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Autore: CarlieS    07/12/2012    1 recensioni
Isabella, 18 anni, ha un figlio, Aaron, avuto col suo migliore amico Jacob.
Edward è sposato, 25 anni, specializzando presso il Forks Community Hospital.
Cosa li avrà divisi quasi tre anni prima? Cosa li ha portati a fare queste scelte?
Dal capitolo uno:
“Quello è il figlio di Jake, quando dovrebbe essere il mio, Bella. Il figlio del mio migliore amico e della donna che amo.. mi sento impotente e stupido. E come se non bastasse so che la colpa è tutta mia”. Edward Cullen mi ama. Mi ama nonostante abbia fatto un figlio col suo migliore amico, mi ama nonostante sia sposato.
“Ti.. amo anche io, Edward”, in un attimo, in una misera frase tutto si è cancellato, tutto il dolore è sparito lasciando il posto ad una sensazione di pace travolgente.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan, Jacob Black | Coppie: Bella/Edward
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Sta nevicando.. no direi che non è una buona idea aggiornarvi sul tempo metereologico che c'è a casa mia nell'angolo della "scrittrice". Ora faccio la seria. E intendo proprio seria. Questa storia è.. si è creata nella mia testa ieri sera di getto mentre scrivevo il sesto capitolo di Taxi and memories e non ho potuto fare a meno di non scriverla. Non so nemmeno quando posterò il prossimo capitolo veramente, ma i protagonisti di questa storia mi hanno pregato di postarla.. vi è mai successo? E' stranissimo, fanno tutto di testa loro e non posso fermarli. E' praticamente impossibile.
Questa non è una commedia. Non è una ff leggera come l'altra che sto scrivendo anzi, tutto il contrario. Di battute e pensieri ironici ce ne saranno pochissimi. 
Vi lascio leggere così magari mi capite un po' di più. Mi farebbe piacere se qualcuno di voi commentasse, sul serio, perchè questa storia mi è già entrata dentro.
Un bacio,
Sara




Prologo
 
Piove.
L’acqua si abbatte con insistenza sulla città, sulle strade, sulle case e sulle persone. E spesso anche sugli animi di quest’ultimi: dicono che in molti quando piove si sentono diversi, più depressi, più.. pensierosi. Pensieri profondi nella maggior parte delle volte.
Sono quei pensieri a farti male, a farti desiderare di finirla, di darci un taglio.
Oppure.. sono quegli stessi pensieri che ti spronano a fare una scelta, quella scelta che rimandavi da tempo e sulla quale eri confusa e incapace di prendere una decisione, di seguire una delle due vie che ti si aprivano.
Anche se dopo dovrai vedertela con le conseguenze di quella scelta che non sempre sono positive.
Sono sempre stata una di quelle persone a cui basta decidere, prendere una delle due strade per non ritornare più indietro. Di solito non mi pento delle scelte che faccio: nemmeno di quelle sbagliate.
Mi basta seguirle e mi sento soddisfatta.
Ma questa volta non è così.
Non è una di quelle volte dove mi sento compiaciuta di me stessa, dove non ritornerei mai indietro.
Perché ora come ora mi piacerebbe riavvolgere il nastro del tempo fin dove basta per vivere, non dico una vita felice, ma una abbastanza degna.
Perché questa, ahimè, non è ciò che mi sarei aspettata.
Abito a Seattle e mi bastano cinque secondi per essere nel pieno centro di questa città.
Ho acquistato questo bilocale con Jacob, un mio caro amico.
Ho diciotto anni e mi sento ancora una ragazzina nonostante non lo dimostro più.
Mi sento persa e sofferente, non è vero tutto ciò che ti dicono quando sei piccola. Non si è mai grandi abbastanza per certe situazioni e non si è mai abbastanza piccoli per altre.
Non vorrei essere qui.
E’ sbagliato questo posto, non mi sento bene, non mi sento a mio agio.
Non è casa mia.
Sì proprio così: non lo è ne lo sarà mai.
Non mi sento al sicuro e non è accogliente come quella piccola villetta a Forks dove vivevo con i miei genitori.
Quella graziosa villetta al largo del boschetto di conifere, dietro casa, dove sono nata e cresciuta; colei che mi ha protetto nei momenti più bui che mi ha supportato nei momenti di incertezza e che mi ha amato nei momenti di felicità: casa mia.
So che dovrei svuotare gli scatoloni prima che Jacob arrivi a casa dal lavoro ma la voglia e la buona volontà da qui a tre mesi sono scemate via, lentamente.
So anche che dovrei preparare qualcosa di buono per lui, la mia famiglia a tutti gli effetti ora ma la creatività al momento è pari a zero.
Non vedo i miei genitori da sei mesi, non vogliono vedermi.
E mi mancano.
Ho bisogno del carattere pazzo di mia madre e di quello burbero di mio padre, ne ho un assoluto bisogno, ma so che per loro non esisto, non più oramai.
Ecco perché vorrei riavvolgere il nastro.
Se non avessi fatto quello che ho fatto otto mesi fa ora sarei a Forks, sul divano davanti al camino assieme a mia madre. Domani andrei a scuola e prima passerei da casa di Angela per quello strappo quotidiano che mi faceva stare bene.
E se anche non vedrei più lui sarei comunque felice.
Un vagito acuto irrompe nella stanza e sono costretta, mio malgrado, ad alzarmi dal divanetto accanto alla finestra e avvicinarmi alla culla azzurra in mezzo a tutti quegli scatoloni.
Aaron muove le gambe e le braccia, in cerca della sua mamma.
Io.
Lo prendo con delicatezza e me lo poggio al petto, gli bacio la testa.
Ha i capelli neri come le ali di corvo e gli occhi color del cioccolato, come i miei.
Ma la pelle è scura, come quella del suo papà.
Amo il mio bambino.
Molti credono che non provo assolutamente nulla ma non è così: l’ho amato sin da subito e ancor di più quando è uscito da me, tre mesi fa, riempiendo quel vuoto lasciato dai miei genitori nella mia vita.
Aaron è tranquillo, coccolone e tremendamente dolce.
Aaron è la conseguenza di quello che ho fatto otto mesi fa.
Ma non me pento, non di lui, non del mio bambino perché nonostante tutto è la cosa più bella che ho prima di Jacob.
Mi stringe i capelli nel suo minuscolo pugnetto e mi sfiora il collo con le labbra.
Il rumore della chiave nella toppa mi fa sobbalzare e Aaron si veglia da quel piccolo sonnellino tra le mie braccia, tra le braccia della sua mamma.
I capelli neri di Jacob spuntano nel soggiorno e via via tutto il suo corpo che si richiude alle spalle la porta, vi mette il catenaccio.
Ci sorride, i denti bianchi che hanno un forte contrasto con la sua carnagione scura.
Appoggia lo zainetto su uno degli scatoloni contenenti dei libri poi si sfila la giacca che appende all’appendiabiti accanto alla porta.
Si avvicina e mi bacia la fronte, con affetto.
Jacob mi ha sempre fatto stare bene, è il mio angelo, il mio protettore, mio fratello.
Jacob ha diciannove anni e lavora in un negozio di articoli per la casa nei giorni feriali mentre il sabato mattina presso la pasticceria sotto casa.
E’ andato al lavoro anche oggi per un fortuito caso ma in cambio gli cederanno un aumento nella paga dell’ultimo mese.
Me lo prende dalle braccia e se lo stringe al petto coccolandolo a più non posso: Aaron sarà un bambino ultra viziato me lo sento.
“Non hai ancora svuotato gli scatoloni?”, mi domanda sorridendo e io scuoto la testa guardandomi intorno: non sono poi molti, da casa mia ho portato solo i miei affetti e i vestiti, è stato Jacob a portare i mobili e gli utensili oltre che a tutto il necessario per riempire una casa.
Penso sia stata una benedizione per lui venire ad abitare qui. Suo padre Billy è morto circa cinque mesi fa quando ancora io ero incinta di Aaron lasciando la piccola casetta rossa al figlio e tutto ciò che conteneva.
Ma per Jake diventò difficile viverci. Le ricordava troppo il padre e la madre, morta precedentemente, per non parlare di quelle sorelle che non vedeva da anni che non avevano neppure partecipato al funerale di Billy.
Penso di avergli fatto un piacere tutto sommato, un enorme piacere.
“Non ne hai voglia?”, mi attira a se con un braccio e mi appoggio a lui con le lacrime agli occhi mentre accarezzo la testa piena di capelli di nostro figlio.
“Passerà Bells, passerà anche questo periodo, i tuoi genitori ritorneranno da te, ti perdoneranno, sei l’unica figlia che hanno, dannazione”, cerca di non alzare troppo il tono della voce ma so che se non ci fosse Aaron ora starebbe urlando.
Scuoto la testa e infilo il viso nel suo collo, vicino a quello del bambino.
E’ inutile continuare con questa messinscena.
Sono loro ora la mia famiglia.
Il mio migliore amico e mio figlio, nostro figlio. Devo dimenticarmi della vita che conducevo prima, di quella vita semplice e monotona.
“Grazie Jake”, sussurro al suo orecchio prima di staccarmi da lui. Prendo il taglierino dalla tasca posteriore dei miei jeans e taglio lo scotch dello scatolone che dice “Cucina”.
E’ ora di cominciare ad arrangiarsi, di fare la brava madre e la brava amica.
Sorrido nel sentire Jacob giocare con Aaron con tutti i suoi mugugni e mugolii degno di un bambino.
“Stasera esco con Clotilde, non ti dispiace vero?”
Mi volto improvvisamente, presa alla sprovvista.
Non ci avevo mai pensato prima d’ora. E’ vero, io e lui non stiamo insieme, siamo solo semplici amici ma mi sento un po’ protettiva verso di lui e a tratti gelosa. Forse tutto questo è dettato dalla paura di perderlo per colpa di un’altra donna, non lo so.. o forse perché nella mia mente mi sono sempre immaginata noi tre assieme senza nessun altro.. be’, con una sola eccezione.
Ma non sarebbe giusto, lui ha la sua vita, è il padre di mio figlio ed il mio migliore amico ma è sempre un ragazzo, un uomo: ha bisogno di svago.
Così mi affretto a rispondere, “No, figurati, avrò tempo per coccolarmi Aaron, solo noi due”, e mando un bacio al bambino che mi guarda dalle braccia di Jake mentre metto in ordine la cucina.
“Hai sentito la mamma, piccolo? Ti vuole tutto per se”, gli bacia la fronte poi ritorna a parlare con me, “Sei sicura?”
Risciacquo il lavandino e appoggio il sapone liquido nell’angolo sinistro poi mi accuccio per constatare se il gas è aperto o no.
Prendo una pentola di medie dimensioni, la passo con lo strofinaccio, la riempio d’acqua, accendo il fuoco e la poggio sulle fiammelle. Mi volto verso di lui.
“Sì ma.. lei sa di Aaron?”
E’ da circa un mese che esce con questa Clotilde, detto alla francese, e sembra piuttosto compiaciuto: da quello che mi ha raccontato sembra una ragazza normale, senza troppi grilli per la testa, forse la ragazza giusta per Jake.
“Sì”, risponde, tentenna un po’, “Le ho detto che tu sei la madre ma che non abbiamo una storia, che non ci amiamo.. almeno, non quel tipo di amore”, si affretta a dire alla fine.
Gli sorrido.
“Non ti ha chiesto come mai allora siamo genitori di Aaron?”, è strano di come le persone giudichino quello che abbiamo fatto. Alla fine non si è trattato di nulla di scandaloso ma si sa, la gente prima di ascoltare pienamente tutta la storia si ferma solo su un particolare, di solito quello più.. forte, speciale.
“Le ho detto che eravamo ubriachi”, pesca dalla borsa della spesa una scatola di spaghetti e me la passa assieme al sale grosso mentre con braccio tiene ancora il bambino.
Sbuffo e cerco di aprire la scatola di cartone, “Jake eravamo consenzienti. Molto più che consenzienti”, apro una delle ante degli armadietti e scelgo il sugo da accompagnare alla pasta, prestando attenzione alle espressioni di Jacob e soprattutto alle sue parole.
“Lo so ma.. come pensi l’avrebbe presa? Mi avrebbe fatto un’altra domanda e saremmo entrati nel dettaglio, capisci?”
“Sempre meglio che campare ogni volta la scusa dell’alcohol, no?”, penso di essere d’accordo con lui, penso sia abbastanza difficile da capire per chi non conosce la verità anche perché, me ne rendo conto solo ora, è anche difficile da raccontare.
“Ci siamo solo lasciati trasportare”, sussurro più a me stessa che a lui. Non posso negare che sia stato bellissimo però: Jacob è stato un’amante molto attivo.
“Sì”
Ci guardiamo.
E insieme riviviamo quei momenti pieni di passione e dolcezza, sul suo letto, come fidanzati, non come due migliori amici.
Le sue labbra sulla mia pelle, tra le mie cosce..
Le mie sul suo viso, sul suo petto..
Lui dentro di me, dolce e forte, duro e bollente.
Aaron comincia a gridare interrompendo i nostri pensieri, i nostri ricordi e mi affretto a prenderlo dalle sue braccia e portarmelo al cuore.
“E’ ora della poppata”
Jake mi sorride e si apposta all’angolo cottura in attesa che la nostra cena si cuoci.
 
C’è solo il corpicino di nostro figlio a dividerci nel letto matrimoniale nella camera padronale del bilocale: entrambi adoriamo dormire con lui e i nostri corpi sono cento volte meglio delle sbarre in legno del lettino che ci ha regalato Angela.
La sua cameretta è ancora da sistemare – cosa che farà Jacob durante le vacanze di Natale a cui peraltro non manca molto – e poi dormire con lui mi fa sentire al sicuro, mi fa sentire che lui è al sicuro.
“Domani devo portarlo in ambulatorio, per la vaccinazione”, stringo forte la mano di Jake che mi restituisce la stretta sorridendomi, con quei denti bianchi che luccicano anche al buio.
“A Forks?”
Sapevo che l’avrebbe detto, ma non con così tanta enfasi.
Annuisco e bacio il suo palmo con dolcezza mentre lui sistema con la mano non occupata la coperta sui nostri corpi.
“Bells.. devo dirti una cosa..”
La voce con cui affronta questa conversazione mi dice che non è nulla di buono.
Ed è sempre un male.
“Edward è tornato”
Il mio cuore incespica e riprende a battere in un solo secondo, un cuore in tumulto.
Edward.
Edward è.. è stato.. l’unico uomo che abbia mai amato.
E probabilmente lo sarà sempre. Con lui ho condiviso i momenti più belli della mia vita, con lui ho conosciuto me stessa. A lui ho donato il mio cuore, me stessa, la mia virtù.
A Edward puoi donare tutto ciò che hai, è quel genere di uomo a cui non puoi resistere perché impossibile.
So che mi ha amato, ma l’amore può finire.
L’amore è pericoloso per questo. Perché non sai per quanto può durare.
L’amore non ha una scadenza, è vero.
Ma il mio amore per lui non l’avrà mai.
Di questo ne sono certa.

Per eventuali aggiornamenti su questa storia dirò tutto nell'angolo autrice di Taxi and memories.



  
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