo. Jeordie e Nina erano rimasti anche loro a dir poco sconvolti dalla notizia. Ma era durato poco: già il giorno dopo si erano presentati con un sacco di roba da vestire, giocattoli e pannolini come se la piccola fosse già nata. I genitori di Brian, amabili e assolutamente carinissimi sia con lei che con Alex, si erano entrambi commossi. Era stato bellissimo: il padre dava pacche sulle spalle al ragazzo, la madre in lacrime e Carol che si accarezzava soddisfatta il ventre già più rotondo. Erano anche loro ospiti assidui in casa Warner da quel momento, e la coppia apprezzava molto il fatto che avessero posto relativamente poche domande riguardo al loro incontro dopo così tanti anni. Lei li apprezzava molto per questo.    Da non dimenticare era stato Alex. Brian l'aveva segretamente incaricato di prendersi cura della madre quando lui non c'era, e il bambino aveva preso in seria considerazione il suo incarico, e ci si era dedicato in modo lodevole. Quando la vedeva cucinare, la fermava dicendo che non poteva affaticarsi, diceva "ma mamma, il pavimento è pulitissimo" se la vedeva tirare fuori l'aspirapolvere oppure cercava di lucidare lui stesso le finestre. I due genitori gli avevano spiegato della sorellina in arrivo, e lui aveva già programmato quali romanzi sarebbe stato più opportuno leggerle, e ne scartava altri perchè contenevano scene d'azione che avrebbero potuto sconvolgerla. Insomma, aveva accolto la notizia nel migliore dei modi e non vedeva l'ora di potersene occupare.      Un altro uomo trafelato entrò nella sala, spezzando il ritmo dei passi del cantante. Il tizio si guardava in giro con aria spaesata. Sembrò accorgersi di lui solo in quell'istante, un rocker struccatosi in fretta e che non era più elegante da quando aveva cominciato a correre, circa due ore prima, coi capelli al vento e l'espressione spiritata. Curvo e agitato, sembrava un rapace. -Ma lei...è...M..- cominciò a dire, ma Brian lo bloccò subito. -La prego- disse con voce profonda, sufficiente a farlo zittire. -È il primo figlio?- disse poi. Aveva bisogno di parlare, di sentire un minimo di contatto umano in quel momento di forte tensione. Ogni tanto, infatti, poteva sentire delle grida e degli ordini abbaiati in fretta. E ciò non contribuiva a tranquillizzarlo. -Terzo- rispose l'uomo con un sospiro. Si accasciò sulla sedia. -Sono ore che giro in tondo....ho girato mezzo ospedale ma è tutto un labirinto-. Scosse la testa sconsolato. Aveva i capelli folti color castano chiaro, e degli occhi sul verde, un fisico atletico e asciutto, l'espressione da bravo ragazzo. Dovevano avere più o meno la stessa età. -E lei?- chiese alzando la testa. -La seconda- rispose, passandosi una mano sul viso. -Però la prima bambina-. L'altro ridacchiò. -Si prepari a una principessa- commentò sorridendo. Anche Brian sorrise. Quel ragazzo gli era in qualche modo familiare: gentile, pacato, tranquillo, un gigante buono. -Come si chiama?- gli chiese. Erano in una situazione tale che nessuna domanda era inopportuna, ma solo una distrazione da ciò che stava realmente accadendo nella camera affianco. Due bambini che stavano per nascere e due padri preoccupati per le rispettive mogli. -Chad- disse con un sorriso solare, e i due si strinsero la mano.                Brian era un po' perplesso: non aveva sentito tante volte nella sua vita quel nome. Una volta si era trattato di un tecnico audio basso e grassoccio. Un'altra volta, il poliziotto che l'aveva arrestato, un tipo prossimo alla pensione. Ancora più indietro, un passante e la sua identità svelata grazie ad un altro che, passando, aveva urlato a gran voce il suo nome per attirarne l'attenzione. Ma se scavava ancora più a fondo, era sicuro di ricordare una persona entrata e uscita repentinamente nella sua vita, come avevano successivamente fatto tante altre, ma che lì per lì l'aveva abbastanza sconvolto, col suo passaggio, o meglio, non lui in prima persona ma.....Carol. Il fiato gli si mozzò in gola. Lo guardò meglio: era lui, non c'erano dubbi, era il Chad dell'amica della sua Regina, che era sparita assieme a lui, il cui padre si era suicidato dopo poco...il caso che aveva fatto scandalo nel paese, ma a cui lui non aveva dato troppa corda per ciò che era successo alle loro vite nel frattempo! Ma certo! Non c'erano dubbi. Ed era un caso su un milione ritrovare una persona dopo così tanto tempo, anzi, una cosa più unica che rara. Quindi, a meno che il destino non fosse crudele fino a tal punto, la ragazza in sala doveva essere...ehm....com'è che si chiamava? Kelly, sì, doveva essere Kelly. Deglutì sonoramente, e si passò una mano fra i capelli. -Per caso sua moglie si chiama Kelly?- domandò col cuore in gola. Non era emozionato per sé, perché non aveva un legame sentimentale così forte con la coppia, ma lo era per Carol.               Il ragazzo cambiò subito occhiata, guardandolo circospetto. -E lei come fa a saperlo?- più che una domanda, gli sembrava un'affermazione, una risposta positiva. Lasciò andare il fiato tutto d'un colpo. -Non so se ti ricordi di me, ma sono il marito di Carol, la migliore amica di Kelly al liceo-. In caso contrario (ovvero ammettendo l'esistenza di un altro giocatore di football, con una fidanzata o moglie dallo stesso nome e con un età corrispondente) avrebbe fatto una figuraccia.     Il viso dell'altro, invece, si illuminò, dopo un attimo di blackout. -Quella Carol? Caroline Hayes?- chiese strabuzzando gli occhi. -Carol sposata con Marilyn Manson?-. Il cantante alzò gli occhi al cielo. -Brian è Marilyn Manson- ribatté seccato. Una nuova sorpresa. -Brian?!?- esclamò. Dalla faccia sembrava non ci capisse più nulla. La scena fu interrotta da un'infermiera, che entrò nella sala reggendo un foglio. -Mister Warner?- chiese. Come de fosse stato punto, Brian scattò. -Sì?-. Un attimo di palpabile agitazione. Il ragazzo gli fece cenno di non andarsene dall'ospedale. -Può venire se vuole-, disse la donna. Il rocker guardò un secondo Chad e poi la seguì.
  
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