“Siamo diversi.”
L’eco di questa affermazione si propaga infinitamente nella
mia mente; si
infrange nel silenzio dei corridoi vuoti, anonimi, spezzato soltanto
dai passi
lenti e cadenzati delle mie scarpe.
L’infermeria era illuminata dalla luce opalescente delle
candele, così che ogni
cosa brillava di un riflesso lattiginoso ed evasivo, simile ad un cibo
dal
retrogusto amarognolo.
I mobili in stile antico, i letti dalle lenzuola bianche, i muri
immersi in un
sonno eterno…
Anche Remus mi era sembrato sospeso in quell’aspro gioco di
luci e ombre.
L’avevo lasciato, poco dopo: ero uscito, incapace di
resistere a
quell’atmosfera fittizia e di lasciarmi colorare
artificialmente da quei
bagliori traslucidi.
Inizio a vagare senza meta tra gli anditi del castello.
Passo le dita sulla superficie dei muri ruvidi, e osservo i graffi
pallidi
tendersi al rosa.
Comincio a correre, rapido.
La follia mi addita dentro le vene; quel colore si era fatto
più intenso, sino
a divenire di un rosso opprimente, soffocante.
Ansimando, mi fermo e poso la fronte sul vetro gelido di una finestra,
divenuto
presto tiepido al contatto con la pelle calda.
La mano, nascosta in una tasca, trema. Le labbra sono serrate, gli
occhi
schiusi in un’espressione di disapprovazione.
L’aggressiva domanda che da tempo rintronava i miei pensieri,
mi schiaffeggia
senza indugiare.
Perché mi sento
all’improvviso solo?
Mi chiedo se sia giusto chiudersi così in sé
stessi, aprirsi interiormente ad
un mondo sconosciuto, forse onirico; creare un guscio che nessuno
avrebbe mai
dovuto scalfire.
Continuo a domandarmi il perché di questa solitudine, quando
già sono a conoscenza
della risposta.
Accade perché io stesso l’ho desiderato.
E tutto continua a ruotare attorno a questo lucido guscio che mi
circonda come
una plastica argentea, e mi rende simile ad un automa indistruttibile.
Diverso, ma non speciale.
Uno scudo invisibile dietro cui si scruto il mondo.
In alto, così in alto, da sembrare di volare.
Elevato solo da questa mia barriera.
Mia domanda.
Mia incoscienza.
Mi accorgo, forse, di non sapermi sollevare dal suolo, o credo sia solo
una mia
impressione.
Comunque sia, continuo a considerare gli altri diversi.
[Più deboli, più fragili…
Inferiori.
Incapaci di volare in alto, di leggere le sfumature, come invece faccio
io].
Ed ogni mese, quando la consapevolezza del mio intimo status emotivo mi
attanaglia, mi nascondo fuori, nei giardini.
Come oggi, come ora.
E penso.
*
Piove.
Aghi d'argento, acuminati, impalpabili, fendono l'aria senza sosta e
fanno vibrare
ogni sensazione non equilibrata dalla notte.
Tutto risuona sordo, come un'onda che si propaga con troppa
celerità,
infrangendosi, prima o poi, contro un ostacolo.
Mi fanno male gli arti inferiori, bagnati e resi bruniti dalla pioggia.
I pantaloni sono voltati al ginocchio, le pieghe ombreggiate da
acquarelli dai
toni scuri.
Le mie scarpe di tela sono sporche e sento i miei piedi umidi.
Gli alberi si stagliano prominenti, autorevoli, nel firmamento
notturno; perché
di arrendevole, in loro, nonostante la pioggia, v'è ben poco.
Apparenza marmorea, non sbatterebbero ciglio nemmeno sotto la tortura
peggiore.
Come me, dopo tutto.
L'odore di pioggia mi attira vicino ad un faggio, dove la sua
inconfondibile
fragranza mi invade le narici.
La corteggia è umida, le foglie gocciolano.
L'armonica composizione formata dal temporale e dalla natura prende
repentinamente vita nelle mie orecchie, così m'abbandono, in
parte, a
quell'orchestra.
Piacevole. Senz'altro piacevole.
Sento le gambe stendersi, calme.
Il brulichio persistente dissolversi nell’inezia.
Come in un inconsapevole cambio d'azione in cui sono partecipe, la mia
mano
scatta veloce fra i capelli neri, ben oltre la pece, e arriva sino alla
radice
per poi far compiere loro una sinuosa movenza verso sinistra.
La Evans li preferirebbe verso destra, ma ora - in questo esatto
momento - non
m'importa.
La pioggia cade.
Inesorabile.
Poche sono le notti passate ad attendere l'alba in completa
tranquillità.
Con vento e peripezie come compagni.
Sarà la stanchezza mortuaria che minaccia di farmi cadere in
un sonno troppo
pesante, a costringermi a rimanere sveglio anche oggi.
Oppure il semplice fatto che anche Remus è sveglio, ferito,
stremato dopo una
nottata passata a lottare contro se stesso.
Comunque sia, non è questa la notte per riposare, per
affrontare e rendersi
schiavi di incubi troppo grevi di quotidianità.
La mia schiena scivola ruvidamente contro la corteggia umida del
faggio; il
terriccio si accumula sulla mia pelle, che so avere sapore salato.
[Amaro].
- Potter. -
Non ho mai dato importanza alle urla, alle semplici parole.
Figuriamoci ai sussurri.
Eppure, quello, non sono riuscito ad ignorarlo.
Mi volto, e le mie labbra si piegano inconsapevolmente in un sorriso.
[Occhi dischiusi, testa alta.
Il brivido dell'eccitazione frusta senza pentimento].
- Piton. -
Anche la mia voce appare un criptico mormorio.
Ma non importa.
Lui l'ha percepito labile, irruente.
[L'ha percepito].
Le pieghe lente del suo mantello consunto sembrano stemperarsi in una
nebbia
indistinta, dallo sfondo ombroso, notturno, su cui si appoggia
involontariamente. Una misteriosità mal celata che,
d'improvviso, trova sfogo
tra i miei pensieri.
I capelli gli ricadono sporchi sulle spalle piccole e vibranti. L'idea
insensata che quella pioggia possa portargli via sudiciume e ogni
smorfia di
disprezzo verso sé stesso, si fa largo dentro di me senza
che io riesca a
fermarla.
Ha gli occhi fissi verso un punto impreciso fra i solchi del terreno
molle.
Deduco che il suo stare in piedi e la sua rigida posizione, siano
dovuti al
fango venutosi a creare in quella zona.
[E' sporco. E' un Serpeverde ed è suo dovere strisciare].
Le sue scarpe scure e impolverate non mi sembrano tanto diverse dalle
mie,
sporche e bagnate.
Con un secco movimento delle gambe, Piton si piega su se stesso e si
sedie su
una lastra di roccia più chiara.
La pioggia è illuminata, superficialmente, e si riflette in
mille
sfaccettature, come piccolissime lacrime che lacerano la pelle fino ai
tendini.
La luna è nascosta da ampie nuvole prive di spessore.
Muovo le dita verso una tasca, tastando la stoffa dura e le cuciture
invisibili. Il pacchetto di sigarette non c'è.
Impreco tra i denti; lo spiffero sibilato s'infrange contro il fruscio
degli
alberi, nascondendosi in quel muoversi felino fra una foglia e
un'altra.
Piton alza un sopracciglio - il ghigno di vittoria gli increspa i
lineamenti.
[E' sporco.
Eppure non striscia].
Una nube plumbea s'innalza dalle sue labbra, e noto distintamente una
sigaretta
fra le sue dita. Quasi spenta, certo, ma pur sempre una sigaretta.
Il sapore mi arriva rapido sino alla gola, come veleno.
Lo percepisco, ma non concretamente.
[E' il fumo?]
Sapete quando quell'effluvio di pioggia diviene gravoso di profumi? E
gli echi
che produce si espandono nella grandiosità della natura,
sfidando colori e
suoni con la sua fragranza? Ecco.
Tanto ubriaco da non gioire nel veder Piton tossire dopo un secondo e
incerto
tiro.
E' buio.
La sfida sancita, invisibile.
Ma la pioggia continua ad illuminarci.
Ed io continuo a sognare.
- Uh, Piton, ti sei dato al fumo? - freccio divertito, urlando per
farmi
sentire.
La maglietta bagnata aderisce al mio petto ora tiepido: non ho bisogno
di nulla
da stringere, per riscaldarmi. Il mio torso è nudo, pronto
per essere colpito,
accolto, ferito.
Le mani scivolano ai miei fianchi, morte, senza alcun ordine da
eseguire e che
è stato loro impartito.
Severus Piton, al mio contrario, non nasconde un certo nervosismo.
Il fremente bisogno vivo di aggrapparsi a qualcosa - a qualunque cosa -
pur di
mettere barriera fra me e lui.
- Cosa vuoi, Potter? - mi chiede, alzandosi di scatto dalla sua
postazione. La
voce non nasconde il disprezzo, ma tutto è calcolato.
Tutto rispecchia la normalità, ciò che deve
essere e non può cambiare.
- Nulla, Piton. - replico, fissando i suoi polsi sottili, troppo
sottili, che
sembra non possano reggere le mani sproporzionate, - Come mai qui? -
Le unghie sono sporche, le pieghe delle dita nascondono piccoli
granelli di
polvere.
Io non lo vedo - non riesco a vederlo, sebbene abbia stretto
ostinatamente gli
zigomi - anche se mi piacerebbe.
- Potrei chiedere lo stesso di te, Potter. - sibila Severus, - Mi da'
enormemente fastidio il tuo sguardo, sai? -
Alzo le spalle, noncurante.
- Fatti una doccia, Piton, ti conviene. - gli consiglio, ridendo.
Nessuna risposta da parte dei miei compagni. Scordavo che i miei
fratelli non
sono con me... solo vento e pioggia, solo loro.
E Lui.
- Molto spiritoso, Potter. -
Potter. Potter. Potter.
Il mio cognome si dilania nella mia mente senza fermarsi. Mi sorge il
dubbio
che, per questa notte, potrei provare a chiamarlo per nome,
perché forse anche
lui sente il suo cognome rimbombare senza sosta nella sua testa.
Carico di astio.
- Al tuo contrario, io sono divertente. -
Scoppia in un riso sarcastico, ma la mascella serrata lo contraddice.
Chiudendo
gli occhi, non nego che mi piacerebbe sentirlo ridere più
spesso.
Sarà la notte.
La pioggia.
Il vento.
I miei compagni.
Voglio troppo da un Piton che non mi ha mai dato nulla, se non insulti
gratuiti
e odio ben oltre l'immaginabile.
Eppure, continuo a volerlo.
- Cos'è, Potter, stanotte mi fissi incessantemente... - la
voce ironica dal
timbro basso, la parlantina veloce.
Il nero desiderio che non lascia trasudare un minimo di malizia,
perché io - lo
sa - potrei deriderlo.
- Saranno le tue scarpe sporche, come tutto in te. -
L'ammissione involontaria di una scheggia di verità.
Il mantello che indossa è pesante; le gocce d'acqua
scivolano in continuazione
nel buio della notte: attraversano le sue minute spalle, le sue braccia
esili,
sino alle sue nocche bianche. Nel cappuccio spiegazzato ristagna un po'
d'acqua.
Le scarpe scure, di seconda mano, sono sordide come le mie, lo ripeto,
cercando
di convincermi.
- Ah si? - corruga piano la fronte, - E con questo? -
- Niente. -
Il fango copre le apparenze, ma sotto - al di sotto della buccia sporca
- noi
siamo simili.
Ma tu questo non lo puoi capire...
Tu crederai sempre che la pioggia leggera porterà via ogni
cosa, come anch'io
pensavo e confidavo.
Crederai che l'orgoglioso vento che sfida chiunque, spazzerà
via da te ogni
sentimento che reputi fittizio, erroneo.
Crederai che questi compagni, di notte, ti staranno vicino e ti faranno
dimenticare, illudere, sino all'alba.
Ma io so che non è così.
Che non può essere così.
Perché quelle scarpe sono infangate, la loro suola tanto
sporca che un semplice
incantesimo non basterebbe per pulirla interamente, e i lacci cadono
distratti
trascinandosi nel terreno.
Come le mie.
Identiche.
Gemelle.
Solo una marca, un tessuto, un passato diverso a distinguerle.
Nulla più.
Scoppio a ridere, buttando la testa indietro. I capelli sono
appiccicatici,
mossi flessuosamente verso sinistra.
Mi tolgo le scarpe, continuando ininterrottamente a ridere. Piton mi
fissa con
aria interrogativa, schiudendo appena le labbra secche, aride.
I calzini bianchi cadono fra la vegetazione erbosa con un leggero
fruscio di
approvazione.
E' caldo, il terreno.
Anche se piove, anche se il vento minaccia di screpolare la mia pelle.
[Sono miei compagni?]
- Che diavolo fai? -
- Vieni. Togliti le scarpe... -
Lui si allontana di un passo, schifato.
Eppure è sporco - mi ripeto - è così
sporco che anche se mi gettassi nel fango
non raggiungerei il suo livello.
- Tu sei pazzo, Potter. - proferisce, dopo un attimo di riflessione, -
Io... -
- Entra, Piton, che ti costa! Tanto resterai qua fino a domani mattina,
io lo
so... -
Occhi neri, tanto neri da sembrare privi di cornea.
Occhi morti, tanto morti da sembrare privi di anima.
- No. -
Il rifiuto.
La mera verità.
Lo vedo allontanarsi di corsa, le braccia graffiate dagli alberi, il
volto
nascosto nell'ombra.
Crederà sempre che la pioggia scivolerà sul suo
scudo, ripulendolo da chi -
come me - ha provato ad infrangerlo.
Crederà che quello scudo di sporcizia, di alterigia, di
disprezzo lo distingua
da me.
Dagli altri.
Ma io so che non è così.
Perché sotto quel fango siamo simili.
L’ho visto.
Il mio sguardo si posa ferreo su quel paio di scarpe ormai
inutilizzabili.
Le prendo e le getto oltre.
Dove lui - se vorrà - potrà trovarle.
E il mio
scudo,
d’improvviso, s’infrange in migliaia di frammenti.
Simili a luminose gocce di pioggia.
Sfaccettati come diamanti.
Taglienti come lacrime.
E mi accorgo di non aver mai volato.
Grazie a Giulia, la mia mammaReki, che ha trovato il tempo di betare le mie innumerevoli bozze nonostante la scuola e gli esami.
E grazie anche a Hiei, che ho tanto maltrattato per la lentezza nella pubblicazione dei risultati e che invece è stata più rapida del previsto.
I miei complimenti alla RoSs e a Cetty.
Linnie